By Città Nuova
Michele Zanzucchi
Michele Zanzucchi
Abuna Georges. Vado a Qaraqosh con abuna Georges,
prete siro-cattolico, e i volontari della sua Chiesa, quasi tutti
sfollati da Qaraqosh nel quartiere cristiano di Erbil, Ankawa. Vogliono
documentare sistematicamente gli scempi compiuti dal Daesh, per chiedere
riparazione ma anche per documentare un «tentativo di genocidio», come
qualcuno di loro sostiene. Armati di macchine fotografiche e di piantine
create da loro stessi (da queste parti non ci sono rilevazioni
attendibili), visitano tutte le seimila abitazioni della città cristiana
a 50 km da Erbil e 25 da Mosul. Il Daesh se n’è andato da poche
settimane, dopo più di due anni d’occupazione.
Eserciti. Appena lasciata Erbil cominciano i posti di
blocco. Ne conterò alla fine più di dieci, più o meno significativi, più
o meno complicati da superare. Incontro tre eserciti-milizie: quello
curdo, quello iracheno e quello cristiano. Per il momento uniti nella
necessità di liberare il territorio dal Daesh. Il futuro non è così
semplice come potrebbe sembrare: cosa succederà quando si dovrà tornare
nelle case? I cristiani saranno protetti? Le loro attività potranno
svolgersi regolarmente? Saranno abbastanza da ripopolare la città di
Qaraqosh dopo i tanti esili volontari?
Boati. Arriviamo a Qaraqosh che appare subito una
città spettrale. Deserto, qualche soldato fa capolino qua e là, sparute
macchine di abitanti che vogliono controllare lo stato delle loro case.
Non una sola abitazione appare indenne: quasi la metà ha subito incendi,
le altre danneggiamenti quasi sempre tali da impedire di essere abitate
se non dopo radicali ristrutturazioni. In lontananza si odono i boati
della guerra che infuria a 25 chilometri da qui, a Mosul. Ogni tanto si
odono spari ravvicinati, chissà, inquietanti. Dense colonne di fumo si
alzano da tutta la città. Ogni tanto passano blindati e mezzi militari
scoppiettanti.
Le vie e le case. Per quattro ore seguo abuna Georges
su e giù per le stradine della città cristiana. Entriamo in tante case,
ovunque lo stesso odore di morte. A volte mi chiedo chi mai abbia potuto
escogitare tanta fantasia distruttrice. L’accanimento a volte si è
rivolto contro le pentole di casa, altre volte contro gli infissi, o i
vetri, o i gradini, o i divani… La pazzesca avventura del Daesh ha
qualcosa di mostruoso. Anche perché figlio illegittimo di troppi attori
nello scenario mediorientale. Chi è innocente nel consesso
internazionale alzi la mano.
Le scritte. Un po’ ovunque si vedono scritte
inneggianti allo Stato islamico, volte ad affermare una supremazia che
non poteva aver altra energia che la forza bruta. «Lo Stato islamico
dell’Iraq e della Siria permane e si espande», è scritto dinanzi alla
chiesa siro-ortodossa di San Giorgio, il cui campanile sta su per
miracolo. Era proprio sulla line del confine tra forze irachene e del
Daesh, poco è rimasto in piedi. Ma scrivono anche i cristiani: «Qui
dentro c’erano 5 tonnellate di grano che sono state rubate dall’Isis».
Il sindaco. Incontriamo il sindaco in tuta mimetica. È
accompagnato da tre statunitensi, il capo è tutto in nero, con
giubbetto antiproiettile d’ordinanza. I “consiglieri militari” a stelle e
strisce sono più di quanti non ci si immagini. Da Erbil a Qaraqosh ho
visto coi miei occhi almeno tre basi Usa. Il sindaco lamenta lo stato
penoso delle infrastrutture pubbliche che sta ispezionando con l’uomo in
nero. Delle case private e delle chiese, invece, ci sono solo i
cristiani ad occuparsene.
Il papà sotto il fico. Incontriamo due uomini, uno
abita a Londra e l’altro a Stoccarda. Hanno appena trovato i resti del
padre sotto il fico del loro giardino. I miliziani del califfato
l’avevano sepolto solo per evitare che imputridisse all’aria aperta.
Domani faranno i funerali. Aveva 73 anni, non aveva voluto andarsene,
«non saprei dove vivere altrove», s’era giustificato con moglie e figli.
In qualche modo è uno dei martiri di Qaraqosh.
Le chiese profanate. Visito cinque chiese assieme ad
abuna Georges. Una peggio dell’altra. Ne riparlerò, perché l’accanimento
del Daesh contro i simboli del cristianesimo fa spavento. Più il Cristo
che la Madonna, in ogni caso. Croci vecchie e nuove, piccole e grandi,
in qualsiasi materiale, sono state spezzate, divelte, abbattute. Ma
erano talmente tante che i miliziani del Daesh non sono riusciti a
cancellare il simbolo del dolore redento.
Diabolica presenza. Confesso di sentirmi accompagnato
per tutte le quattro ore del mio giro per la città distrutta. Una
presenza inquietante, che non è riconducibile ai boati che si sentono in
lontananza, o alle pire nere che si innalzano qua e là. Una presenza
sorda e muta, ma evidentissima. Tutto è distruzione, tutto è divisione,
tutto parla di separazione. Diabolica presenza, colui che divide.
Capisco, ma… Capisco allora l’odio che avverto nelle
parole di tanti cristiani, che esplicitamente dicono di considerare
tutti i musulmani come colpevoli degli eccessi inescusabili del Daesh.
Il loro desiderio di tornare a Qaraqosh è irretito nelle maglie della
paura. Capisco il loro astio, la difficoltà emotiva e razionale di
accettare gli insopportabili vicini. Capisco, capisco, capisco. Ma non
posso accettare completamente l’idea che sia impossibile convivere. Se
non si conviverà, semplicemente i cristiani spariranno da queste terre.
«Grazie a Dio». Davanti alla chiesa di san Giovanni
Battista due uomini si avvicinano e ci mostrano le case distrutte. Uno
di loro l’aveva costruita in 12 anni di duro lavoro e l’aveva abitata
solo per tre mesi prima di dover fuggire dinanzi all’invasione degli
uomini in nero. Sulla sua bocca appare un suono strozzato, che abuna
Georges mi traduce: «Grazie a Dio». Non mi è dato di capire a cosa si
riferiva quell’uomo, se alla grazia di essere ancora vivo, alla grazia
di poter ricominciare una vita, a chissà cosa d’altro. Ma sono parole
che suonano più vere di tutte le distruzioni che ho visto.