Sono oltre cento i corpi tirati fuori
finora dalle macerie a Mosul ovest, dopo il bombardamento del 17 marzo
scorso effettuato dalla Coalizione a guida statunitense e sul quale è
stata aperta un’inchiesta. Se verrà confermata la stima fatta di 200
vittime civili – alcune delle quali potrebbero essere state uccise per
mano dei jihadisti del sedicente Stato islamico – sarà ricordato come
uno dei peggiori episodi di questa guerra. Mosca, intanto, ha chiesto al
Consiglio di Sicurezza dell’Onu un briefing speciale sulla situazione a
Mosul. Roberta Barbi ha raggiunto telefonicamente per una testimonianza, il Patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako:
Mosul ovest è la città antica di Mosul: le case sono legate le une alle altre; non ci sono viali, le macchine non possono entrare ma solo la gente vi può camminare o usare la bicicletta. È una guerra molto complicata e anche tragica: come fare? Come liberare questa parte? Perché questi jihadisti sfruttano i civili… è una tragedia!
L’offensiva delle forze irachene - sferrata il 19 febbraio
scorso per la riconquista di Mosul ovest dopo aver liberato l’est dallo
Stato Islamico - non è proceduta rapidamente come si sperava: a che
punto è?
Le forze irachene hanno liberato il 60-70 percento di Mosul, ma
per il restante 40 la situazione è molto complicata. Le case sono
fragili: non è come la parte est dove le case sono state costruite con
il ferro e il cemento. L’esercito vuole salvaguardare la vita dei
civili, ma penso che sia quasi impossibile.
Mentre nella parte orientale molti decidono di restare, da
quella occidentale si fugge appena possibile. Ma le operazioni
umanitarie si stanno rivelando più difficili e pericolose del previsto. È
davvero così?
Sì è vero, perché la settimana scorsa 500 civili sono morti
sotto le rovine delle case. Anche noi, come Chiesa caldea, abbiamo fatto
una dichiarazione nella quale affermiamo che siamo vicini a questa
gente. Ci sono anche famiglie sfollate: finora 210mila persone sono
sfollate, vivono nei campi, sotto le tende, in condizioni non degne. E
noi la settimana prossima andremo a portare gli aiuti per dire loro che
gli siamo vicini. Mosul è la culla della nostra Chiesa.
Sembra che da Mosul ovest, oltre ai 180mila sfollati già
conteggiati, potrebbero aggiungersene altri 320mila: dove verranno
portati?
Ci sono già dei campi che sono stati preparati nella periferia
di Mosul, un po’ più lontano da questa guerra. Finora sono 400mila i
civili rimasti a Mosul Ovest. Dall’inizio della guerra quattromila
persone sono morte e diecimila case sono state distrutte a Mosul.
Da poco la prima famiglia caldea è tornata nella Piana di Ninive: com’è la situazione per i cristiani laggiù?
Ci sono già cinque famiglie, non solo nella Piana di Ninive ma
anche a Mosul nord. Nella Piana di Ninive, al confine nord – già a
Teleskov, Bakova, Batnaya – lì le condizioni sono sicure e le persone
sono libere di tornarvi. E noi abbiamo aiutato le famiglie che sono
volute ritornare per restaurare le loro case, anche per comprare anche
ciò di cui avevano bisogno. Adesso ci sono quasi 250 famiglie a
Teleskov. Poi a Bakova alcune famiglie sono iniziate a ritornare, e
questa settimana anche a Batnaya. Invece, al confine sud – come a
Qaraqosh – è più difficile perché c’è un problema politico: c’è una
tensione tra gli sciiti, i turkmeni, i sunniti, i curdi e i cristiani. E
questo problema politico non è ancora stato risolto. Ci sono dei segni,
è una presa di coscienza che non si può continuare così: anche il
governo iracheno insieme a quello curdo afferma che bisogna cambiare la
cultura e la mentalità, ma anche le leggi. C’è bisogno di uno Stato
civile, con una separazione tra religione e politica, basata sulla sola
cittadinanza. Non c’è altra soluzione, e non avremo futuro finché queste
tensioni settarie continueranno.