By Avvenire
Luca Geronico
Il salone anche ieri mattina era tutto un vociare e un correre di bambini. Era uno dei più ambiti l’“Accademy” per chi si sposava ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil: banchetti di festa che solo gli adulti ora ricordano. In questi giorni di vigilia, grazie all’impegno del “Jesuit refugee service”, per i ragazzi sfollati da Qaraqosh e Bartalla quel salone è come il surrogato della veglia di Natale e della recita a scuola. Il surrogato della normalità che si cerca a forza di ricostruire.
Un Natale a turni: 180 ragazzi alla volta provenienti da Ankawa Mall e dagli altri centri di raccolta, in cui opera il team Focsiv. Sono gli abituali canti dell’animazione, questa volta con una particolare intonazione natalizia: al termine un piccolo buffet con dolce natalizio, per dare senso a delle mattine diverse. Centrale l’intervento di padre Jalal: poche frasi per infondere serenità e scaldare il cuore, pensando al mistero dell’Incarnazione.
Il giorno di Natale – proclamato per la prima volta festivo dal governo della regione autonoma del Kurdistan – sarà, poi, la Messa celebrata nei campi profughi e nelle numerose chiese di Ankawa a dare speranza alla difficile resistenza dei profughi cristiani. Il primo Natale da esuli, il primo senza la “Parola” annunciata in aramaico e il pane spezzato a Mosul e nella Piana di Ninive dall’anno 300: una nostalgia che attanaglia il cuore, mentre la speranza è sorretta solo dalla fede. Dagli altoparlanti la musica inizia a sormontare il fruscio delle voci: l’effimero del Natale per non lasciare soli e aprire una speranza non caduca. La Natività, sotto la stella, è una resistenza e una speranza, per affrontare l’inverno.
Pochi chilometri più in là, e la “piccola Betlemme” nel salone dei profughi, sembra persino un lusso. Quel piazzale doveva essere un giardino del Divan Hotel, il più lussuoso albergo nel cuore di Erbil. Uno spiazzo spettrale, per chi bussando alla porta di questa Betlemme del Kurdistan “non ha trovato posto nell’albergo”. È l’ultimo contatto del team Focsiv a Erbil, frutto di una segnalazione e della ricerca, da parte di un donatore dell’Acnur, di «casi limite da aiutare anche al di fuori della zona cristiana». Sono in tutto 14 famiglie di yazidi, un centinaio di persone: quelle casupole del vecchio cantiere o le tende rudimentali, per loro sono comunque una meta agognata.
Lo scorso agosto la fuga, per scampare alla morte: «Baran aveva 21 anni, era una ragazza bellissima», spiega la madre mostrando con mano tremante la carta d’identità plastificata. Lo Stato islamico era appena arrivato anche a Shangal, nei monti del Sinjar. Giornate intere sotto le bombe, quando una di essa scoppiò a pochi centimetri dalla bombola del gas. Baran, ferita gravemente, venne portata subito all’ospedale in mano agli uomini del Califfato. «Non era un guerrigliero. Eravamo due donne yazide», afferma la madre. Per i terroristi dell’Is non vale la pena curare una ragazza. Baran muore poche ore dopo il rientro a casa. «Ho usato i miei vestiti per ricoprire mia figlia che è stata subito portata lontano e sepolta». La morte di Baran, come un comando per tutto il clan: «Abbiamo capito che bisognava scappare».
Una fuga tremenda, dieci giorni a piedi sulle montagne al limite della capacità di sopportazione: «Quando le nostre scarpe si sono disfatte, abbiamo avvolto i piedi con indumenti per arrivare in Siria a piedi». Tutti gli yazidi ora nel “giardino” del Divan Hotel, hanno temuto di morire di fame o di sete. La Siria, come prima tappa, e non definitiva: dalla Turchia fino a Zakho, appena oltre il confine fra le montagne del Kurdistan iracheno. Era estate e sfruttando una carovana di camion che portava aiuti gli yazidi di Shangal sono giunti a Erbil, dietro il bel muro di cinta del Divan Hotel.
Un cantiere dismesso, con casupole completate con teli, assi e lamiere a disegnare pareti e un po’ di intimità. Abitazioni di fortuna in uno spiazzo pieno di insidie: in una buca colma d’acqua Ranak, di soli tre anni, poche settimane fa è annegata. Era una di quei bambini che miti e sorridenti, corrono incontro ai volontari Focsiv. Nel giro di poche ore al “giardino” del Divan Hotel portano latte in polvere e pannolini, e due fornelli a gas, per dare il senso di una presenza umana in grado di aiutare. «Abbiamo visto, appena arrivati, un funzionario del governo. Voi siete i primi assieme a una Ong giapponese che ci ha portato dei giacconi pesanti», spiegano gli adulti.
Un giorno di tempo è servito a trovare altri sei fornelli a gas: «Così possiamo tutte fare cucina in modo separato». Così a sera, le otto luci dei fornelli sono accesi nel “presepio” del Divan Hotel dove una camera per una notte costa fino a 700 dollari al giorno. Nel cielo, sopra il presepio, si staglia altissima la struttura di un enorme cantiere fermo. Cantieri abbandonati nell’alto dei cieli. E pace in terra agli yazidi, “pastori” di un presepio con otto fornelli a gas.
Luca Geronico
Il salone anche ieri mattina era tutto un vociare e un correre di bambini. Era uno dei più ambiti l’“Accademy” per chi si sposava ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil: banchetti di festa che solo gli adulti ora ricordano. In questi giorni di vigilia, grazie all’impegno del “Jesuit refugee service”, per i ragazzi sfollati da Qaraqosh e Bartalla quel salone è come il surrogato della veglia di Natale e della recita a scuola. Il surrogato della normalità che si cerca a forza di ricostruire.
Un Natale a turni: 180 ragazzi alla volta provenienti da Ankawa Mall e dagli altri centri di raccolta, in cui opera il team Focsiv. Sono gli abituali canti dell’animazione, questa volta con una particolare intonazione natalizia: al termine un piccolo buffet con dolce natalizio, per dare senso a delle mattine diverse. Centrale l’intervento di padre Jalal: poche frasi per infondere serenità e scaldare il cuore, pensando al mistero dell’Incarnazione.
Il giorno di Natale – proclamato per la prima volta festivo dal governo della regione autonoma del Kurdistan – sarà, poi, la Messa celebrata nei campi profughi e nelle numerose chiese di Ankawa a dare speranza alla difficile resistenza dei profughi cristiani. Il primo Natale da esuli, il primo senza la “Parola” annunciata in aramaico e il pane spezzato a Mosul e nella Piana di Ninive dall’anno 300: una nostalgia che attanaglia il cuore, mentre la speranza è sorretta solo dalla fede. Dagli altoparlanti la musica inizia a sormontare il fruscio delle voci: l’effimero del Natale per non lasciare soli e aprire una speranza non caduca. La Natività, sotto la stella, è una resistenza e una speranza, per affrontare l’inverno.
Pochi chilometri più in là, e la “piccola Betlemme” nel salone dei profughi, sembra persino un lusso. Quel piazzale doveva essere un giardino del Divan Hotel, il più lussuoso albergo nel cuore di Erbil. Uno spiazzo spettrale, per chi bussando alla porta di questa Betlemme del Kurdistan “non ha trovato posto nell’albergo”. È l’ultimo contatto del team Focsiv a Erbil, frutto di una segnalazione e della ricerca, da parte di un donatore dell’Acnur, di «casi limite da aiutare anche al di fuori della zona cristiana». Sono in tutto 14 famiglie di yazidi, un centinaio di persone: quelle casupole del vecchio cantiere o le tende rudimentali, per loro sono comunque una meta agognata.
Lo scorso agosto la fuga, per scampare alla morte: «Baran aveva 21 anni, era una ragazza bellissima», spiega la madre mostrando con mano tremante la carta d’identità plastificata. Lo Stato islamico era appena arrivato anche a Shangal, nei monti del Sinjar. Giornate intere sotto le bombe, quando una di essa scoppiò a pochi centimetri dalla bombola del gas. Baran, ferita gravemente, venne portata subito all’ospedale in mano agli uomini del Califfato. «Non era un guerrigliero. Eravamo due donne yazide», afferma la madre. Per i terroristi dell’Is non vale la pena curare una ragazza. Baran muore poche ore dopo il rientro a casa. «Ho usato i miei vestiti per ricoprire mia figlia che è stata subito portata lontano e sepolta». La morte di Baran, come un comando per tutto il clan: «Abbiamo capito che bisognava scappare».
Una fuga tremenda, dieci giorni a piedi sulle montagne al limite della capacità di sopportazione: «Quando le nostre scarpe si sono disfatte, abbiamo avvolto i piedi con indumenti per arrivare in Siria a piedi». Tutti gli yazidi ora nel “giardino” del Divan Hotel, hanno temuto di morire di fame o di sete. La Siria, come prima tappa, e non definitiva: dalla Turchia fino a Zakho, appena oltre il confine fra le montagne del Kurdistan iracheno. Era estate e sfruttando una carovana di camion che portava aiuti gli yazidi di Shangal sono giunti a Erbil, dietro il bel muro di cinta del Divan Hotel.
Un cantiere dismesso, con casupole completate con teli, assi e lamiere a disegnare pareti e un po’ di intimità. Abitazioni di fortuna in uno spiazzo pieno di insidie: in una buca colma d’acqua Ranak, di soli tre anni, poche settimane fa è annegata. Era una di quei bambini che miti e sorridenti, corrono incontro ai volontari Focsiv. Nel giro di poche ore al “giardino” del Divan Hotel portano latte in polvere e pannolini, e due fornelli a gas, per dare il senso di una presenza umana in grado di aiutare. «Abbiamo visto, appena arrivati, un funzionario del governo. Voi siete i primi assieme a una Ong giapponese che ci ha portato dei giacconi pesanti», spiegano gli adulti.
Un giorno di tempo è servito a trovare altri sei fornelli a gas: «Così possiamo tutte fare cucina in modo separato». Così a sera, le otto luci dei fornelli sono accesi nel “presepio” del Divan Hotel dove una camera per una notte costa fino a 700 dollari al giorno. Nel cielo, sopra il presepio, si staglia altissima la struttura di un enorme cantiere fermo. Cantieri abbandonati nell’alto dei cieli. E pace in terra agli yazidi, “pastori” di un presepio con otto fornelli a gas.