By Tempi
Rodolfo Casadei
Rodolfo Casadei
La storia di sua figlia ha fatto il giro del mondo,
ma lei non è diventata famosa. Come le mamme delle altre 440 famiglie
ammucchiate dentro all’Ankawa Mall, anche Aida dispone per sé e per i
suoi cari di una stanzetta quattro metri per quattro, ricavata
giustapponendo e incastrando pannelli di alluminio là dove dovevano
allungarsi le navate dei prodotti del centro commerciale. Anziché la
fuga prospettica degli scaffali ricolmi di articoli in vendita, in
questo supermercato in costruzione occupato dai profughi in fuga dalla
Piana di Ninive si succedono corridoi lunghi 50 metri, quasi bui anche
in pieno giorno o fiocamente illuminati, dove l’unica irregolarità delle
pareti lisce è rappresentata dalle piccole maniglie che ogni pochi
metri spuntano a destra e a sinistra. Al terzo piano, una delle prime
sul lato interno apre la porta della dimora di Aida e Toba. Dentro, nel
mesto disordine di chi ha dovuto ricreare l’ambiente di una casa in una
sola stanza, ci vivono in cinque: i due coniugi e tre figli e figlie di
13, 11 e 9 anni. Mancano Osho, il figlio più grande, che ha 23 anni e
vive per conto suo, e soprattutto Christina, la più piccolina: tre anni e
mezzo. Rapita. Letteralmente strappata dalle braccia della madre il 22
agosto scorso, quando i miliziani dell’Isis hanno costretto gli ultimi
abitanti cristiani di Qaraqosh, che i jihadisti avevano occupato
definitivamente il 6 agosto, ad abbandonare la località. I genitori non
avevano soldi da consegnare, la bimba piangeva fra le braccia della
mamma. Il capo dei miliziani si è spazientito e ha fatto segno a uno dei
suoi sgherri. Quello ha preso la bambina e minacciato di morte la mamma
che protestava, quindi ha consegnato la creatura terrorizzata al suo
capo. Da allora madre e figlia non si sono più viste né sentite. Sono
separate da quattro mesi.
Aida
ha esaurito da tempo le lacrime. Il dolore che divora questa donna
43enne si mostra plateale nelle guance e nella fronte percorse da rughe
profonde, nelle occhiaie scure dove si sono incassati gli occhi, nei
riflessi del grigio mare dei capelli, nelle labbra socchiuse nel sorriso
caratteristico di chi trattiene il pianto. «Senza lei il Natale non è
Natale», sospira gettando un’occhiata a una parete. Di Christina rimane
solo una foto dentro a una cornicetta color legno sormontata da due
rosari. Un visetto allegro e chiaro dentro a un abitino verde. Poco più
sotto c’è un quadretto col nome Christina scritto in arabo dalla sorella
undicenne di lei, Bismah. Più sotto ancora, in fondo, c’è lui, Toba.
Intabarrato in una coperta, semisdraiato su di un materasso, l’orecchio
incollato a una radio che trasmette musiche arabe e una sigaretta
sottilissima stretta fra le labbra. Immobile come un manichino. Occhiali
da sole calcati sul naso: da molti anni è completamente cieco a causa
di una retinopatia che ha cercato senza successo di curare. Quel giorno
lui sentiva tutto, ma non poteva fare niente perché niente vedeva.
Invece Aida ricorda tutto quello che ha visto nelle due settimane della
loro tribolazione. «Gli uomini armati che passavano ogni giorno avevano
tre tipi diversi di abbigliamento: c’erano quelli vestiti di nero dalla
testa ai piedi, quelli con l’abito afghano o pakistano e altri ancora in
divisa militare. Erano le divise che si vedevano al tempo di Saddam
Hussein, e io ho pensato che si trattava degli ex baathisti che ci
dicevano si erano alleati col Daesh. Ma tutti, anche quelli vestiti da
afghani e da pakistani, erano sicuramente iracheni, perché li sentivo
parlare e l’accento era quello del nostro paese. C’era uno, vestito da
pakistano, che passava un giorno sì e un giorno no da casa nostra.
Apriva la porta senza bussare e diceva: “Dovete convertirvi all’islam,
oppure dovete andarvene perché qui i cristiani non possono più starci”.
Noi tutte le volte rispondevamo di sì, avevamo paura per noi e per la
bambina (i figli più grandi erano già al sicuro – ndr); lui se ne andava
senza aggiungere altro e dopo un giorno o due ripassava e ripeteva le
stesse cose. Nonostante l’abito, la sua inflessione era irachena».
«Erano
iracheni anche quelli che passavano a svaligiare gli edifici
abbandonati. Arrivavano con dei camion e ci caricavano sopra tutti i
mobili e gli elettrodomestici che trovavano dentro alle case e che
portavano fuori con calma. Non erano jihadisti, erano musulmani sunniti
dei paesi intorno a Qaraqosh. Certi li riconoscevo perché era gente che
veniva in città per fare compere nei nostri negozi. L’unico musulmano
che si è comportato bene con noi è stato il mullah della piccola
comunità islamica di Qaraqosh. Quando avevamo un problema, perché le
nostre scorte di viveri e generi di prima necessità stavano esaurendosi,
andavamo da lui e lui sempre ci aiutava. Intercedeva col Daesh perché
potessimo procurarci quello che ci serviva. Finché siamo rimasti,
nessuno è venuto a rubare da noi. Ma adesso la nostra casa sarà
diventata come tutte le altre».
«L’unica persona di cui non ho potuto capire la
nazionalità è stata proprio l’uomo che ha ordinato di prendere la mia
Christina. Era un uomo fra i 60 e i 70 anni, vestito come un pakistano,
ma aveva una faccia strana: sembrava una di quelle vignette che fanno la
caricatura degli ebrei. Non ha parlato mai, dava ordini coi gesti.
Anche per farmi portare via la bambina ha fatto un segno con la testa».
Dov’è adesso Christina, chi la accudisce? Il figlio Osho è riuscito a
sapere che sarebbe stata affidata a una famiglia che vive a Mosul. Li ha
pure raggiunti telefonicamente, e quelli hanno confermato che la
bambina è con loro. Ma non l’hanno fatta parlare al telefono. Alla
richiesta di liberarla dietro pagamento di un riscatto hanno manifestato
disponibilità, ma subito dopo la chiamata si è interrotta. «Da allora
non siamo più riusciti a sentirli. Il nostro vescovo mi ha detto che la
Chiesa è pronta a pagare perché io possa riavere Christina, e che
potevamo comunicarlo ai sequestratori. Ma non li abbiamo più sentiti».
Fuori
dalla claustrofobica stanzetta risuona la musica di una festa. Prima i
bambini hanno giocato e cantato, adesso è il turno degli adolescenti,
che inscenano una specie di sirtaki di ragazzi e ragazze a braccetto. È
incredibile come gli sfollati abbiano trasformato questo antro
spettrale, dove l’unico colore delle superfici costruite è il grigio in
ben più di cinquanta sfumature, in un luogo pulsante di vita e di
colori. Palloncini e panni stesi ad asciugare si contendono il primo
posto come oggetto maggiormente presente negli spazi comuni fuori
dall’alveare delle stanze. I primi sono arrivati col Natale e con lui se
ne andranno, i secondi domineranno la scena fino a quando qui ci sarà
gente. L’aria è umida, il sole non arriva e le stufette elettriche come
quelle a kerosene stanno quasi tutte dentro alle camerette. Poi ci sono
bancarelle di dolciumi confezionati e patatine: il trionfo del commercio
informale là dove doveva regnare incontrastata la grande distribuzione.
Nell’ingresso troneggiano una grotta della Sacra Famiglia e due
alberelli artificiali con palle e festoni colorati. Ma senza luminarie.
Basta un accenno di ombra serale per sprofondare l’Ankawa Mall in
un’oscurità rotta solo dai neon. Lontano una bambina di tre anni e mezzo
pensa alla sua mamma che non vede più da quattro mesi. Quella mamma che
pensa sempre a lei. «Il prossimo Natale vorrei tutta la famiglia
riunita, tutti e sette, prego tanto per questo». Forse le anime sono
capaci di toccarsi a distanza.