By Romasette
Vanessa Ricciardi
Vanessa Ricciardi
Padre Rebwar Basa ha visto morire in Iraq altri 
parroci come lui, unica colpa l’essere cristiani. “Il sangue dei martiri
 è seme di nuovi cristiani?”: la domanda, a cui padre Basa ha dato una 
risposta, è il titolo dell’evento a cui ieri sera, mercoledì 9 novembre,
 ha partecipato insieme al vescovo Paolo Lojudice, incaricato del Centro
 per la cooperazione missionaria della diocesi di Roma, monsignor Andrea
 Lonardo, direttore dell’Ufficio catechistico del Vicariato, e il 
francescano Massimiliano Taroni, incaricato delle missioni della 
provincia Ofm del Nord Italia. Ad ascoltarli la sala piena del 
Pontificio Seminario Romano Maggiore con l’accoglienza del rettore don 
Concetto Occhipinti.
Padre Basa ha parlato con calma, mostrando le foto 
di Erbil e di Mosul, in Iraq, Paese da cui proviene. Chiese distrutte e 
profanate, trasfigurati dalla morte violenta, tutto per colpa dello 
Stato islamico: «Davanti a quella chiesa – ha detto mostrando un foto 
con delle rovine – c’era scritto “O Maria dà la pace al nostro Paese”, 
quella era la cripta della chiesa di San Giorgio, lì avevo pregato per 9
 anni». Le persecuzioni, ha raccontato, sono iniziate molto prima: «Nel 
1915 siamo stati vittime di un genocidio, poi già nel 2004 in sette 
chiese sono stati commessi degli omicidi». Il terrore non si è fermato: 
ancora vittime, come padre Ragheed Ganni di Mosul, morto il 3 giugno 
2007, che padre Basa conosceva. «Lo hanno ucciso la domenica dopo 
Pentecoste, assieme ai tre suddiaconi che erano con lui: Basman Yousef 
Daud, Wahid Hanna Isho, Gassan Isam Bidawed. Da piccolo dicevano che 
fosse già santo, ed è divenuto un martire».
Padre Ragheen aveva 35 anni e aveva studiato a Roma,
 all’Angelicum, ospite del Pontificio collegio irlandese. Pochi mesi 
dopo la sua morte, la stessa sorte è toccata al vescovo di Mosul, 
monsignor Faraj Rahho, rapito il 29 febbraio 2008: «Sapeva cosa 
rischiava – ha raccontato padre Basa -, da tempo riceveva minacce, ma lo
 stesso non ha voluto andarsene. Come padre Jacques Hamel, che Papa 
Francesco ha proposto per la beatificazione, è stato ucciso per la sua 
fede, ma in più con la consapevolezza del pericolo a cui andava 
incontro». Il problema però non è solo l’estremismo islamico: «La 
recente Costituzione del 2005 non tutela i diritti di tutti i cittadini 
ma stabilisce come religione di stato solo quella musulmana, togliendo i
 diritti a tutti gli altri». Il cristianesimo qui non è solo una 
religione: «Continuiamo a insegnare il cristianesimo: il cristianesimo 
si preoccupa dei diritti umani, perché Cristo è morto per salvare 
l’uomo. Spero che un giorno i volti di quei martiri saranno davanti a 
san Pietro».
Anche la Somalia, ha raccontato frate Taroni, 
testimone del sangue versato dai missionari, ha i suoi martiri. Negli 
anni ’90 i cristiani sono stati costretti ad allontanarsi, monsignor 
Salvatore Colombo e padre Pietro Turati, per 40 anni a Mogadiscio, sono 
stati brutalmente uccisi accanto alle loro chiese: «Padre Colombo stava 
cercando di mediare per scongiurare il conflitto civile, ma il 9 luglio è
 stato ucciso; il 14 luglio è cominciata la guerra». Non c’era più 
nessuna parrocchia fino a pochi anni fa: «Oggi ci sono poco più di 40 
fedeli, è un seme molto piccolo, ma c’è di nuovo».
Don Massimiliano Testi, parroco di Sant’Innocenzo, 
organizzatore della serata insieme al Centro Missionario, l’Ufficio 
catechistico, l’associazione Finestra per il Medio Oriente 
l’associazione Arché e Aiuto alla Chiesa che soffre, ha proposto di 
istituire delle giornate per ricordare questi martiri, in particolare 
padre Ragheed nel decennale della sua morte. Di fronte a queste vittime,
 ha commentato monsignor Lojudice, «dobbiamo continuare a porci delle 
domande». Ha poi citato padre Andrea Santoro, fidei donum ucciso in 
Turchia: «Lui chiedeva: non è vero che se ami e conosci Dio lo fai 
conoscere e se non ami, anche se possiedi la scienza e sai le lingue, 
non sei nulla ma solo un tamburo che rimbomba?».