"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

27 dicembre 2014

A Erbil la vita rinasce nelle tende

By Avvenire
Luca Liverani, inviato a Erbil


Mentre si trovavano in quel luogo, è arrivato per lei il tempo del parto. Ha dato alla luce suo figlio, lo ha avvolto in fasce e lo ha deposto nella tenda. Perché non c’è più posto, per i cristiani iracheni, nella piana di Ninive. Mariam è nata così, due settimane fa, nel campo profughi allestito presso la chiesa caldea di Mar Eillia, cioè sant’Elia, a Erbil, Kurdistan iracheno. E come lei, pochi giorni prima, il piccolo Elia. Dal 6 agosto 135 famiglie vivono qui, nelle tende azzurre piantate ordinatamente nel giardino della parrocchia, fuggite quasi tutte da Karakosh, 560 persone scampate alla furia fondamentalista del Daesh, lo Stato islamico. Oggi sono 562. Tra la chiesa e le tende ce n’è una piccola, di tela militare, che ospita la prima famiglia di profughi del Medio Oriente, quella di Gesù, Giuseppe e Maria. Qualcuno con lo spray ci ha scritto sopra «Jesus tent», la tenda di Gesù.
«I cristiani iracheni sfollati sono oltre 120mila, da Mosul e dalla piana di Ninive, e molti sono fuggiti all’estero», spiega sul sagrato l’arcivescovo di Mosul, Emile Nona. «Qui c’è bisogno di tutto – sospira – ma la necessità più urgente sono le case. La gente vive in tende, container, in sei famiglie per casa. La carità internazionale c’è, ma il bisogno è più grande dell’aiuto».
Il parroco padre Douglas Bazi, fa strada al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni – arrivato per colloqui con le autorità curde e irachene – nella tenda dove la mamma culla la piccola Mariam. «Ha fatto da Gesù nel nostro presepio vivente», racconta il parroco. Una scelta poco ortodossa... «E chi se n’è accorto?», sorride il sacerdote. Due neonati che sono un raggio di speranza in un clima cupo, coi terroristi a 50 chilometri.
Qui, a ottobre, è arrivata una delegazione Cei e Caritas, guidata dal segretario monsignor Nunzio Galantino. Caritas italiana ha stanziato 210mila euro e ha lanciato gemellaggi con le comunità italiane per acquistare viveri, 150 container abitabili e 6 scuolabus per i bambini.
Padre Douglas spiega che all’inizio si sono mobilitati i parrocchiani: «Ora si sono auto-organizzati, anche per l’educazione dei bambini. È dura, ma è tempo di lavorare, non di parlare, dobbiamo farlo per i ragazzi, per il futuro. Perché la vita non è solo cibo e medicine, abbiamo bisogno di cultura e di identità. Noi cristiani siamo unici qui, e qui vogliamo rimanere. Tre cose dovete fare per noi: pregare, aiutarci, salvarci».
Pochi chilometri da Erbil ce n’è un altro  di campo, quello di Baherka. Qui vivono ben 2.900 persone, tutti appartenenti alle minoranze Shabak e Kakae. Sono anche loro fuggiti precipitosamente da Mosul, ancora sotto il calcagno del Daesh, la cui liberazione per il governo di Baghdad, riferisce Gentiloni «sarebbe imminente ». A differenza del campo nella parrocchia, questo è fuori città, tra i campi e il fango. Grandi capannoni industriali di cemento, funi tirate e spazi divisi da teli. Umidità e squallore. Unhcr, Unicef e le Ong fanno l’impossibile. Soprattutto per i bambini. Entriamo nella tenda dove, su stuoie e tappeti, decine di ragazzini colorano e disegnano su quaderni e libri colorati. E cantano allegri come fossero nella loro scuola. Oltre agli operatori delle agenzie Onu ci sono i volontari di 'Relief International' e delle italiane 'Intersos' e 'Un ponte per'.
«Il nostro obiettivo è dare continuità e serenità a questi bambini, per la loro crescita personale e per quella collettiva di questa gente – spiega  Fabio Mancini, arrivato da Vibo Valentia con Intersos – qui è più semplice raccoglierli, ma seguiamo anche quelli sparsi a Erbil e Shaqlawa». Vicino all’aeroporto di Erbil ce n’è un’altra di tendopoli. Ma qui vivono i militari americani. E da domenica scorsa anche 34 italiani, primo nucleo dei 280 inviati qui a istruire i peshmerga curdi e i militari iracheni all’uso delle armi leggere inviate dal nostro governo. Li comanda il colonnello della Brigata Folgore, Loris Capradossi. Facce dure, spalle larghe. Ma anche il sorriso del tenente dell’Aeronautica Carmen Zappavigna, 25 anni, di Rotondi, provincia di Avellino. Dura fare Natale lontani da casa? «Per molti di noi non è la prima volta. Per me sì, ma non mi pesa sapendo che lo faccio per il mio Paese e per questa gente».