Fulvio Scaglione
Kirshehir (Turchia).“Quando lavori con loro, per la prima mezz’ora va tutto bene. Poi ti chiedono: sei straniero, da dove
vieni. Rispondo: dall’Iraq. E loro: sei cristiano o musulmano?.
Rispondo cristiano, e le cose subito cambiano”.
Muthenna è un quarantenne grande e grosso, non è certo uno che si fa intimidire. Però, confessa, “di lavori ne ho mollati tanti per non dover sentire certi discorsi”.
Muthenna è un quarantenne grande e grosso, non è certo uno che si fa intimidire. Però, confessa, “di lavori ne ho mollati tanti per non dover sentire certi discorsi”.
Spieghiamoci meglio. Muthenna Solaga Ayub è scappato da Mosul (Iraq) nel luglio 2014 all’irrompere dell’Isis,
portando con sé la moglie Hala e i tre figli piccoli, una borsa in cui
avevano buttato poco denaro, le catenine dei bambini e null’altro. Non
potevano fare altrimenti perché solo dieci giorni prima erano entrati
nella casa nuova, “quella che doveva essere la casa della vita, in cui
avevamo investito tutto ciò che avevamo, compresa la mia macchina e i
pochi gioielli di mia moglie, per una spesa totale di 130 mila dollari.
Siamo scappati in Kurdistan, abbiamo dormito per strada e nelle tende
dei campi profughi, poi ci siamo detti: andiamo in Turchia e vediamo
quel che succede. Siamo ancora qui”.
Qui vuol dire Kirshehir, una città da 100 mila abitanti sulle
montagne dell’Anatolia dove i turchi hanno sistemato una comunità di
profughi cristiani iracheni di circa 200 famiglie. Qui di cristiani non
se n’erano mai visti e Muthenna, che deve lavorare per mantenere la
famiglia, ha presto capito che cosa vuol dire il pregiudizio. Intanto,
per un lungo periodo ha potuto lavorare solo in nero, adattandosi a
tutto, perché i profughi non avevano diritto a trovarsi un posto di
lavoro. E anche adesso che le regole sono cambiate, per i profughi, e
per i profughi cristiani in particolare, i salari sono molto inferiori a
quelli normali.
E poi la diffidenza, quando non l’ostilità, dei compagni di lavoro.
“In certi posti volevano persino impedirmi di usare espressioni che sono
arabe e che loro ritenevano riservate ai musulmani”. Per non litigare o
fare a botte tutti i giorni, Muthenna ha spesso rinunciato al lavoro,
anche se quattro bocche da sfamare lo attendono a casa. Però ha
resistito, non si è piegato, e ha continuato a far valere l’esperienza
di elettricista e idraulico maturata in patria.
E adesso, Muthenna? Tornerete in Iraq, ora che l’Isis sembra sconfitto? “Non ci pensiamo nemmeno”, è la risposta. “Abbiamo troppa paura, per noi cristiani (Muthenna e i suoi sono caldei cattolici, ndr) laggiù non c’è speranza né futuro. Volevano cancellarci, eliminarci tutti. Non possiamo fidarci di nessuno. Né della gente comune, le persone tra le quali vivevamo, i musulmani qualunque, che sono stati i primi ad aggredirci quando l’esercito si è ritirato da Mosul, né dai politici, che sono tutti musulmani. Laggiù non torneremo mai. Il problema è che ormai sta per cominciare il nostro quarto anno in Turchia e non abbiamo alcun segnale che riusciremo a emigrare in Occidente, come abbiamo chiesto agli uffici dell’Onu”.
E adesso, Muthenna? Tornerete in Iraq, ora che l’Isis sembra sconfitto? “Non ci pensiamo nemmeno”, è la risposta. “Abbiamo troppa paura, per noi cristiani (Muthenna e i suoi sono caldei cattolici, ndr) laggiù non c’è speranza né futuro. Volevano cancellarci, eliminarci tutti. Non possiamo fidarci di nessuno. Né della gente comune, le persone tra le quali vivevamo, i musulmani qualunque, che sono stati i primi ad aggredirci quando l’esercito si è ritirato da Mosul, né dai politici, che sono tutti musulmani. Laggiù non torneremo mai. Il problema è che ormai sta per cominciare il nostro quarto anno in Turchia e non abbiamo alcun segnale che riusciremo a emigrare in Occidente, come abbiamo chiesto agli uffici dell’Onu”.
Larsa invece ha 18 anni e sta per partire per il Canada. Lei, il
fratello e la madre, cristiani siriaci, avevano chiesto due volte il
visto per l’Australia, dove hanno dei parenti, e due volte sono stati
respinti. Con le restrizioni introdotte da Donald Trump era diventato
impossibile pensare agli Usa, così si sono rivolti al Canada, che ha
aperto loro le porte. Anche loro sono di Mosul ma si vede che vengono da
ambienti ben diversi rispetto a quelli popolari di Muthenna. Larsa e il
fratello parlano benissimo l’inglese, lo hanno perfezionato nei tre
anni in cui hanno aspettato il visto, vogliono studiare (da dentista
lei, da programmatore di computer lui), sono arrivati a Kirshehir senza
passare dai campi profughi. Ma la conclusione è la stessa: “Da quando
siamo stati costretti a scappare da Mosul non abbiamo mai pensato,
neppure per un secondo, alla possibilità di tornare in Iraq. Ci hanno
tolto tutto. Non solo la casa, il lavoro, i beni, ma soprattutto la
dignità, la possibilità di sentirci tra uguali. Noi sappiamo che i
musulmani non ci sentono e non ci vogliono uguali a loro, che sono
pronti a saltarci di nuovo alla gola alla prima occasione. Non torneremo
più, anzi: andremo il più lontano possibile. Poi, certo, se tra dieci o
quindici anni la situazione sarà cambiata, potremo anche tornare per
una breve visita ai luoghi dei nostri antenati. Ma tornare a vivere in
Iraq? Mai!”.
C’è qualcuno che, invece, vuole farlo? “Non so. Io sono venuta qui
con mia madre e mio fratello, ma prima di noi erano arrivati a Kirshehir
due nostre zii con le famiglie. Nessuno di noi ha mai sentito esprimere
da qualcuno la volontà di rientrare. Tutti vogliono solo andarsene. E
noi per fortuna stiamo per farlo”.
Terza famiglia, a metà strada tra quella di Muthenna e quella di
Larsa. Lui, Adnan Barho, era capitano dell’esercito ai tempi di Saddam e
poi interprete e factotum in una delle basi militari americane di
Baghdad. Lui, la moglie Faten e i quattro figli sono scappati dall’Iraq
prima dell’arrivo dell’Isis, nel 2012. “Avevo cominciato a ricevere
minacce, sia perché lavoravo per gli americani sia perché siamo
cristiani (sono caldei cattolici, ndr). Finché un giorno tre
uomini armati hanno fatto irruzione nella nostra casa. C’era solo mia
moglie con i bambini, quelli gridavano che volevano parlare con me, poi
hanno preso i soldi e qualche oggetto e se ne sono andati. Qualche tempo
dopo hanno cercato di rapirmi per strada e sono riuscito a scappare per
miracolo. Era chiaro che ci avevano messi nel mirino e che prima o poi
sarebbe successo qualcosa di davvero grave. Così siamo scappati da
Baghdad, prima verso Mosul e infine qui, dove già vivevano dei nostri
amici”.
Adnan e Faten non hanno lavoro, mentre i due figli più grandi fanno i
garzoni da parrucchieri. Però Adnan dice che “in Turchia non stiamo
male, la vita non è cara e abbiamo l’assistenza sanitaria gratuita. Come
famiglia numerosa, riceviamo un sostegno di 200 dollari al mese, se
stiamo attenti ce la caviamo. Però vorremmo andarcene da qui, in Europa
se possibile, oppure in un qualunque posto normale dove sia possibile
fare una vita normale. Ma siamo qui da cinque anni e non c’è segno che
le nostre speranza possano avverarsi. Sembrava fatta per gli Stati
Uniti, siamo stati anche tre volte a Istanbul a parlare con dei
funzionari americani ma alla fine è crollato tutto, pare perché io sono
un ex militare, quindi addestrato all’uso delle armi, e sono un rischio.
Anche se ho lavorato per loro rischiando la pelle”. A questo punto
interviene Faten, che già da qualche minuto si agitava sul divano. “Ma
noi siamo cristiani, perché l’Europa non si muove, non fa qualcosa per
noi? Per i musulmani è molto più facile partire, a quanto pare preferite
loro a noi. Quando siamo arrivati a Kirshehir, nel 2012, c’erano 250
famiglie di cristiani iracheni e 500 famiglie di musulmani iracheni. Già
200 di quelle musulmane sono partite ma solo 75 di quelle cristiane.
Perché?”.