di Daniele Rocchi
Domenica 28 Marzo, domenica delle Palme, prenderà il via la Settimana Santa. La passione, la morte e la resurrezione di Cristo, celebrate attraverso riti suggestivi e antichi, saranno vissute con animo particolare dai cristiani iracheni, sia dentro che fuori i confini nazionali. Le violenze cui sono sottoposti ormai da anni, con furia crescente, hanno fatto della Chiesa irachena una comunità di martiri, che vive giornalmente sulla sua pelle, la passione di Cristo, in una sorta di calvario del quale sembra non si veda la fine, ovvero la risurrezione. Un calvario che porta le croci di sacerdoti e vescovi, di tanti uomini e donne costretti alla fuga, umiliati, rapiti, uccisi. Le cifre raccolte dall'Agenzia Fides, della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, tramite fonti delle Chiese locali in Iraq, offrono un quadro esauriente di questa sofferenza: dal 2003 a oggi, circa 2.000 cristiani iracheni sono stati uccisi in diverse ondate di violenza; fra il 27 febbraio e il 1 marzo 2010, 870 famiglie, per oltre 4.400 fedeli, hanno lasciato Mosul a causa della violenza anticristiana; nell'ottobre 2008, oltre 12.000 cristiani sono fuggiti da Mosul per un'ondata di violenza; il 40% dei rifugiati iracheni all'estero (circa 1,6 milioni in totale) sono cristiani (fonte Unhcr); il 44% degli iracheni che hanno fatto domanda di asilo in Siria sono cristiani. Per l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), nel 2009 l'Iraq è risultato il secondo Paese al mondo per richieste di asilo, circa 24 mila domande, preceduto solo dall'Afghanistan con 26.800; il numero complessivo dei cristiani in Iraq, nel 1987, era di 1,4 milioni, nel 2003 era passato a 1,2 milioni, nel 2009 si è dimezzato scendendo a 600 mila, molti dei quali sono sfollati interni.
Un gregge impaurito.
In questa situazione ha ancora senso parlare di Pasqua, di speranza nella risurrezione?
"Certamente - risponde l'arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Emil Shimoun Nona - sebbene quest'anno non la celebreremo in tutte le chiese, per motivi di sicurezza. I nostri fedeli, infatti, non possono recarsi nelle parrocchie della zona antica della città, a causa di blocchi e check point della polizia e dell'esercito. La situazione - dice al SIR - è critica e molto difficile, tuttavia la scelta di celebrare solo nei luoghi più protetti dovrebbe favorire la partecipazione alle liturgie. Non prevediamo riti all'esterno e anche le liturgie dentro le chiese si svolgeranno senza troppa visibilità. Il pericolo di attentati è reale nonostante i dispositivi di sicurezza messi a punto per l'occasione dalle istituzioni".
Ma con quale disposizione d'animo i cristiani vivranno la prossima Pasqua?
"Il mio è un gregge impaurito che rischia di perdere la speranza, tuttavia, la Pasqua serve a concentrarci sul dolore che stiamo vivendo per rileggerlo alla luce della risurrezione, della speranza nella vita eterna", spiega mons. Nona, per il quale "la cosa più difficile è dare un senso a tutta questa sofferenza, viverla cristianamente, come offerta per la salvezza nostra e del mondo. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di sperare".
La forza interiore dei cristiani iracheni è enorme: "Ci sono fedeli che camminano per ore per raggiungere una chiesa in cui poter pregare in tutta sicurezza. La loro è una grande testimonianza di fede, che deve far riflettere anche i cristiani dell'Occidente". "In questa sofferenza non siamo soli, sentiamo la vicinanza di altre comunità cristiane che in tante parti del mondo, non solo qui in Medio Oriente, stanno soffrendo allo stesso modo per la violenza, per la mancanza di libertà. Il mondo oggi ha tanti calvari e tante croci. Condividerle ci fa sentire più uniti alla Chiesa". Su un punto, però, mons. Nona, chiede tempo: il perdono. "Giusto parlare di perdono ma adesso è difficile perché non c'è giustizia".
Sofferenza immeritata.
Usa l'immagine biblica del "Servo sofferente" di Isaia, l'arcivescovo di Baghdad dei latini, mons. Jean Benjamin Sleiman, per descrivere il dolore dei cristiani iracheni. Il servo è costretto ad una ingiusta sofferenza, simile per violenza e modalità d'esecuzione a quella descritta nei Vangeli riguardo alla passione di Gesù. Una sofferenza che sembra immotivata, immeritata e senza prospettive di riscatto. "Mi è capitato di paragonare il popolo iracheno e i cristiani, in particolare, al Servo sofferente di Isaia, che prende su di sé il male che gli altri fanno - afferma al SIR l'arcivescovo latino - se c'è una Pasqua qui è quella di pregare affinché non si estingua la speranza. Non possiamo perdere la speranza nella risurrezione, la fine del tunnel dovrà pur esserci, è la speranza che ci salva: questo è il significato della Pasqua soprattutto in Iraq. Vedo tanti cristiani che stanno perdendo la speranza. Questa perdita genera paura, spinge a fuggire altrove, a lasciare tutto per cercare di salvare la propria vita, per trovare un futuro migliore". "La perdita di speranza è un cruccio - prosegue mons. Sleiman - ma la Chiesa universale può aiutarci esortando i suoi fedeli sparsi nel mondo a vivere da cristiani. Questa testimonianza di fedeltà sarebbe una grande forza per noi tutti. Noi vi guardiamo. Se la Chiesa universale è fedele a se stessa e alla speranza, ci aiuterà a vivere con coraggio e in comunione. Il calvario di questi giorni appare assurdo, inspiegabile senza la speranza. Soffriamo - conclude - ma lo dobbiamo fare con lo sguardo di Cristo che ha preso su di sé la nostra debolezza e, malgrado tutto, ha mantenuto il suo sguardo di amore e di perdono".