By Radiovaticana, 20 settembre 2010
Resta drammatica la situazione delle comunità cristiane del nord dell’Iraq attanagliate da violenza e povertà. Nella zona si concentrano molti cristiani fuggiti da città come Baghdad o Mosul e del loro dramma parla un lungo reportage pubblicato dal sito Ankawa.com e citato da AsiaNews. Il documento mette a fuoco, in particolare, la condizione delle famiglie emigrate nei villaggi del distretto di Zakho, nel governatorato di Dohuk, provincia semi-autonoma del Kurdistan iracheno. Qui imperversano disoccupazione, povertà e carenza di servizi base, cibo, carburante e nessuna prospettiva per il futuro. Il problema principale è la mancanza di lavoro, che ha costretto numerosi capi famiglia a cercare occupazione a Baghdad o nella vicina Erbil. I bambini lasciano la scuola per la difficoltà di dover studiare in curdo, una lingua a loro sconosciuta. Quelli che, invece, proseguono gli studi spesso non riescono neppure a comprare il materiale scolastico, che è molto costoso rispetto ai guadagni di una famiglia media. In molti spiegano che la difficoltà nel trovare lavoro è dovuto al fatto che le opportunità maggiori sono legate al settore agricolo, in cui però nessuno degli emigrati dalle città ha sufficiente esperienza. Per sopravvivere, in pratica, si fa affidamento totale sugli aiuti offerti dalle organizzazioni umanitarie e dalla Chiesa. I responsabili della comunità cristiana locale riescono a distribuire circa 50 dollari al mese a famiglia, cifra non sufficiente a soddisfare le esigenze neppure dei nuclei più piccoli. I prezzi dei generi alimentari aumentano per l’assenza di un controllo da parte delle autorità. Molte famiglie possono usufruire delle razioni alimentari fornite dal governo solo nelle loro città di origine; ma andarsi a rifornire a Baghdad, Basrah o Mosul significa ogni volta una notevole spesa per il trasporto e soprattutto un grande rischio data l’insicurezza che caratterizza questi centri. La mancanza di cibo si somma a quella di carburante e servizi base. Dal canto suo, il governo curdo garantisce assistenza medico-sanitaria gratuita, fornisce acqua ed elettricità, ma i servizi pubblici sono scarsi: le strade sono dissestate, la scarsa pulizia nei villaggi e nelle città contribuisce al proliferare di malattie ed epidemie. Scarseggiano, inoltre, alloggi dignitosi per il gran numero di persone arrivate al nord in fuga dalle città negli ultimi sei anni. In molti sono costretti a vivere ammassati nei conventi o nelle parrocchie: due o tre famiglie a stanza. La povertà dilagante è legata anche al fatto che si sono spesi tutti i risparmi per permettere ai giovani di emigrare fuori dall’Iraq in modo più o meno legale. Per i ragazzi, ormai, nel Paese non vi è più futuro e data l’aggravarsi dell’instabilità, legata all’empasse politico, emigrare all’estero è vista come l’unica speranza. Frustrazione e depressione sono sentimenti diffusi e legati anche alla consapevolezza di aver perso tutto. Le famiglie arrivate dal quartiere di Dora, a Baghdad, raccontano di aver lasciato le loro case ai vicini perché ne garantissero la sicurezza, ma che gruppi armati le hanno confiscate con la forza costringendo gli abitanti della zona a indossare il velo o pagare la tassa per i non musulmani. (M.G.)
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Resta drammatica la situazione delle comunità cristiane del nord dell’Iraq attanagliate da violenza e povertà. Nella zona si concentrano molti cristiani fuggiti da città come Baghdad o Mosul e del loro dramma parla un lungo reportage pubblicato dal sito Ankawa.com e citato da AsiaNews. Il documento mette a fuoco, in particolare, la condizione delle famiglie emigrate nei villaggi del distretto di Zakho, nel governatorato di Dohuk, provincia semi-autonoma del Kurdistan iracheno. Qui imperversano disoccupazione, povertà e carenza di servizi base, cibo, carburante e nessuna prospettiva per il futuro. Il problema principale è la mancanza di lavoro, che ha costretto numerosi capi famiglia a cercare occupazione a Baghdad o nella vicina Erbil. I bambini lasciano la scuola per la difficoltà di dover studiare in curdo, una lingua a loro sconosciuta. Quelli che, invece, proseguono gli studi spesso non riescono neppure a comprare il materiale scolastico, che è molto costoso rispetto ai guadagni di una famiglia media. In molti spiegano che la difficoltà nel trovare lavoro è dovuto al fatto che le opportunità maggiori sono legate al settore agricolo, in cui però nessuno degli emigrati dalle città ha sufficiente esperienza. Per sopravvivere, in pratica, si fa affidamento totale sugli aiuti offerti dalle organizzazioni umanitarie e dalla Chiesa. I responsabili della comunità cristiana locale riescono a distribuire circa 50 dollari al mese a famiglia, cifra non sufficiente a soddisfare le esigenze neppure dei nuclei più piccoli. I prezzi dei generi alimentari aumentano per l’assenza di un controllo da parte delle autorità. Molte famiglie possono usufruire delle razioni alimentari fornite dal governo solo nelle loro città di origine; ma andarsi a rifornire a Baghdad, Basrah o Mosul significa ogni volta una notevole spesa per il trasporto e soprattutto un grande rischio data l’insicurezza che caratterizza questi centri. La mancanza di cibo si somma a quella di carburante e servizi base. Dal canto suo, il governo curdo garantisce assistenza medico-sanitaria gratuita, fornisce acqua ed elettricità, ma i servizi pubblici sono scarsi: le strade sono dissestate, la scarsa pulizia nei villaggi e nelle città contribuisce al proliferare di malattie ed epidemie. Scarseggiano, inoltre, alloggi dignitosi per il gran numero di persone arrivate al nord in fuga dalle città negli ultimi sei anni. In molti sono costretti a vivere ammassati nei conventi o nelle parrocchie: due o tre famiglie a stanza. La povertà dilagante è legata anche al fatto che si sono spesi tutti i risparmi per permettere ai giovani di emigrare fuori dall’Iraq in modo più o meno legale. Per i ragazzi, ormai, nel Paese non vi è più futuro e data l’aggravarsi dell’instabilità, legata all’empasse politico, emigrare all’estero è vista come l’unica speranza. Frustrazione e depressione sono sentimenti diffusi e legati anche alla consapevolezza di aver perso tutto. Le famiglie arrivate dal quartiere di Dora, a Baghdad, raccontano di aver lasciato le loro case ai vicini perché ne garantissero la sicurezza, ma che gruppi armati le hanno confiscate con la forza costringendo gli abitanti della zona a indossare il velo o pagare la tassa per i non musulmani. (M.G.)
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