Lorenzo Cremonesi
Donne relegate in casa, cristiani costretti a pagare una tassa minima di
250 dollari mensili, tagli delle mani per i ladri, pena di morte per
chi rinnega l’Islam: così i gruppi più radicali del fronte sunnita
lanciato alla conquista dell’Iraq fanno rivivere l’utopia teocratica del
«Califfato». Sino a qualche giorno fa le voci che in particolare i
militanti dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» avessero
diffuso per le strade della provincia di Ninive e nella città di Mosul
(da loro presa il 9 giugno) un «codice di condotta» articolato in 16
punti, e modellato sulla loro interpretazione radicale della legge
islamica, appariva più propaganda che realtà. Se è vero che in guerra la
prima vittima è in genere la verità, allora occorre stare molto attenti
a rilanciare la gigantesca mole di notizie incontrollate riguardanti
Iraq e Siria che arrivano da ogni dove, moltiplicate dai social network
nell’era di internet.
Ma con il passare del tempo la storia del «Contratto con la Città», come pare abbiano chiamato il documento, sta assumendo consistenza. E i suoi contenuti fanno paura. «Anche noi all’inizio lo abbiamo preso con le pinze. Eppure l’islamizzazione forzata in nome del Califfato è ormai una realtà. E proprio per questo stiamo cercando di fare uscire da Mosul gli ultimi circa 500 cristiani», ci diceva ieri pomeriggio presso il patriarcato caldeo di Bagdad il 35enne padre Tahir Essa. «Il problema più grave che registriamo nelle zone perdute dal governo centrale è che sono adesso occupate da una pletora di gruppi e milizie molto differenti tra loro. Se si è sotto il controllo dei baathisti e delle tribù sunnite locali, non va male. Ma se invece arrivano le brigate straniere dei volontari della jihad allora è una catastrofe. Almeno due chiese di Mosul sono state derubate e vandalizzate. I radicali più cattivi arrivano da Arabia Saudita, Yemen, Cecenia, Afghanistan e si danno alla furia iconoclasta, abbattono statue e sfregiano i quadri dove appare il volto umano. Hanno già detto che distruggeranno le croci sui campanili, elimineranno ogni simbolo pubblico del cristianesimo, come i Talebani in Afghanistan», aggiunge.
Tra i sedici punti si leggono la proibizione al politeismo, dell’apostasia dell’Islam, l’obbligo per gli ex poliziotti e militari del governo di Nouri al Maliki di fare una dichiarazione di pentimento pubblica, il dovere per i musulmani di recitare le preghiere alle ore comandate, le amputazioni per i ladri, la crocifissione per i delitti più gravi, il divieto del consumo di droghe, alcool e tabacco. Per le donne le indicazioni sono precise: «Devono restare in casa, uscire solo se necessario, il loro ruolo è provvedere alla stabilità del focolare».
Padre Essa sostiene che per i cristiani la situazione è nettamente peggiorata negli ultimi tre o quattro giorni. Da quando cioè i gruppi radicali hanno rispolverato l’antica formula dei «dihimmi» (come venivano definiti una volta ebrei e cristiani nelle terre dell’Islam) e come tali costretti a pagare la «jizyah», la tassa tradizionalmente imposta ai non musulmani. «La jizyah ha rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso. Come minimo chiedono 250 dollari per ogni adulto. Una cifra impossibile, specie se si tiene conto che il salario medio supera di poco i 500 dollari, ma soprattutto che oggi nessuno lavora. Come possono pagarla!», esclama. La alternative? La conversione o l’espulsione. Chi resiste rischia di vedersi requisire ogni proprietà. I capi delle comunità cristiane di Bagdad tengono ora canali di comunicazione aperti con i correligionari rimasti nelle terre della guerra e dei tentativi di Califfato.
Dalla zona di Abu Ghraib, una ventina di chilometri a ovest della capitale ora i mano alla rivoluzione sunnita, hanno fatto fuggire una quarantina di famiglie. Ma gli spostamenti stanno diventando sempre più difficili. Attorno a Mosul si combatte ancora. E soprattutto appare sempre più evidente il piano sunnita di circondare completamente la capitale. Ieri si sono registrati attacchi sanguinosi anche sulle strade che da Bagdad vanno verso il meridione sciita. La determinazione delle brigate sunnite resta granitica. Recitano nelle ultime righe del loro «Contratto» rivolgendosi alla popolazione irachena: «Avete provato tutti i sistemi di governo laici - monarchia, repubblica, baathismo, Saddam Hussein - e ne siete rimasti vittime: è arrivata l’ora di accettare il Califfato islamico».
Ma con il passare del tempo la storia del «Contratto con la Città», come pare abbiano chiamato il documento, sta assumendo consistenza. E i suoi contenuti fanno paura. «Anche noi all’inizio lo abbiamo preso con le pinze. Eppure l’islamizzazione forzata in nome del Califfato è ormai una realtà. E proprio per questo stiamo cercando di fare uscire da Mosul gli ultimi circa 500 cristiani», ci diceva ieri pomeriggio presso il patriarcato caldeo di Bagdad il 35enne padre Tahir Essa. «Il problema più grave che registriamo nelle zone perdute dal governo centrale è che sono adesso occupate da una pletora di gruppi e milizie molto differenti tra loro. Se si è sotto il controllo dei baathisti e delle tribù sunnite locali, non va male. Ma se invece arrivano le brigate straniere dei volontari della jihad allora è una catastrofe. Almeno due chiese di Mosul sono state derubate e vandalizzate. I radicali più cattivi arrivano da Arabia Saudita, Yemen, Cecenia, Afghanistan e si danno alla furia iconoclasta, abbattono statue e sfregiano i quadri dove appare il volto umano. Hanno già detto che distruggeranno le croci sui campanili, elimineranno ogni simbolo pubblico del cristianesimo, come i Talebani in Afghanistan», aggiunge.
Tra i sedici punti si leggono la proibizione al politeismo, dell’apostasia dell’Islam, l’obbligo per gli ex poliziotti e militari del governo di Nouri al Maliki di fare una dichiarazione di pentimento pubblica, il dovere per i musulmani di recitare le preghiere alle ore comandate, le amputazioni per i ladri, la crocifissione per i delitti più gravi, il divieto del consumo di droghe, alcool e tabacco. Per le donne le indicazioni sono precise: «Devono restare in casa, uscire solo se necessario, il loro ruolo è provvedere alla stabilità del focolare».
Padre Essa sostiene che per i cristiani la situazione è nettamente peggiorata negli ultimi tre o quattro giorni. Da quando cioè i gruppi radicali hanno rispolverato l’antica formula dei «dihimmi» (come venivano definiti una volta ebrei e cristiani nelle terre dell’Islam) e come tali costretti a pagare la «jizyah», la tassa tradizionalmente imposta ai non musulmani. «La jizyah ha rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso. Come minimo chiedono 250 dollari per ogni adulto. Una cifra impossibile, specie se si tiene conto che il salario medio supera di poco i 500 dollari, ma soprattutto che oggi nessuno lavora. Come possono pagarla!», esclama. La alternative? La conversione o l’espulsione. Chi resiste rischia di vedersi requisire ogni proprietà. I capi delle comunità cristiane di Bagdad tengono ora canali di comunicazione aperti con i correligionari rimasti nelle terre della guerra e dei tentativi di Califfato.
Dalla zona di Abu Ghraib, una ventina di chilometri a ovest della capitale ora i mano alla rivoluzione sunnita, hanno fatto fuggire una quarantina di famiglie. Ma gli spostamenti stanno diventando sempre più difficili. Attorno a Mosul si combatte ancora. E soprattutto appare sempre più evidente il piano sunnita di circondare completamente la capitale. Ieri si sono registrati attacchi sanguinosi anche sulle strade che da Bagdad vanno verso il meridione sciita. La determinazione delle brigate sunnite resta granitica. Recitano nelle ultime righe del loro «Contratto» rivolgendosi alla popolazione irachena: «Avete provato tutti i sistemi di governo laici - monarchia, repubblica, baathismo, Saddam Hussein - e ne siete rimasti vittime: è arrivata l’ora di accettare il Califfato islamico».