By SIR
Daniele Rocchi
Infuria l'offensiva dell'esercito regolare per liberare la città irachena
dalle mani dello Stato Islamico. Ad osservare da lontano quanto accade
le centinaia di migliaia di sfollati e profughi fuggiti dalla città dopo
l'arrivo dell'Isis nel giugno del 2014. Tra loro anche decine di
migliaia di cristiani. Sparsi tra Libano, Turchia e Giordania attendono
l'epilogo della battaglia prima di decidere se tornare o meno. Di certo
non torneranno a Mosul Dalida Gorgees Burtrus e le sue amiche cristiane
del progetto sartoriale "Rafidin", attivo ad Amman. Stanno imparando a
tagliare e cucire, nella speranza di ricostruirsi una vita in Usa,
Canada o Australia. Come loro tanti altri cristiani. Nella Mosul
liberata non ci saranno più cristiani.
Prosegue la battaglia di Mosul: l’offensiva per la liberazione della
capitale irachena dello Stato Islamico del Califfo Abu Bakr al Baghdadi,
lanciata lo scorso 17 ottobre dall’esercito regolare, prosegue con
difficoltà, tra insidie e trappole. Dopo un mese di combattimenti i
governativi – sostenuti dalla coalizione internazionale a guida Usa e da
45mila uomini, tra soldati, forze curde e milizie sciite – sono
riusciti infatti a liberare solo 5 degli 80 quartieri del capoluogo e in
due di questi si spara ancora. Kokichli, al Intisar e al Sheima,
recitano i rapporti militari sono “completamente bonificati” mentre in
quelli di al Salam e al Qadissyah, “sono ancora in corso violenti
combattimenti”.
Si tratta di zone note a Dalida Gorgees Burtrus
che a Mosul è nata 25 anni fa. Le notizie che arrivano dal fronte
parlano ancora di guerra e hanno l’effetto di allontanarla ogni giorno
di più dalla sua terra. Lei che da Mosul è fuggita a giugno del 2014,
subito dopo l’invasione dello Stato Islamico, e oggi vive da profuga con
la sua famiglia ad Amman. Accolta dalla chiesa locale, Dalida, cattolica di rito caldeo, passa le sue giornate, nella zona di Jabal
Webde, in un piccolo atelier di moda, frutto di un progetto promosso dal
Patriarcato latino di Gerusalemme, dove, insieme ad altre 11 sue amiche
di Mosul, Kirkuk e Baghdad, tentano far rivivere colori e tessuti della
tradizione mediorientale ma soprattutto di ricucire la trama di una
speranza distrutta dalla violenza della guerra e dello Stato islamico.
La loro storia oggi si intreccia con quella della loro “griffe”, che
porta significativamente il nome di “Rafidin – Made by Iraqi girls”. “Rafidin” vuol dire “i due fiumi”, termine usato comunemente per indicare il Tigri e l’Eufrate, i due corsi d’acqua dell’Iraq.
Vedere oggi la battaglia di Mosul per questa giovane ragazza irachena,
diplomata in tecnica informatica, vuole dire riaprire un libro di
ricordi dolorosi. Che cominciano molto prima dell’arrivo del Daesh nel
2014.
"A Mosul soffriamo dal 2003, molto prima dell’arrivo dello Stato Islamico – racconta la giovane sospendendo per un po’ il suo lavoro sartoriale – abbiamo patito le guerre precedenti, gli scontri confessionali nati dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel dicembre del 2003 – e, dal 2014, l’arrivo di Daesh e il terrorismo.
"A Mosul soffriamo dal 2003, molto prima dell’arrivo dello Stato Islamico – racconta la giovane sospendendo per un po’ il suo lavoro sartoriale – abbiamo patito le guerre precedenti, gli scontri confessionali nati dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel dicembre del 2003 – e, dal 2014, l’arrivo di Daesh e il terrorismo.
Non siamo fuggiti una volta sola, ma più volte in questi anni, per
trovare rifugio nella Piana di Ninive, dove ci sono tanti villaggi
cristiani”.
I ricordi si fanno più recenti e corrono a giugno del 2014, quando a Mosul entrano i combattenti di al Baghdadi. “In quei giorni – ricorda Dalida – abbiamo perso tutto ciò che avevamo, casa, affetti, scuola, lavoro, amici. Nella nostra zona, poco fuori città, i miliziani hanno subito tolto l’acqua, la luce, e bloccato l’arrivo di ogni genere di fornitura alimentare. Siamo fuggiti con quello che avevamo addosso. All’inizio abbiamo sostato fuori il centro urbano perché credevamo che l’esercito iracheno potesse riprendere subito in mano la città. Abbiamo atteso invano.
Nel frattempo si stringeva la morsa contro i cristiani ai quali veniva intimato di convertirsi all’islam o di pagare la tassa di protezione. L’alternativa era la morte. La fuga da Mosul e dai villaggi vicini è stata drammatica perché le strade erano intasate di gente, famiglie, che fuggivano con ogni mezzo. Tutto questo avveniva sotto il martellamento dell’Isis. Eravamo preparati a tutto, sapendo che la fuga era l’unica soluzione. Siamo fuggiti solo con quello che avevamo addosso. All’inizio abbiamo cercato riparo verso il nord iracheno, in Kurdistan, ma non c’erano le condizioni per vivere e quindi abbiamo deciso di venire in Giordania nella speranza di poterci ricostruire una vita dignitosa”.
I ricordi si fanno più recenti e corrono a giugno del 2014, quando a Mosul entrano i combattenti di al Baghdadi. “In quei giorni – ricorda Dalida – abbiamo perso tutto ciò che avevamo, casa, affetti, scuola, lavoro, amici. Nella nostra zona, poco fuori città, i miliziani hanno subito tolto l’acqua, la luce, e bloccato l’arrivo di ogni genere di fornitura alimentare. Siamo fuggiti con quello che avevamo addosso. All’inizio abbiamo sostato fuori il centro urbano perché credevamo che l’esercito iracheno potesse riprendere subito in mano la città. Abbiamo atteso invano.
Nel frattempo si stringeva la morsa contro i cristiani ai quali veniva intimato di convertirsi all’islam o di pagare la tassa di protezione. L’alternativa era la morte. La fuga da Mosul e dai villaggi vicini è stata drammatica perché le strade erano intasate di gente, famiglie, che fuggivano con ogni mezzo. Tutto questo avveniva sotto il martellamento dell’Isis. Eravamo preparati a tutto, sapendo che la fuga era l’unica soluzione. Siamo fuggiti solo con quello che avevamo addosso. All’inizio abbiamo cercato riparo verso il nord iracheno, in Kurdistan, ma non c’erano le condizioni per vivere e quindi abbiamo deciso di venire in Giordania nella speranza di poterci ricostruire una vita dignitosa”.
Oggi si combatte per la liberazione di Mosul, ma
non basta a far tornare a Dalida e alle sue amiche la voglia di
rientrarvi, in fondo dicono in coro, “non abbiamo un’idea chiara di
quanto stia accadendo. Una cosa sola sappiamo: a Mosul è stato tutto raso al suolo.
Quelle case che sono rimaste in piedi dentro sono state incendiate
dai miliziani in fuga. Stanno seminando ancora morte e distruzione fino
alla fine. Se dovessimo tornare dovremmo ricominciare tutto da capo.
No. Non torneremo a Mosul. Emigreremo.
Abbiamo presentato richiesta alle autorità competenti di alcuni
Paesi, tra cui Usa, Canada e Australia. Sono due anni che aspettiamo.
Speriamo di andare via presto. Il lavoro di sarta che stiamo imparando
potrebbe essere una chiave per una vita migliore altrove. Qui siamo
profughi, non possiamo avere un permesso di lavoro, frequentare le
scuole. Che futuro potremo mai avere? Per questo utti i cristiani
vogliono partire”.
Tanta sofferenza ma anche tanta fede.
Tanta sofferenza ma anche tanta fede.
“Nonostante tanto dolore non abbiamo mai perso la fede in Dio. Sappiamo che Dio non ci avrebbe abbandonato e così è stato.
In
passato la nostra Chiesa ha pianto la morte violenta di fedeli e
pastori, fra cui il vescovo monsignor Faraj Rahho, che mi amministrò la
Prima Comunione, e di padre Ragheed Ganni e di alcuni suddiaconi. Questa
è la nostra Chiesa.
I nostri martiri ci insegnano che ogni cristiano deve portare la sua Croce. Questa è la nostra”.
I nostri martiri ci insegnano che ogni cristiano deve portare la sua Croce. Questa è la nostra”.
Nel segno del dialogo.
“Nascere cristiano o musulmano o di un’altra fede non può essere una colpa. Siamo esseri umani con il diritto di vivere. Per dialogare bisogna partire da questo principio. Rispettare l’umanità significa rispettare il diritto di vivere dell’altro. Se non c’è rispetto per l’umanità non ci sarà mai rispetto per la vita”. È tempo di riprendere il lavoro, i capi di “Rafidin” devono essere finiti, le richieste sono tante, soprattutto dall’Italia. Il sogno di nuova vita passa anche per un ago e per un filo. Mentre a Mosul si combatte e si muore.
“Nascere cristiano o musulmano o di un’altra fede non può essere una colpa. Siamo esseri umani con il diritto di vivere. Per dialogare bisogna partire da questo principio. Rispettare l’umanità significa rispettare il diritto di vivere dell’altro. Se non c’è rispetto per l’umanità non ci sarà mai rispetto per la vita”. È tempo di riprendere il lavoro, i capi di “Rafidin” devono essere finiti, le richieste sono tante, soprattutto dall’Italia. Il sogno di nuova vita passa anche per un ago e per un filo. Mentre a Mosul si combatte e si muore.