By La Stampa - Vatican Insider
Giorgio Bernardelli
Si fa sempre più grave la situazione dei cristiani nel nord dell’Iraq. Da ieri sera pesanti scontri sono in corso anche a Qaraqosh, città cristiana nella Piana di Ninive, dove hanno trovato rifugio molte delle famiglie scappate da Mosul. Ora i miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante avanzano anche in questa direzione. E questa volta sono le milizie curde - entrate a Qaraqosh dopo la disfatta dell’esercito iracheno - a rispondere al fuoco.
L’esito di tutto questo è che nella notte è scattato un nuovo esodo: i vescovi caldei si sono visti arrivare i nuovi profughi proprio ad Ankawa, la località nei pressi di Erbil dove da martedì sono riuniti per il loro Sinodo. Un appuntamento che era già fissato da tempo a Baghdad, ma che alla viglia dell’incontro sono stati costretti a spostare al nord, nella regione controllata dai curdi, proprio per il drammatico evolversi della situazione. Lo stesso patriarca caldeo Raphael Sako - appena domenica scorsa - si era recato proprio a Qaraqosh per far visita alle famiglie cristiane che da Mosul erano fuggite dopo la conquista della città da parte dei jihadisti.
Bastano da soli questi elementi per dire la drammaticità del clima che circonda i lavori di questo Sinodo della Chiesa caldea - la Chiesa ampiamente maggioritaria tra i cristiani iracheni. L'assemblea - a cui partecipano anche i vescovi che vivono in America, in Europa e in Australia, tra le comunità della diaspora - erano cominciati martedì proprio con una Divina liturgia presieduta da Sako nel corso della quale si era nuovamente invocato il dono della pace sul Paese. Un'ideale continuazione della giornata di digiuno e preghiera che la Chiesa caldea aveva già vissuto mercoledì scorso, come prima risposta alle notizie drammatiche giunte da Mosul, dove per la prima volta dopo 1600 anni domenica non si era celebrata alcuna liturgia cristiana. Al Sinodo c'è ovviamente anche l'arcivescovo di Mosul Emil Nona, lui stesso sfollato in un villaggio a qualche chilometro dalla città insieme alla quasi totalità delle famiglie cristiane. Gli unici cristiani rimasti a Mosul sono gli anziani che non erano in grado di muoversi dalle proprie case.
Della situazione, dell'emergenza umanitaria in corso nella piana di Ninive, ma anche dell'atteggiamento da tenere in un Paese che precipita sempre più in basso nel baratro delle divisioni settarie, stanno discutendo ora i vescovi caldei. I lavori del Sinodo - a cui prende parte anche il nunzio apostolico Giorgio Lingua - proseguiranno fino a sabato, quando è atteso un comunicato finale. In questi giorni il patriarca Sako si è a più riprese appellato alla salvaguardia dell'unità del Paese. Ma ancora ieri - con il rifiuto del premier Nouri al Maliki a un governo di unità nazionale che coinvolga anche i sunniti - la situazione si è incamminata nella direzione opposta. E tra i cristiani la paura di finire ulteriormente stritolati nello scontro è grande.
Già prima dell'ultima crisi si ricordava che negli ultimi anni su un milione e duecentomila cristiani che vivevano in Iraq ne erano rimasti sì e no 300 mila. E già oggi quella caldea è una Chiesa con più fedeli nei territori della diaspora che nel proprio Paese d'origine. Il patriarca Sako - eletto dal Sinodo all'inizio del 2013 e confermato da Benedetto XVI - ha molto insistito sulla necessità per i caldei di rimanere in Iraq, utilizzando addirittura parole dure nei confronti dei governi occidentali che a suo avviso rilasciavano con troppa facilità i visti per l'emigrazione.
Il problema di oggi - però - è come rimanere in una regione in cui avanza un islamismo salafita radicale come quello propugnato dall'ISIS. Già da alcuni giorni - ad esempio - circolano le voci sulla jizya, l'imposta da far pagare come «diritto di protezione» ai non musulmani, che sarebbe stata fissata in 250 dollari nei territori controllati dagli islamisti. Anche se va aggiunto che appena tre giorni fa lo stesso mons. Nona - intervistato dall'agenzia Fides - riferiva che per il momento non ci sono riscontri su questa notizia e che l'unico atto grave rivolto direttamente contro i cristiani registrato era la distruzione della statua dell'Immacolata che stava esposta sul tetto di una chiesa. «Di certo la situazione sta peggiorando, e siamo tutti preoccupati - aveva commentato l'arcivescovo di Mosul - Ma vedo anche che la condizione dei cristiani a volte diviene oggetto di operazioni di propaganda. Si tratta di una strumentalizzazione pericolosa anche per gli stessi cristiani».
Un altro vescovo caldeo - l'ausiliare di Baghdad Saad Syrub, in un'altra intervista rilanciata dall'Aiuto alla Chiesa che soffre - ha aggiunto che «ciò di cui c'è maggiormente bisogno oggi è un piano di soccorso per i cristiani ed è ciò di cui parleremo durante il Sinodo. Chiediamo a Dio di darci la sapienza necessaria per affrontare con coraggio questi problemi. Ma non c'è dubbio che stiamo vivendo giorni davvero molto difficili».
Si fa sempre più grave la situazione dei cristiani nel nord dell’Iraq. Da ieri sera pesanti scontri sono in corso anche a Qaraqosh, città cristiana nella Piana di Ninive, dove hanno trovato rifugio molte delle famiglie scappate da Mosul. Ora i miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante avanzano anche in questa direzione. E questa volta sono le milizie curde - entrate a Qaraqosh dopo la disfatta dell’esercito iracheno - a rispondere al fuoco.
L’esito di tutto questo è che nella notte è scattato un nuovo esodo: i vescovi caldei si sono visti arrivare i nuovi profughi proprio ad Ankawa, la località nei pressi di Erbil dove da martedì sono riuniti per il loro Sinodo. Un appuntamento che era già fissato da tempo a Baghdad, ma che alla viglia dell’incontro sono stati costretti a spostare al nord, nella regione controllata dai curdi, proprio per il drammatico evolversi della situazione. Lo stesso patriarca caldeo Raphael Sako - appena domenica scorsa - si era recato proprio a Qaraqosh per far visita alle famiglie cristiane che da Mosul erano fuggite dopo la conquista della città da parte dei jihadisti.
Bastano da soli questi elementi per dire la drammaticità del clima che circonda i lavori di questo Sinodo della Chiesa caldea - la Chiesa ampiamente maggioritaria tra i cristiani iracheni. L'assemblea - a cui partecipano anche i vescovi che vivono in America, in Europa e in Australia, tra le comunità della diaspora - erano cominciati martedì proprio con una Divina liturgia presieduta da Sako nel corso della quale si era nuovamente invocato il dono della pace sul Paese. Un'ideale continuazione della giornata di digiuno e preghiera che la Chiesa caldea aveva già vissuto mercoledì scorso, come prima risposta alle notizie drammatiche giunte da Mosul, dove per la prima volta dopo 1600 anni domenica non si era celebrata alcuna liturgia cristiana. Al Sinodo c'è ovviamente anche l'arcivescovo di Mosul Emil Nona, lui stesso sfollato in un villaggio a qualche chilometro dalla città insieme alla quasi totalità delle famiglie cristiane. Gli unici cristiani rimasti a Mosul sono gli anziani che non erano in grado di muoversi dalle proprie case.
Della situazione, dell'emergenza umanitaria in corso nella piana di Ninive, ma anche dell'atteggiamento da tenere in un Paese che precipita sempre più in basso nel baratro delle divisioni settarie, stanno discutendo ora i vescovi caldei. I lavori del Sinodo - a cui prende parte anche il nunzio apostolico Giorgio Lingua - proseguiranno fino a sabato, quando è atteso un comunicato finale. In questi giorni il patriarca Sako si è a più riprese appellato alla salvaguardia dell'unità del Paese. Ma ancora ieri - con il rifiuto del premier Nouri al Maliki a un governo di unità nazionale che coinvolga anche i sunniti - la situazione si è incamminata nella direzione opposta. E tra i cristiani la paura di finire ulteriormente stritolati nello scontro è grande.
Già prima dell'ultima crisi si ricordava che negli ultimi anni su un milione e duecentomila cristiani che vivevano in Iraq ne erano rimasti sì e no 300 mila. E già oggi quella caldea è una Chiesa con più fedeli nei territori della diaspora che nel proprio Paese d'origine. Il patriarca Sako - eletto dal Sinodo all'inizio del 2013 e confermato da Benedetto XVI - ha molto insistito sulla necessità per i caldei di rimanere in Iraq, utilizzando addirittura parole dure nei confronti dei governi occidentali che a suo avviso rilasciavano con troppa facilità i visti per l'emigrazione.
Il problema di oggi - però - è come rimanere in una regione in cui avanza un islamismo salafita radicale come quello propugnato dall'ISIS. Già da alcuni giorni - ad esempio - circolano le voci sulla jizya, l'imposta da far pagare come «diritto di protezione» ai non musulmani, che sarebbe stata fissata in 250 dollari nei territori controllati dagli islamisti. Anche se va aggiunto che appena tre giorni fa lo stesso mons. Nona - intervistato dall'agenzia Fides - riferiva che per il momento non ci sono riscontri su questa notizia e che l'unico atto grave rivolto direttamente contro i cristiani registrato era la distruzione della statua dell'Immacolata che stava esposta sul tetto di una chiesa. «Di certo la situazione sta peggiorando, e siamo tutti preoccupati - aveva commentato l'arcivescovo di Mosul - Ma vedo anche che la condizione dei cristiani a volte diviene oggetto di operazioni di propaganda. Si tratta di una strumentalizzazione pericolosa anche per gli stessi cristiani».
Un altro vescovo caldeo - l'ausiliare di Baghdad Saad Syrub, in un'altra intervista rilanciata dall'Aiuto alla Chiesa che soffre - ha aggiunto che «ciò di cui c'è maggiormente bisogno oggi è un piano di soccorso per i cristiani ed è ciò di cui parleremo durante il Sinodo. Chiediamo a Dio di darci la sapienza necessaria per affrontare con coraggio questi problemi. Ma non c'è dubbio che stiamo vivendo giorni davvero molto difficili».