"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

23 dicembre 2014

Iraq, festa da perseguitati per i cristiani: sulle tavole razioni Onu

By Corriere della Sera
Lorenzo Cremonesi

Saranno in pochi a consumare il cenone tradizionale tra i profughi cristiani vittime dei jihadisti sunniti e fuggiti nelle province curde dell’Iraq settentrionale. È un Natale da perseguitati in Iraq.
Quasi niente carne fresca per cucinare il «Qubbeh», l’impasto classico con farina e spezie. Le salsicce per il «Bambarq» con la salsa di pomodoro sono fuori portata dalle tasche dei più. Praticamente tutti però avranno nel piatto il «Clecer», il dolce a base di datteri, noci e pistacchi. E pochi si faranno mancare almeno una lattina di birra turca, o, meglio, un bicchierino di «Arak». Ma, per il resto, sulla tavola ci saranno le razioni essenziali donate dall’Onu e qualche pacco regalo giunto dalle Chiese all’estero. Chi vorrà cucinare da sé dovrà invece rassegnarsi alle polverose confezioni di formaggini, i cartoni di uova non troppo fresche, le scatolette di carne, lenticchie secche e tubetti di maionese scaduti recuperati negli spacci dei campi profughi.
C’è ben poco altro sul banchetto all’aperto di Amira Benam, 45 anni, cattolica di rito siriaco, tre volte profuga assieme al marito Imad (51 anni), oggi costretti in un container di metallo nel «Brasilian Sport Academy», che con le sue 232 famiglie costituisce uno dei maggiori centri di raccolta per i cristiani di Erbil. Entrambi originari di Bagdad, fuggiti nella regione di Mosul a seguito degli attentati che colpirono le maggiori basiliche della capitale nel 2005-6, poi andati nel villaggio di Qaraqosh, che la notte dello scorso 8 agosto hanno dovuto abbandonare in fretta e furia all’incalzare delle squadracce dell’Isis per cercare rifugio nel capoluogo dell’enclave curda irachena. campi profughi. 
«Nessuno ha più soldi, la nostra frustrazione ora viene dalla povertà. Quei ladri dell’Isis ci hanno portato via tutto. A Mosul eravamo riusciti a ricostruire una catena di dodici supermercati. Non ci resta nulla», dice rassegnata. Frustrazione e rabbia sono i sentimenti dominanti tra i circa 100 mila cristiani giunti nella zona di Erbil. Due settimane ha piovuto a catinelle, le infiltrazioni hanno intriso materassi e coperte. L’energia elettrica arriva a singhiozzo, che significa riscaldamento precario e illuminazione a candele e lanterne. Molti tra i bambini non possono ancora andare a scuola e la noia segna le giornate. 
Eppure, poteva andare peggio. «A noi cristiani va ancora bene. Le Chiese locali si sono organizzate, la solidarietà internazionale tutto sommato funziona. Nessuno qui muore di fame o freddo. Quasi tutti negli ultimi due mesi siamo stati evacuati dai campi di tende. L’assistenza sanitaria è decente», ammette il 51enne Sardar Massud Qassab, siriaco, che ha avuto cinque figli dalla moglie, la 44enne Amal Matti. Nel loro container sono riusciti anche ad addobbare un albero di Natale e le pareti sono decorate di «Merry Christmas» luminosi assieme a palloncini colorati.
«Pensiamo ai poveri yazidi. I loro uomini massacrati. Le donne rapite, violentate, vendute come schiave. I loro profughi adesso ricevono molti meno aiuti di noi», dice Amal. Tamar, sette anni, la prima dei loro figli, si lamenta però che tante delle sue amichette nelle ultime settimane sono andare all’estero. «Miriam è partita con la famiglia per l’Australia. Malak è andata in Turchia. E Amal va domani ad Amman», piange. Tra i rimpianti sono le memorie del loro universo perduto. «Rapanelli, minestrone povero e cipolle al posto dell’arrosto. Ma questo è ancora poco. Ai tempi di Saddam Hussein noi cristiani iracheni viaggiavamo liberamente da Erbil a Bassora. Adesso non posso neppure percorrere la cinquantina di chilometri da qui a Mosul», sbotta Munzer Suliman, ex guardiano di una delle più antiche basiliche di Mosul, che di recente Isis ha fatto saltare in aria.
Tra gli incarichi che si è dato, oltre a curare le aiuole, c’è quello abbastanza avventuroso di visitare periodicamente lo «Shuq Sheikh Allah», uno dei mercatini dell’usato presso le mura della Città Vecchia di Erbil, per recuperare i suoi beni rubati dall’Isis. «Oltre al danno la beffa - sbotta - I ladroni jihadisti vendono sul mercato nero i nostri mobili. L’altro giorno ho comprato per puro caso il frigorifero che era stato saccheggiato dalla casa del mio vicino a Qaraqosh».
Di tutto ciò parlerà a Federica Mogherini questa mattina anche Bashar Warda, l’arcivescovo caldeo di Erbil che da quasi sei mesi è in prima linea per far fronte all’emergenza. «Alla rappresentante della politica estera europea in visita da noi lancerò un appello molto semplice: non dimenticateci, non abbandonateci».
La sua preoccupazione pare più politica e morale che non materiale: «La cristianità mondiale è stata di grande aiuto. In poche settimane ci sono arrivati contributi pari a oltre sei milioni di dollari. Le organizzazioni cattoliche italiane sono generose. Ma adesso sembra che la comunità internazionale non parli più dei nostri problemi».
Il tema tornerà attuale nei colloqui oggi a Bagdad ed Erbil del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
 Le autorità ecclesiastiche locali vedono tra l’altro molto positivamente la costituzione di unità combattenti cristiane approvate dal governo di Bagdad e agli ordini delle brigate curde. «Abbiamo già reclutato 2.000 uomini, per lo più di rito siriaco e caldeo. Potrebbero rivelarsi molto utili a fare la guardia ai nostri villaggi nella piana di Niniveh una volta che i soldati curdi avranno sconfitto l’Isis, potrebbe avvenire già a nei prossimi due mesi», sostiene Paolo Mekko, uno dei parroci più attivi tra i profughi di Qaraqosh. Al sermone di Natale non mancheranno gli appelli all’«autodifesa cristiana».