By Avvenire
12 novembre 2017
12 novembre 2017
Fulvio Scaglione
Sembra un paradosso e non lo è: la situazione dei
cristiani iracheni potrebbe peggiorare ora che, dopo oltre tre anni
atroci, la sconfitta militare di Daesh è diventata realtà. Per
rendersene conto bisogna ricordare alcune dinamiche degli ultimi anni.
Dopo l’invasione anglo-americana del 2003, e a causa della successiva
ondata di violenze terroristiche e settarie, i cristiani iracheni (poco
meno di un milione per tre quarti cattolici caldei, dimezzati nei primi
cinque anni dopo l’invasione) scelsero in sostanza due strade:
l’emigrazione all’estero (allora andava bene anche la Siria) oppure il
trasferimento nel Nord del Paese, verso Mosul e la Piana di Ninive, che
erano la culla del cristianesimo iracheno e comunque erano meno
tormentate da bombe, sparatorie e rapimenti.
Era l’epoca in cui molti, soprattutto tra i policy makers
anglosassoni, ipotizzavano di creare non solo un Iraq federale con tre
entità autonome per sunniti, curdi e sciiti, ma anche di costituire un safe haven
(porto sicuro) per i cristiani proprio nella Piana di Ninive. Una
specie di "riserva indiana" per una minoranza pacifica, disarmata e
proprio per questo colpita da tutti.
Gli anni intanto
trascorrevano e per i cristiani erano alle porte nuovi cambiamenti. Il
Kurdistan, in perenne conflitto con il Governo centrale di Baghdad e
sempre legato al sogno dell’indipendenza, estendeva pian piano la
propria influenza politica verso Sud e verso Ovest, cioè verso la Piana.
Il patto offerto ai cristiani era piuttosto esplicito: tolleranza e
protezione in cambio di voti, quelli necessari a far prevalere la causa
curda nel sempre annunciato (o minacciato?) referendum sullo status di
Kirkuk, il grande centro petrolifero che, con le sue raffinerie e i
giacimenti, avrebbe fatto da motore al Kurdistan indipendente.
Poi,
nel 2014, è arrivato Daesh. L’atteggiamento dei curdi nei confronti dei
cristiani è stato ambivalente. I famosi peshmerga non si sono battuti
per Mosul né per la Piana, troppo lontane dai loro territori e dai loro
interessi, ma il Kurdistan ha accolto decine di migliaia di profughi
cristiani, salvando loro la vita.
E siamo all’oggi. Sembra
impossibile che, come dicevamo all’inizio, possa andare peggio dopo un
simile tormento. Ma la presenza di Daesh aveva surgelato ogni questione,
mentre ora tutto si muove. E tra tanti vasi di ferro che si scontrano,
il vaso di coccio dei cristiani, nel frattempo scesi ancora di numero,
può finire davvero in frantumi.
Masoud Barzani, padre-padrone del
Kurdistan, ha cercato di sfruttare la sconfitta di Daesh per arrivare
subito all’indipendenza ma è stato abbandonato da tutti, anche dai
tradizionali protettori Usa. Quindi, prima domanda: se i rapporti tra i
curdi e il Governo di Baghdad erano già tesi prima, e non meno tesi
erano quelli tra i potentati che si spartiscono il Kurdistan, il clan
Barzani e il clan Talabani, che succederà ora? E che sarà delle masse di
profughi cristiani che ancora sono ospitate tra Erbil, Dahuk e altre
località del Kurdistan?
La regione curda non verrà certo invasa, ma rischia di pagare il boicottaggio contemporaneo di Turchia (che controlla il traffico di petrolio), Iran e Iraq (che da anni non versa quanto spetta alla provincia autonoma). Non c’è il rischio che decida di liberarsi di un "peso" come quello costituito dai profughi? E che fine faranno le opere per loro edificate con gli aiuti internazionali, primo fra tutti quello della Chiesa?
La regione curda non verrà certo invasa, ma rischia di pagare il boicottaggio contemporaneo di Turchia (che controlla il traffico di petrolio), Iran e Iraq (che da anni non versa quanto spetta alla provincia autonoma). Non c’è il rischio che decida di liberarsi di un "peso" come quello costituito dai profughi? E che fine faranno le opere per loro edificate con gli aiuti internazionali, primo fra tutti quello della Chiesa?
Seconda domanda. È chiaro che
l’ipotesi di un Iraq federale non ha più corso e che, al contrario,
il Governo centrale, dominato dai partiti sciiti e di stretta
osservanza pro-Iran, opera per una ri-centralizzazione del Paese.
Altrettanto chiaro è che oggi, negli equilibri di potere iracheni,
gran peso hanno le Forze di mobilitazione popolare, le milizie a
maggioranza sciita (con qualche reparto anche cristiano) che si sono
battute contro Daesh e sempre più somigliano a una versione irachena dai
pasdaran iraniani, custodi della rivoluzione islamica.
Ora che
i curdi sono stati ricacciati nel Kurdistan propriamente detto, i
cristiani possono fidarsi di queste milizie, spesso accusate di
violenze contro civili inermi e sospettate di scarsa fedeltà alla
causa? I cristiani della Piana di Ninive avevano già un grosso
problema: come tornare ai villaggi e alle case e incontrare i vicini
di casa musulmani sunniti, tra i quali non pochi che si erano scagliati
per primi, come narrano diverse testimonianze, contro di loro alle
avvisaglie dell’arrivo di Daesh? Forse ora, con le milizie sciite
insediate nel territorio e pronte a nuove repressioni, il problema
raddoppia? La Chiesa caldea dell’Iraq, con grande coerenza, è sempre
stata contraria sia alla spartizione federalista del Paese sia
all’ipotesi di un safe haven per i cristiani.
L’idea
era che solo uno Stato unitario e laico, cioè uno Stato in cui ogni
cittadino gode di eguali diritti perché iracheno e non di diritti
variabili in base all’appartenenza etnica e religiosa, potesse
garantire anche i cristiani. Giusto così. Ma oggi è quella la
prospettiva dell’Iraq finalmente libero da Daesh? O non sta invece
spuntando all’orizzonte uno Stato confessionale come il vicino Iran?