By La Provincia (Cremona)
Barbara Caffi
Il patto è di non fotografarla se non di spalle, perché là, nel suo Iraq, vivono la sua famiglia e la sua comunità. Borsa di jeans a tracolla, il volto pronto a oscurarsi di preoccupazione come ad aprirsi in sorrisi contagiosi suor Caroline nasconde la sua forza in un fisico minuto. E’ una religiosa cattolica di rito caldeo e fino a poco tempo fa viveva a Mosul, in una zona che da giugno è controllata dall’Isis.
Da alcuni mesi è a Roma per motivi di studio — è già medico, si sta specializzando in Comunicazioni sociali all’Angelicum — ed è di passaggio a Cremona, dove è ospite delle suore del Rifugio Cuor di Gesù di via Bonomelli. Se parla è per «raccontare la verità», per testimoniare ciò che ha appreso dalle consorelle costrette a lasciare il convento in una notte d’estate o ciò che le raccontano i parenti da Bagdad.
Barbara Caffi
Il patto è di non fotografarla se non di spalle, perché là, nel suo Iraq, vivono la sua famiglia e la sua comunità. Borsa di jeans a tracolla, il volto pronto a oscurarsi di preoccupazione come ad aprirsi in sorrisi contagiosi suor Caroline nasconde la sua forza in un fisico minuto. E’ una religiosa cattolica di rito caldeo e fino a poco tempo fa viveva a Mosul, in una zona che da giugno è controllata dall’Isis.
Da alcuni mesi è a Roma per motivi di studio — è già medico, si sta specializzando in Comunicazioni sociali all’Angelicum — ed è di passaggio a Cremona, dove è ospite delle suore del Rifugio Cuor di Gesù di via Bonomelli. Se parla è per «raccontare la verità», per testimoniare ciò che ha appreso dalle consorelle costrette a lasciare il convento in una notte d’estate o ciò che le raccontano i parenti da Bagdad.
«La nostra casa a Mosul - ha ricordato nella redazione de «La Provincia», dove è stata accompagnata da Maria Emilia Giordano,
ex viceprefetto molto attiva nel volontariato, e dov'è stata
intervistata anche dal collega Gianpiero Goffi - era divisa in tre
parti. In una ci stavamo noi sorelle, l’altra era una casa per donne e
l’altra ancora una casa di riposo. Il 9 giugno scorso, intorno alle 18,
si è capito che la situazione stava precipitando e i frati francescani
del convento di fronte al nostro hanno comunicato di tenersi pronti ad
andarsene. Alle due del mattino le suore sono state costrette a lasciare
la casa e dopo undici ore di cammino hanno raggiunto una zona peshmerga
del Kurdistan. Ora sono lì, vivono in una scuola e hanno ripreso la
loro attività. Sappiamo che a Mosul — ha proseguito suor Caroline —, gli
uomini dell’Isis hanno cercato di distruggere la Croce del nostro
convento, l’hanno spezzata e sopra ci hanno messo la loro bandiera nera.
Dai cristiani sono passati casa per casa: non tutti erano riusciti ad
andarsene, gli anziani e i malati non potevano muoversi. A loro l’Isis
ha imposto quattro condizioni: la conversione, il pagamento di una
tassa, l’allontanamento o l’uccisione. A un nostro vicino paralizzato
hanno fatto trovare un’auto e l’hanno mandato via. Però nessuno di
quelli costretti ad andarsene ha potuto portare via nulla, né soldi né
documenti, niente».
Nel dopo Saddam, la vita a Mosul non era facile per i cristiani.
Divisa dal fiume Tigri, la città — la Ninive assira che oggi conta quasi
tre milioni di abitanti — «nella zona est era di fatto controllata da
al Qaida, malgrado la presenza dell’esercito del governo centrale di
Bagdad». A ovest, a partire dal 2004 vennero uccisi diversi sacerdoti e,
tra loro, anche il vescovo caldeo Paulos Faraj Rahho, «rapito e morto durante il sequestro, sul suo corpo c’erano segni di violenza». Era caldeo anche padre Ragheed Ganni,
ucciso nel 2007 con quattro diaconi dopo aver celebrato la messa in
parrocchia. «Il vescovo — ricorda suor Caroline — gli aveva suggerito di
andarsene, ma lui diceva: ‘sono nella Casa di Dio’. Era conosciuto
anche in Italia, anche lui aveva studiato all’Angelicum».
Si torna a parlare del presente, dell’Isis iracheno, «che non è
quello di Siria — sottolinea suor Caroline —, è nato inizialmente nella
zona sunnita per contrastare il governo centrale sciita di Baghdad e poi
ha cambiato rotta». Uomini crudeli, violenti, capaci di crimini
efferati. «A Sinjar — racconta la religiosa —, hanno rapito tutte le
donne dai 9 ai 50 anni per ridurle in schiavitù e le hanno messe in
vendita al mercato, ognuna con il proprio prezzo. Ma i musulmani, anche
tra i sunniti non sono tutti uguali. Un capo tribù ha riscattato le
ultime dodici ragazze, le ha portate a casa sua, si è fatto raccontare
la loro storia e poi è riuscito a riportarle alle loro famiglie».
L’Isis poi vorrebbe imporre a tutti gli uomini dagli 11 ai 30 anni di
unirsi alla lotta jihadista, «ma non tutti ci stanno, c’è un movimento
clandestino di resistenza che organizza attentati, segue i rapitori
delle donne e li uccide, ed è un movimento sunnita», sostiene suor
Caroline. In altri casi, però, non è difficile fare presa sulla
popolazione che «dopo trentacinque anni di dittatura, senza libertà e
senza possibilità di comunicazioni, non era preparata alla democrazia.
La mentalità della gente è diversa da quella americana o europea,
l’‘importazione’ della democrazia con l’intervento occidentale è
fallita. E tra alcuni iracheni la nostalgia per Saddam si avverte», dice
la religiosa. Per contrastare l’Isis anche oggi si ipotizza un
intervento militare, la Turchia pare pronta a inviare truppe via terra.
Suor Caroline non ha risposte: «Sì — dice —, i curdi della Turchia
vorrebbero aiutare i curdi iracheni. Ma il governo di Bagdad non vuole
nessuno nel suo territorio. Il Kuwait, invece, dopo essere stato
minacciato dal Califfato ha chiesto l’aiuto degli Stati Uniti, gli
americani sono lì». Il pensiero va alle guerre del Golfo, che a loro
modo furono uno spartiacque nei rapporti tra l’Occidente e l’Iraq.
«Saddam era laico, lo è rimasto fino alla fine — ricorda —, però dopo il
2000 sono cambiati i programmi scolastici. Io ho studiato la storia
europea, chi è venuto dopo ha potuto studiare solo l’Islam».
Oggi, e non solo nelle zone conquistate dal Califfato, essere
cristiani in Iraq è un rischio quotidiano. La famiglia di suor Caroline —
padre ingegnere, mamma insegnante — vive a Baghdad. Una sua sorella è
rimasta coinvolta in un attentato con il marito: lui è morto, lei ne ha
avuto il volto devastato. Un’altra sorella e la cognata sono catechiste,
una nipote canta nel coro della chiesa anche se ormai l’esercito
iracheno non difende più le chiese e sono sospese tutte le attività
tranne la messa: «Loro sono più forti di me — dice suor Caroline —, io
ho paura per loro, ma mio padre mi dice sempre: ‘vado nella Casa di Dio’
e so che mia nipote prova una felicità grandissima quando canta in
chiesa. Spesso, dopo ogni telefonata, piango, loro non hanno paura e io
sì, tanta».
L’Angelicum ha sede a Santa Sabina, all’Aventino. Dal vicino giardino
degli Aranci, Roma offre di sé un panorama struggente. Ma il desiderio
di suor Caroline è di tornare in Iraq. Rinuncerebbe anche a finire gli
studi, ma la sua superiora per ora le ha negato il permesso: «Almeno tu
hai un letto», le ha detto, ricordandole che le sue consorelle in
Kurdistan dormono tra i banchi di una scuola e al mattino devono fare
spazio ai ragazzini. «La mia comunità è là — però suor Caroline — è là
che voglio tornare».