"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

20 marzo 2017

I gesuiti in Iraq tra un passato glorioso ed un futuro incerto

By Baghdadhope*

All’inizio del 2017 si è svolto a Baghdad un incontro che pur non avendo avuto molto risalto neanche da parte del Patriarcato caldeo che ha pubblicato solo una breve notizia (1) potrebbe invece rappresentare una vera novità per l’Iraq, ed in particolare per la sua componente di popolazione cristiana.
Quel giorno il patriarca caldeo Mar Louis Raphael I Sako ha ricevuto la visita di Padre Dany Younes,
il provinciale gesuita del Prossimo Oriente, che ha espresso il desiderio della Compagnia di Gesù di tornare ad operare in Iraq - al di là di quanto già fa dal 2014 attraverso il  Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, (JRS) operativo ad Erbil nel Kurdistan iracheno. (2) Tale desiderio, si legge nella nota, è stato ben accolto dal Patriarcato che si è detto disponibile ad aiutare la Compagnia allo scopo restituendo anche i beni confiscati ai gesuiti al momento della loro cacciata dal paese e da allora gestiti dalla chiesa caldea.
Per capire di cosa si sta parlando vale la pena ricordare per sommi capi la storia delle due istituzioni che resero celebri i gesuiti in Iraq.(3)
Già anni prima del 1932, l’anno dell’indipendenza della Repubblica d’Iraq dall’amministrazione britannica iniziata nel 1920, le comunità cristiane del paese avevano richiesto a Roma un sostegno per il rilancio della cultura cattolica tra le nuove generazioni costrette a frequentare le scuole governative di matrice islamica. L’impegno fu affidato ai gesuiti e fu così che nel 1932 quattro gesuiti provenienti da quattro Province americane fondarono il Baghdad College, una scuola superiore che accoglieva ragazzi di tutte le confessioni cristiane ma anche musulmani (4) ed ebrei (4), ed alla quale nel 1956 si aggiunse la al-Hikma University dove si insegnava, anche alle ragazze, economia, fisica ed ingegneria. Quando nel 1969 i gesuiti furono obbligati a lasciare l’Iraq e le istituzioni che avevano gestito fino ad allora i 103 studenti del Baghdad College del 1932 erano diventati 1100 e tra essi il 70% era ormai costituito da musulmani. Il prestigio delle due istituzioni era tale che al momento della loro nazionalizzazione l’università fu integrata nella Baghdad University ed il Baghdad College continuò ad esistere, questa volta a gestione governativa, con lo stesso nome.   

Baghdadhope ha parlato della questione ponendo le stesse domande al patriarca caldeo, Mar Louis Raphael I Sako ed a Marisa Patulli Trythall, storica dei rapporti diplomatici tra Vaticano e Stati Uniti e tra i massimi esperti della presenza gesuita in Iraq.
   
Cosa ne pensa dell'eventuale ritorno dei gesuiti in Iraq?
Sako: Il loro ritorno è una benedizione per l’Iraq e soprattutto per i cristiani. I gesuiti hanno formato generazioni di iracheni  nelle loro scuole e nell’Università della Sapienza. Il piccolo gregge cristiano in Iraq ha bisogno della loro presenza e del loro appoggio spirituale, pastorale e culturale. In questo senso sono benvenuti.
Patulli Trythall:
Il ritorno di Ordini religiosi cattolici in un paese come l'Iraq, con un ricco passato inscritto nella storia stessa delle religioni e della Cristianità, ma anche in quella della civiltà mondiale, rappresenterebbe comunque un  segnale positivo di stabilità e progresso in una terra che è rimasta nota negli ultimi trenta anni per le guerre che l'hanno devastata.

I gesuiti potrebbero, con il cambiare degli eventi, riprendere il posto che avevano nell'ambito dell'istruzione della società irachena che avevano prima di essere cacciati? 
Sako: Penso di si. Oggi la chiesa gestisce delle scuole private in cui gli studenti musulmani sono più numerosi di quelli cristiani. La gente cerca una formazione culturale solida ed in più la mentalità sta cambiando. A livello culturale c’è molta più libertà e siamo convinti che il fondamentalismo non abbia futuro. Alcune ragazze musulmane hanno corso una maratona in bicicletta non indossando il velo, ed alcune donne parlamentari  hanno visitato la città santa sciita di Kerbala a capo scoperto!
Patulli Trythall: Sono tanti i fattori di cambiamento e di 'spostamento' locale e internazionale, da quando i primi quattro gesuiti americani arrivarono in Baghdad nel 1932. La sua domanda, inoltre, prevede un ulteriore termine di 'cambiamento' rispetto all'attuale situazione irachena tutt'altro che stabile. Lei chiede, infatti, se "con il cambiare degli eventi" i gesuiti potrebbero riprendere il loro posto nell'ambito dell'istruzione irachena. La stabilizzazione di un paese è il risultato di un'equilibrata collaborazione tra persone che si sentano accomunate da storia, ideali, tradizioni o, anche, da principi religiosi comuni. Se l'osservatrice britannica Gertrude Bell scriveva già nel 1919 come non fosse auspicabile unire il paese sotto una guida Sciita, questo fatto, ancorché certamente sgradito a molti, non manca di mantenere una sua verità di fondo ai nostri giorni: non ultimo per il fatto che la rivalità con il vicino Iran rimanda a una mai sopita storia di guerre e differenze religiose incistate proprio nel rapporto Sunniti – Sciiti. Auspicare che il paese trovi una rinnovata stabilità nella suddivisione in tre monconi, derivanti da etnia (Curdi) o da ideologia religiosa (Sunniti–Sciiti) avrebbe lo stesso valore di una scommessa: cosa o chi assicurerebbe la stabilità interna e la sicurezza esterna delle tre regioni-stato, confinanti con paesi ben più coesi e consistenti territorialmente? Dunque, per tornare alla concreta possibilità dei gesuiti di ricostituire un insegnamento d'eccellenza in Iraq, questo potrebbe accadere solo in un paese integro e pacificato. Quando e come possa ritrovare quella stabilità non è dato capirlo, nella situazione attuale. Desidero ricordare, inoltre, che i gesuiti che arrivarono in Iraq nel 1932, erano americani, il paese anglofono che fu considerato più interessante ai tempi, anche rispetto agli Inglesi, e il meno inviso, tra gli Alleati che avevano sconfitto l'Impero Ottomano. Oggi, forse, quei sentimenti in Iraq sono ribaltati, d'altra parte c'è una fortissima componente irachena immigrata negli Stati Uniti, composta da ex studenti del Baghdad College e dell'Al-Hikma University, sia del periodo dei gesuiti che dei successivi anni '70. Un'immigrazione allargata anche ai componenti delle loro famiglie. Si tratta di immigrati prevalentemente cristiani, ma non solo. Pensando in termini di restaurazione del sistema educativo gesuita, specificamente quello che fu applicato dagli americani, dobbiamo dire che in qualche modo la vera battaglia vinta dal mondo anglosassone, gli americani in testa, è stata ed è proprio fondata sui modi e lo stile dell'insegnamento scolastico e universitario. Già all'origine, ai primi passi del Regno d'Iraq, la novità rappresentata dall'insegnamento in una lingua estera diversa da quelle fino ad allora utilizzate (Francese-Turco-Arabo), che avrebbe assicurato l'aprirsi di mercati internazionali più vasti, incise in maniera significativa, soprattutto relegando l'insegnamento confessionale ai livelli più bassi della scala sociale, con quella loro centralità nello studio dei libri sacri, la memorizzazione dei testi studiati e solo una blanda infarinatura di materie 'civili'. La cesura fu ancora più forte con le scuole coraniche, meno con le yeshiva ebraiche, perché già costretti a conoscere le citate lingue imposte dal governo per poter svolgere qualsiasi attività commerciale. Certamente, dunque, in un'ipotesi di stabilità del paese sarebbe certamente naturale che i gesuiti riaprano istituti d'eccellenza: non so valutare, tuttavia, con quale capacità di impatto culturale, in un mondo globalizzato secondo linee guida standard proprio nel settore educativo. I gesuiti sono i migliori interpreti di ciò che possa essere A.M.D.G. (4)

In una società profondamente cambiata il loro re-inserimento secondo Lei sarà facile e come prevede che verrà visto? 
Sako: Penso che non troveranno difficoltà. Molte persone che fanno parte del governo sono stati loro studenti e li sosterranno. A mio modesto parere la mossa giusta sarebbe quella di aprire per prima cosa una casa per poi valutare come muoversi ed agire.
Patulli Trythall:
I pre-requisiti per un rientro dell'Ordine con istituzioni educative d'eccellenza un tempo rispondeva anche all'imperativo categorico dell'evangelizzazione, nel caso Iraq anche di sostegno e sviluppo alle diverse denominazioni cattoliche, cristiane, scismatiche. Oggi il numero dei cristiani d'Iraq si è drasticamente ridotto: per parlare di un re-inserimento più o meno facile si dovrebbe poter comparare con una condizione precedente in termini sia numerici che di capacità economica dei cristiani, oltre che di rappresentatività politica.

Di cosa si parla quando si accenna sul sito patriarcale della Sua disponibilità a restituire ai gesuiti i beni che furono loro confiscati?   
Sako: I gesuiti avevano consegnato edifici e terreni al patriarcato quando avevano lasciato il paese e restituire loro i beni è normale. Sono beni che abbiamo salvaguardato per quasi 50 anni e dopo tanto tempo è giusto che tornino loro. E’ una cosa che faccio con piacere.
Patulli Trythall:
Si parla di una situazione tra il risibile, il patetico e il drammatico. I beni immobili (terreni ed edifici) facenti capo all'Associazione perpetua creata nel 1932 da Edmund Walsh, S.J. a Washington, tra otto università gesuite americane (la IAEA, Iraq-American Educational Association, ancora esistente con nome mutato) nei frenetici accadimenti del 1969, la cacciata di tutti gli americani, docenti e sacerdoti inclusi, fece sì che il Patriarcato Caldeo prendesse di fatto 'in custodia' i beni perché altri non lo facessero. Intendendosi con questo la popolazione raccolta intorno al vincente partito nazionalista Ba-ath (in seguito sotto la guida di Saddam Hussein).
Una condizione di fatto di cui il Patriarcato, con molto zelo, rese edotti i gesuiti americani che non mancarono di sottolineare immediatamente i termini opponendosi da subito al 'temporaneo possesso', in modo da non permettere la decorrenza giuridica sia di un possesso continuato che di una usucapione.
La questione ha finito per essere valutata anche in sede giuridica, proprio in ragione del fatto che in qualche modo il Patriarcato Caldeo riteneva di poter addurre un legittimo interesse e diritto sui beni che aveva custodito per l'uso delle comunità cristiane, con punte anche di 'non-sense', se si deve credere alle parole dello stesso Cardinal Delly, il defunto Patriarca,  che nel 2007 mi parlava del costo che sopportava mensilmente perché una famiglia musulmana vivesse all'interno delle proprietà dei gesuiti americani (oggi ricadenti nella celebre Zona verde delle ambasciate e delle grandi proprietà di Baghdad). La cifra sembrava modesta, cento dollari al mese, tuttavia stabiliva anche un interesse da proprietario sulla cosa, o la cura di un possidente che, a buon diritto, fa anche le necessarie spese per il mantenimento del bene.
Se il Patriarca  Sako farà questo gesto, come sembra ormai ufficiale, sarà un esempio di grande efficacia anche nei confronti della popolazione irachena: un gesto di reale fratellanza e non di utilitarismo, di linearità nel pensiero cattolico e nel superamento di qualsiasi senso di rivalità, conscia o sommersa. Un esempio che dovrebbe illuminare il percorso di ogni iracheno che si senta giustificato dal detto popolare: "ciascuno ha subito un torto, tutti portano un rancore".
Per poter ristabilire un ponte con i gesuiti di qualsiasi altra nazionalità, in Iraq, c'è bisogno, oltre alla pacificazione del paese, dell'eliminazione dell'ambiguità del rapporto "noi/loro", esistente tra le "nazioni" cristiane, e tra esse e Roma, sulla base di distinguo teologici di cui gli stessi fedeli non hanno più che una memoria nominale, o vi aderiscono meramente per continuità familiare. Un rapporto preteso come impari, nonostante la precedente grandezza, ma vissuto nella richiesta e accettazione del soccorso della Chiesa nel mondo. Dismettere i panni di un orgoglio divisivo, per abbracciarsi nella comunità allargata, è l'unica possibile e solida base per poter svolgere qualsiasi opera di rinnovamento, soprattutto educativa e di esempio.

Baghdadhope ha chiesto alla Dott.ssa Patulli Trythall di delineare una breve storia della presenza gesuita in Iraq ed alcuni accenni bibliografici utili ad approfondire l’argomento:  

            Di Gesuiti, in Iraq, ne erano passati diversi: sia della Prima Compagnia che della Nuova, ma non vi si erano mai stabiliti. Il primo a pensare di stabilire una Missione in Iraq, nel 1655 [e solo se non fosse stato possibile farlo in Persia], fu il Padre Alexandre de Rhodes, che pensò di installarla a Basrah. Baghdad, invece, fino al 1670, fu solo una città di transito nella rotta per Aleppo, passando per Basrah [Bassora], Ormuz, Persia, India e Cina [la via della seta]. Su questa rotta i Gesuiti furono seguiti dai Padri Cappuccini nel XVII secolo e dai Padri Carmelitani nel XVIII. Diverse le figure preminenti di gesuiti che furono di passaggio per Baghdad, alcune delle quali vi furono anche seppellite: i Fratelli Bernard Sales [1620-1661] e George Berthe [1622-1664]; il Padre Michael Desvignes [1704-1757] che fu sepolto nel convento dei Carmelitani. 
Anche la Nuova Compagnia [1837-1969] inviò in Iraq dei Padri missionari che vi lavorarono sporadicamente, il P. Generale Roothaan inviò i Padri Paolo Maria Riccadonna (superiore della Missione in Siria) e Maksymilian Ryllo (26 marzo–26 novembre 1837), su committenza della S.C. de Propaganda Fide, per esaminare la situazione in vista della fondazione di un Collegio Asiatico. Il viaggio fu difficile e pericoloso e i due Padri conclusero che «Caldea no era un país para colegios [a] ».
Il Padre Riccadonna tornò ancora in Iraq (3 novembre 1839–24 agosto 1840) e vi lavorò per un breve periodo per dare sostegno ai cattolici oppressi, dal 1 ottobre 1841 al giugno 1842, cozzando ogni volta contro l'ostilità dei funzionari ottomani e le autorità del clero musulmano.
Fino al 1859 la Compagnia, su richiesta della Santa Sede, cercò un contatto più stabile con l’area Mesopotamica nella quale vivevano le comunità Caldee e Siriache ma senza apprezzabili risultati: finché gli Alleati della 1° Guerra Mondiale non ridussero “il malato d’Europa” nei confini [all’incirca] dell’attuale Turchia.
“Una volta divenuto uno stato indipendente, il territorio iracheno fu costituito in missione, affidata alla provincia nord–americana del New England, che operò come sappiamo tra il 1932 e il 1969.
Le notizie sulla Missio Iraquensis risultavano scarne, frammentate e generiche, fino al ritrovamento nell'Archivio Storico dei Gesuiti (ARSI, Roma) dei documenti originali legati a Edmund A. Walsh, S.J. e alla lunga ricerca proseguita negli archivi degli Stati Uniti (New England Province, Georgetown University, National Archives and Records Administration, Library of Congress). Ricerche alle quali hanno contribuito diversi dei Padri gesuiti che insegnarono a Baghdad: Robert Taft, Solomon I. Sara, John Donohue, Simon Smith, Charles Dunn, Fr. Hamel, tra gli altri).
Personalmente ho anche avuto l'insperata possibilità di incontrare uno dei primi diplomati del Baghdad College che chiese di poter entrare in un'università americana, compiendo l'obiettivo suggerito dagli scopi dell'associazione perpetua fondata da Edmund Walsh nel 1932: aprire le porte dell'educazione internazionale ai giovani iracheni.
Edmond Nouri studiò a Georgetown, conobbe personalmente Edmund Walsh, divenne cittadino americano e, nel 2009 a Novi (Detroit) perorò la correttezza della mia ricerca di fronte alla platea degli ex alunni che restava ferma su quanto scritto nel libro esegetico e romantico di P. O'Donnell, "Jesuits by the Tigris".
Lo stesso Padre Charles Libois, S.J. nel suo libro sui Gesuiti nel Vicino Oriente, del 2009, non faceva che riportare quanto sommariamente descritto qui sopra.
Della complessità e ricchezza della Missione dei Gesuiti Americani, se non ci fosse stata una concreta lite giudiziaria sulle proprietà immobiliari acquistate ed edificate in Baghdad, non sarebbero restate che le notizie frammentarie e romantiche di una sorta di "paradiso perduto" dei giovani che avevano frequentato il Baghdad College e l'Al-Hikma University.

Bibliografia:
Patulli Trythall, M., Baghdad Dreams in Michigan, for the Herald Tribune, July 2009.
Patulli Trythall, M., Edmund Aloysius Walsh, la Missio Iraquensis, Supplemento di Studi sull'Oriente Cristiano, 14/2, Roma, Ottobre 2010, pp. 445.
Patulli Trythall, M., Una storia comune oltre i conflitti tra Oriente e Occidente. Il Baghdad College e l'Al–Hikma University, in Studi sull'Oriente Cristiano 19/1, Roma, Maggio 2015, pp. 233-255.
Patulli Trythall, M., Quando la cooperazione tra Oriente e Occidente crea eccellenza: il Baghdad College (1932-1969), in Storia Religiosa Euro-Mediterranea 2, Luciano Vaccaro (edit.), "Dal Mediterraneo al Mar della Cina. L'irradiazione della tradizione cristiana di Antiochia nel continente asiatico e nel suo universo religioso", Libreria Editrice Vaticana, Roma, Giugno 2015, pp. 493-500.

1: Website Patriarcato Caldeo

2: Jesuit Refugee Service
3: Da:
Patulli Trythall, M., Quando la cooperazione tra Oriente e Occidente crea eccellenza: il Baghdad College(1932-1969)
4: Ad maiorem Dei gloriam, per la maggior gloria di Dio, il motto dei gesuiti. 

a: Diccionario Histórico de la Compañía de Jesus – III, pp. 2065 [S. Kuri] -2066 [H. Jalabert].