By Corriere della Sera
di Riccardo Bicicchi
di Riccardo Bicicchi
«La notte che le bandiere nere sono entrate a Qaraqosh, nella piana di Ninive, ho caricato i manoscritti sul camion, e sopra ho fatto salire le persone, perché dovevo portare in salvo la gente assieme alla memoria della nostra cultura, un popolo senza la propria memoria è un popolo perduto». Padre Najeeb Michaeel, Domenicano, studi in Francia, viveva nel monastero di Qaraqosh, a venti chilometri da Mosul, dove la cristianità è radicata sin dal secondo secolo dopo cristo, dedicando la vita alla ricerca e al restauro di testi antichi. «Non solo testi cristiani, abbiamo sempre raccolto manoscritti musulmani, yazidi, ebraici, armeni e di tutte le comunità che hanno abitato la Mesopotamia: li raccoglievamo, e dopo averli restaurati e inseriti nel nostro archivio digitale li riportavamo nei luoghi da dove provenivano, ecco perché non li ho potuti salvare tutti».
Non può rivelare dove sono custoditi i preziosi codici che è riuscito a salvare dalla furia distruttrice dell’Isis, o Da’ish come li chiamano qui, stato islamico dell’Iraq e della Grande Siria, in arabo: troppo alto il rischio di furti o attacchi, e anche questi frammenti di quasi duemila anni di storia finirebbero in cenere, come i testi rimasti nelle città della piana di Ninive, dati alle fiamme e sacrificati sull’altare della follia integralista. «Salvare questi libri significa affermare che siamo ancora qui, questa è la nostra terra natale, la nostra cultura fa parte di questi luoghi, dagli albori della cristianità, nonostante tutte le difficoltà, le violenze, la paura...so che hanno bruciato tutto, ma questi li ho salvati, e con loro la nostra memoria».
Stretti intorno alle chiese
Città intere sono fuggite in poche ore davanti all’Isis: prima Mosul, poi Qaraqosh, Bartella, luoghi a grande maggioranza cristiana. Ci sono stati trasferimenti di massa ad Erbil, oltre la linea dietro la quale si sono attestate a difesa le forze peshmerga, che in estate si sono ritirate velocemente abbandonando agli uomini in nero tutta la piana. Attendati all’inizio intorno alle chiese, nelle scuole e in ogni angolo del quartiere cristiano di Ankawa, i profughi vi hanno riprodotto i legami sociali. Così sono ancora i parroci - che qui chiamano Abuna, padre, e che hanno guidato l’esodo notturno verso la salvezza -, il punto di riferimento per la loro gente, solo che ora sono diventati il tramite per il cibo, l’acqua, vestiti, coperte, un alloggio, il conforto della speranza di tornare, di uscire da tutto questo. «Ho fatto avanti e indietro sette otto volte quella notte con il furgone» dice Majeet, il segretario del Vescovo di Mosul, anche lui adesso sfollato ad Erbil. «Portavo la gente a metà strada, da lì potevano proseguire a piedi, poi tornavo davanti alla chiesa e facevo un altro carico, l’ultimo erano una quarantina, uno sull’altro. Quando sono tornato non c’era più nessuno, e gli Isis erano dall’altra parte della piazza, così sono scappato anche io».
Più di centomila cristiani, dentro ci sta di tutto. Un sacerdote dice: «Ci sono le categorie anche tra i profughi, purtroppo: c’è chi ha ancora soldi, e può affittare una casa, i prezzi sono altissimi, mille dollari al mese e più; e c’è chi non ha avuto il tempo di portare via nemmeno i vestiti, ma come possiamo distinguerli in mezzo a tutto questo? Solo Dio lo sa». Tra distribuzioni di cibo, vestiti, pannolini, visite alle famiglie, ad ogni piè sospinto c’è sempre qualcuno che si avvicina: «Abuna, devo chiederle qualcosa», e ogni volta sono problemi insormontabili. Qualche volta allarga le braccia, non può dar loro sempre la soluzione che vorrebbe.
Sognando il ritorno
Tutti vorrebbero tornare a casa, ma sanno che le loro case sono state saccheggiate una ad una: quelle degli esponenti più in vista date alle fiamme, nelle altre l’Isis ha messo qualcun altro. Sanno che parecchi dei loro vicini di casa simpatizzano adesso apertamente per il nuovo regime. Nelle città che erano cristiane, se saranno liberate, torneranno poi; ma nessuno ora vuole tornare a stabilirsi in una città a popolazione mista, andare a vedere se c’è qualcosa da recuperare certamente, ma tornarci a vivere quello no. E infatti in pochi sono tornati nei villaggi a nord di Mosul che i Peshmerga hanno via via ripreso negli ultimi tempi. E allora si rimane nei campi, ad aspettare non si sa bene cosa o quando.
Padre Zuher ha fatto il parroco in Italia per dieci anni, ma è di Qaraqosh. Qui si occupa di cinquanta famiglie sistemate alla meglio in una scuola, adesso è riuscito a farli spostare in una struttura più grande qui vicino. «La vita è come sospesa, i bambini quest’anno non potranno andare a scuola, con effetti devastanti sulla loro personalità, diventano aggressivi, stiamo organizzando lezioni e momenti di svago nei vari centri, ma sono così tanti...».
Tra gli sfollati chi conosce un mestiere di una qualche utilità cerca di rendersi utile. Padre Behnam è riuscito ad organizzare una clinica ed un paio di unità mobili dove i medici fuggiti dalle città in mano all’Isis prestano gratuitamente la loro opera, con attrezzature di fortuna. «Siamo già a quota trentamila prescrizioni mediche, ma manchiamo di tutto: per le patologie lievi possiamo fare qualcosa, il problema sono le malattie gravi davanti alle quali possiamo fare ben poco».
L’inferno dell’Ankawa Mall
La maggior parte dei cristiani che stavano nelle tende leggere, buone forse in piena estate, li stanno adesso concentrando in grossi palazzi in costruzione, posti allucinanti che a salire le scale sembra una discesa all’inferno al contrari. Il peggiore di tutti è un centro commerciale che si chiama “Ankawa Mall”: da fuori sembra finito, ma dentro è uno scheletro di cemento grezzo dove l’umidità ristagna in grosse pozze e la gente si è ricavata delle stanzette chiudendo tra un pilastro e l’altro con materiali spesso di fortuna.
Padre Jalal è piccolo, minuto, parla con
voce bassa, l’Ankawa Mall è affidato a lui. «Abbiamo duecento famiglie
qui dentro, almeno c’è un tetto che ripara dalla pioggia, nelle tende è
terribile, ma sentite che freddo in mezzo al cemento nudo, in questo
posto siamo ancora vivi, ma ormai siamo morti». Manca la luce elettrica
quasi sempre, è buio anche di giorno. Sabiha ha centotre anni, viene da
Qaraqosh, passa la giornata in una delle stanzette al terzo piano, sotto
una spessa coperta, sgranando il rosario in continuazione, la voce
flebile che intona una cantilena senza fine. Dal soffitto cadono fiocchi
bianchi, è la muffa che viene giù dal soffitto intriso di umidità,
sembra neve.
E ricopre Sabiha e il suo rosario. Nella stanza accanto una famiglia vive il suo dramma con una dignità che stordisce: lui è cieco, passa la giornata sul materasso ascoltando una radio che rischiara appena un angolo con le luci del display. La moglie avrà meno di quarant’anni, ne dimostra dieci o venti di più, sembra ancora più piccola quando racconta che, mentre scappavano, gli uomini in nero le hanno strappato la figlia di tre anni. «Questa bambina non è più tua», le hanno gridato. Lei spera ancora di ritrovarla, ma si capisce che teme sia finita in vendita come tante altre.
L’Ankawa Mall è un supermarket dell’orrore, un concentrato di tutti i modi in cui l’umanità si può degradare. «Tra un paio di mesi speriamo di riuscire a portare via tutta la gente da lì, stiamo cercando un posto migliore, ma abbiamo più di ventimila famiglie tra la città e la zona circostante, gli ultimi tre mesi sono stati molto duri» dice Monsignor Bashar Warda, arcivescovo di rito caldeo di Erbil, nelle poche pause tra una telefonata e l’altra. Avrà nemmeno cinquant’anni, è un uomo energico, parla senza girare intorno ai problemi. «La storia dei cristiani in queste terre è una storia di persecuzioni, ma questa volta è diverso, questa volta è un massacro: chi pensa che l’Isis sia solo una banda di tagliagole, un fenomeno solo siriano e iracheno si sbaglia grosso, la gente non sa più se sperare in un futuro, abbiamo bisogno che il Mondo ci aiuti». Guarda fisso, a lungo: «So che avete una pesante crisi economica, in Italia, ma so anche che non ci abbandonerete».
E ricopre Sabiha e il suo rosario. Nella stanza accanto una famiglia vive il suo dramma con una dignità che stordisce: lui è cieco, passa la giornata sul materasso ascoltando una radio che rischiara appena un angolo con le luci del display. La moglie avrà meno di quarant’anni, ne dimostra dieci o venti di più, sembra ancora più piccola quando racconta che, mentre scappavano, gli uomini in nero le hanno strappato la figlia di tre anni. «Questa bambina non è più tua», le hanno gridato. Lei spera ancora di ritrovarla, ma si capisce che teme sia finita in vendita come tante altre.
L’Ankawa Mall è un supermarket dell’orrore, un concentrato di tutti i modi in cui l’umanità si può degradare. «Tra un paio di mesi speriamo di riuscire a portare via tutta la gente da lì, stiamo cercando un posto migliore, ma abbiamo più di ventimila famiglie tra la città e la zona circostante, gli ultimi tre mesi sono stati molto duri» dice Monsignor Bashar Warda, arcivescovo di rito caldeo di Erbil, nelle poche pause tra una telefonata e l’altra. Avrà nemmeno cinquant’anni, è un uomo energico, parla senza girare intorno ai problemi. «La storia dei cristiani in queste terre è una storia di persecuzioni, ma questa volta è diverso, questa volta è un massacro: chi pensa che l’Isis sia solo una banda di tagliagole, un fenomeno solo siriano e iracheno si sbaglia grosso, la gente non sa più se sperare in un futuro, abbiamo bisogno che il Mondo ci aiuti». Guarda fisso, a lungo: «So che avete una pesante crisi economica, in Italia, ma so anche che non ci abbandonerete».