By Tempi
Rodolfo Casadei
«Talal, l’anno prossimo il Natale vogliamo farlo a Mosul, a casa nostra!». Talal abbassa occhi e baffi verso terra. La sua voce squillante si spegne: «A Mosul o in America, o ancora in questa baracca a Erbil, sarà quel che Dio vorrà. Io e la famiglia siamo nel cuore di Dio».
Logica conclusione di un pranzo di Natale condiviso in dieci persone, compreso l’inviato di Tempi, in uno scatolone di alluminio 6 metri per 3 allo Sport Center di Ankawa, moderna struttura polisportiva trasformata in un campo per profughi cristiani della Piana di Ninive dalla metà dell’agosto, e in un villaggio di prefabbricati stile container da poco più di un mese. Duecento scatoloni per duecento famiglie, 1.200 persone circa.
Logica conclusione, dicevamo, perché Talal e parenti hanno trascorso metà del tempo del pranzo a ricordare le buone cose della vita interrotta quattro-cinque mesi fa, e l’altra metà attaccati ai telefonini a parlare coi parenti in California, in Libano e in Turchia. Il cognato ha addirittura un i-phone con skype, e vede sul piccolo schermo i parenti rifugiati ad Ankara con cui parla. Sono lì come richiedenti asilo in attesa di un visto come profughi per gli Usa. Lui ci dice che a metà dell’anno prossimo si trasferisce a Beirut, dove lo aspetta già la moglie, e poi si vedrà. Talal vorrebbe dire qualcosa, ma non può smettere di giocare con quella birba di Milad, il più piccolo della nidiata di quattro figli, due maschi e due femmine. Una cascata di ricci biondi e selvaggi che se la ride della calvizie del papà. E di quella del giornalista ospite.
Alla Messa di Natale celebrata la notte scorsa a un chilometro da qui sotto un grande tendone il patriarca caldeo Louis Sako ha detto che i cristiani devono restare in Iraq perché questa terra è anche la loro, e che il governo nazionale e quello del Kurdistan devono impegnarsi per riconquistare le cittadine e i distretti rurali da cui i cristiani sono stati costretti a fuggire, compresa Mosul. C’erano 1.200 persone, e fra loro, durante l’ora di veglia prima della celebrazione vera e propria, il primo ministro del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani. Ha tenuto un saluto nel quale ha ugualmente incoraggiato i cristiani a non andarsene perché «sono una delle parti essenziali di questo paese e ne sono comproprietari; possono proteggere e vedere protetto il loro passato, presente e futuro qui in questo paese».
Sako è salito fin quassù da Baghdad, dove il patriarcato ha attualmente la sua sede, lasciando l’ausiliario a celebrare la Messa di mezzanotte lì perché voleva essere fisicamente vicino agli sfollati nel momento in cui ripeteva loro l’esortazione a non emigrare. Li aveva già visitati insediamento per insediamento dieci giorni fa. Quando è entrato nel tendone chiesa lo ha accolto un applauso fragoroso, addirittura rafforzato da ululati femminili di approvazione. In agosto aveva detto le stesse cose dentro alla cattedrale caldea di Erbil affollata di profughi appena fuggiti dalle loro case ed era stato contestato e rintuzzato da gente comune che prendeva il microfono per dire tutta la sua disperazione. Stavolta invece l’abbraccio è stato cordiale e sincero. Da parte di una platea di fedeli fatta per metà da gente stabile in città da tempo e per l’altra metà da profughi che vivono dentro a prefabbricati come quello di Talal o dentro a loculi come quello di Aida (la mamma di Christina, la bambina di 3 anni rapita dal Daesh a Qaraqosh quattro mesi fa) all’Ankawa Mall. I loro figli hanno ricevuto un pacco dono distribuito all’altare dal primo ministro curdo!
Ma è un fatto che la gente è stanca, stanchissima.Inumidita, troppo inumidita oggi tanto quanto era soffocata dalla calura in agosto. Allo Sport Center ci sono un alberello e un presepe dentro la palestra che è stata trasformata in chiesa. Nessun altro simbolo natalizio: né luminarie, né festoni, né palloncini stesi fra i prefabbricati, né scritte o disegni come invece si vedono all’Ankawa Mall. Solo alcuni hanno appeso al soffitto di casa palloncini colorati, e qualcuno ha vestito il suo bambino sotto i due anni da babbo natale. Il giorno della vigilia qui la Messa è stata celebrata alle 16 e valeva come quella di mezzanotte. In tanti posti hanno fatto così: siriaci e caldei hanno celebrato in tutto una ventina di Messe in orario pomeridiano per ragioni logistiche e di sicurezza. Il pomeriggio del 24 dicembre ha visto Ankawa riempirsi di posti di blocco; auto sono state fermate e perquisite o controllate col rilevatore di esplosivi, la strada che passa davanti alla cattedrale di san Giuseppe chiusa al traffico. La Messa con Sako e col premier Barzani, che è cominciata alle 21, prevedeva una perquisizione fisica prima dell’ingresso e quella al metal detector delle borse. A quell’ora allo Sport Center la gente era già rintanata in casa o ciondolava di fronte all’edificio principale del complesso. Poi verso mezzanotte si è sentito cantare sguaiatamente: erano i giovani, tornati ubriachi dalla città o ubriacatisi sul posto con cognac e whisky dozzinale comprato in centro.
«Chi vive in Iraq perde tutta la sua dignità, la sua morale, la sua religione. Questo paese prima ti porta via quello che hai fuori, poi quello che hai dentro», dice Sabieh, insegnante di inglese. Un modo enfatico per far capire che anche lui vuole partire.
Passa l’una di notte, ed è tempo di coricarsi. Dormire in una stanza non riscaldata di sei metri per tre in sei persone, sotto una montagna di coperte, non è così male; il vero problema è raggiungere la toilette, 200 metri dalla baracca, in piena notte. La pulizia degli spazi comuni nel campo è rigorosa, anche la mattina di Natale donne e uomini si dedicano soprattutto a dare lo scopone sulla soletta di cemento che sostiene tutti gli edifici del campo e a lavare stoviglie, indumenti e bambini. Ma gli odori della zona latrine sono soffocanti, e uscire senza coprirsi significa, benché la temperatura sia sette-otto gradi sopra lo zero, ritrovarsi in poco tempo fradici di umidità.
Regali di Natale qua non se ne sono visti. Solo un po’ di banconote che i bambini portano da una casetta all’altra incrociandosi come regali degli zii ai nipoti. Si vive di aiuti, più le entrate dei lavori saltuari come manovali, camerieri, commessi di negozio che gli sfollati riescono a praticare. Il governo centrale ha versato 1 milione di dinari (870 dollari) a famiglia una tantum, poi più niente. Cibo confezionato, riso e pane arrivano spesso gratis. Ma la carne, le uova e le verdure fresche bisogna comprarsele. Eppure la colazione nella solita stanzetta è maestosa: quattro tipi di formaggio, marmellata deliziosa, frittata e uova al tegamino. E il pranzo non lascerà a desiderare: carne, riso, uova, verze, verdure e fagioli stufati. «Questa casa è casa tua, questo letto dove hai dormito è il tuo letto, e Milad ti ama». «Anch’io vi amo tutti».
«Talal, l’anno prossimo il Natale vogliamo farlo a Mosul, a casa nostra!». Talal abbassa occhi e baffi verso terra. La sua voce squillante si spegne: «A Mosul o in America, o ancora in questa baracca a Erbil, sarà quel che Dio vorrà. Io e la famiglia siamo nel cuore di Dio».
Logica conclusione di un pranzo di Natale condiviso in dieci persone, compreso l’inviato di Tempi, in uno scatolone di alluminio 6 metri per 3 allo Sport Center di Ankawa, moderna struttura polisportiva trasformata in un campo per profughi cristiani della Piana di Ninive dalla metà dell’agosto, e in un villaggio di prefabbricati stile container da poco più di un mese. Duecento scatoloni per duecento famiglie, 1.200 persone circa.
Logica conclusione, dicevamo, perché Talal e parenti hanno trascorso metà del tempo del pranzo a ricordare le buone cose della vita interrotta quattro-cinque mesi fa, e l’altra metà attaccati ai telefonini a parlare coi parenti in California, in Libano e in Turchia. Il cognato ha addirittura un i-phone con skype, e vede sul piccolo schermo i parenti rifugiati ad Ankara con cui parla. Sono lì come richiedenti asilo in attesa di un visto come profughi per gli Usa. Lui ci dice che a metà dell’anno prossimo si trasferisce a Beirut, dove lo aspetta già la moglie, e poi si vedrà. Talal vorrebbe dire qualcosa, ma non può smettere di giocare con quella birba di Milad, il più piccolo della nidiata di quattro figli, due maschi e due femmine. Una cascata di ricci biondi e selvaggi che se la ride della calvizie del papà. E di quella del giornalista ospite.
Alla Messa di Natale celebrata la notte scorsa a un chilometro da qui sotto un grande tendone il patriarca caldeo Louis Sako ha detto che i cristiani devono restare in Iraq perché questa terra è anche la loro, e che il governo nazionale e quello del Kurdistan devono impegnarsi per riconquistare le cittadine e i distretti rurali da cui i cristiani sono stati costretti a fuggire, compresa Mosul. C’erano 1.200 persone, e fra loro, durante l’ora di veglia prima della celebrazione vera e propria, il primo ministro del Kurdistan iracheno Nechirvan Barzani. Ha tenuto un saluto nel quale ha ugualmente incoraggiato i cristiani a non andarsene perché «sono una delle parti essenziali di questo paese e ne sono comproprietari; possono proteggere e vedere protetto il loro passato, presente e futuro qui in questo paese».
Sako è salito fin quassù da Baghdad, dove il patriarcato ha attualmente la sua sede, lasciando l’ausiliario a celebrare la Messa di mezzanotte lì perché voleva essere fisicamente vicino agli sfollati nel momento in cui ripeteva loro l’esortazione a non emigrare. Li aveva già visitati insediamento per insediamento dieci giorni fa. Quando è entrato nel tendone chiesa lo ha accolto un applauso fragoroso, addirittura rafforzato da ululati femminili di approvazione. In agosto aveva detto le stesse cose dentro alla cattedrale caldea di Erbil affollata di profughi appena fuggiti dalle loro case ed era stato contestato e rintuzzato da gente comune che prendeva il microfono per dire tutta la sua disperazione. Stavolta invece l’abbraccio è stato cordiale e sincero. Da parte di una platea di fedeli fatta per metà da gente stabile in città da tempo e per l’altra metà da profughi che vivono dentro a prefabbricati come quello di Talal o dentro a loculi come quello di Aida (la mamma di Christina, la bambina di 3 anni rapita dal Daesh a Qaraqosh quattro mesi fa) all’Ankawa Mall. I loro figli hanno ricevuto un pacco dono distribuito all’altare dal primo ministro curdo!
Ma è un fatto che la gente è stanca, stanchissima.Inumidita, troppo inumidita oggi tanto quanto era soffocata dalla calura in agosto. Allo Sport Center ci sono un alberello e un presepe dentro la palestra che è stata trasformata in chiesa. Nessun altro simbolo natalizio: né luminarie, né festoni, né palloncini stesi fra i prefabbricati, né scritte o disegni come invece si vedono all’Ankawa Mall. Solo alcuni hanno appeso al soffitto di casa palloncini colorati, e qualcuno ha vestito il suo bambino sotto i due anni da babbo natale. Il giorno della vigilia qui la Messa è stata celebrata alle 16 e valeva come quella di mezzanotte. In tanti posti hanno fatto così: siriaci e caldei hanno celebrato in tutto una ventina di Messe in orario pomeridiano per ragioni logistiche e di sicurezza. Il pomeriggio del 24 dicembre ha visto Ankawa riempirsi di posti di blocco; auto sono state fermate e perquisite o controllate col rilevatore di esplosivi, la strada che passa davanti alla cattedrale di san Giuseppe chiusa al traffico. La Messa con Sako e col premier Barzani, che è cominciata alle 21, prevedeva una perquisizione fisica prima dell’ingresso e quella al metal detector delle borse. A quell’ora allo Sport Center la gente era già rintanata in casa o ciondolava di fronte all’edificio principale del complesso. Poi verso mezzanotte si è sentito cantare sguaiatamente: erano i giovani, tornati ubriachi dalla città o ubriacatisi sul posto con cognac e whisky dozzinale comprato in centro.
«Chi vive in Iraq perde tutta la sua dignità, la sua morale, la sua religione. Questo paese prima ti porta via quello che hai fuori, poi quello che hai dentro», dice Sabieh, insegnante di inglese. Un modo enfatico per far capire che anche lui vuole partire.
Passa l’una di notte, ed è tempo di coricarsi. Dormire in una stanza non riscaldata di sei metri per tre in sei persone, sotto una montagna di coperte, non è così male; il vero problema è raggiungere la toilette, 200 metri dalla baracca, in piena notte. La pulizia degli spazi comuni nel campo è rigorosa, anche la mattina di Natale donne e uomini si dedicano soprattutto a dare lo scopone sulla soletta di cemento che sostiene tutti gli edifici del campo e a lavare stoviglie, indumenti e bambini. Ma gli odori della zona latrine sono soffocanti, e uscire senza coprirsi significa, benché la temperatura sia sette-otto gradi sopra lo zero, ritrovarsi in poco tempo fradici di umidità.
Regali di Natale qua non se ne sono visti. Solo un po’ di banconote che i bambini portano da una casetta all’altra incrociandosi come regali degli zii ai nipoti. Si vive di aiuti, più le entrate dei lavori saltuari come manovali, camerieri, commessi di negozio che gli sfollati riescono a praticare. Il governo centrale ha versato 1 milione di dinari (870 dollari) a famiglia una tantum, poi più niente. Cibo confezionato, riso e pane arrivano spesso gratis. Ma la carne, le uova e le verdure fresche bisogna comprarsele. Eppure la colazione nella solita stanzetta è maestosa: quattro tipi di formaggio, marmellata deliziosa, frittata e uova al tegamino. E il pranzo non lascerà a desiderare: carne, riso, uova, verze, verdure e fagioli stufati. «Questa casa è casa tua, questo letto dove hai dormito è il tuo letto, e Milad ti ama». «Anch’io vi amo tutti».