Fonte: Asianews
By Louis Sako
In questi ultimi tempi alcuni politici, intellettuali e religiosi, dal di fuori dell'Iraq, chiedono l’istituzione nella piana di Ninive di una zona autonoma - un "Safe Haven" - per i cristiani[1]. Proprio adesso che non si parla più d'una regione autonoma anche per il sud dell’Iraq, appare con ancor più chiarezza che questa interferenza creerà problemi gravi. La mia preoccupazione è d'un pastore e non d'un politico!
Queste persone che sostengono il progetto della piana di Ninive vivono in tranquilla sicurezza mentre noi cristiani dell'Iraq siamo spesso esposti ad attentati terroristici e alla morte. Forse essi hanno il nobile intento di aiutarci, ma di fatto ciò avviene senza consultarci quanto al nostro destino e al nostro futuro. Essi perciò pretendono di decidere a nostro nome senza averne ricevuto il mandato.
L'avvenire dei cristiani iracheni deve essere studiato prima di tutto dai cristiani che vivono in Iraq: caldei, assiri, siri e armeni, attraverso la mediazione di competenti e disinteressati leader politici, chiamati a prendere una posizione chiara sul futuro dei cristiani.
I cristiani della diaspora possono aiutarci mantenendo viva la consapevolezza dell’opinione pubblica mondiale sulle nostre condizioni di vita, ma non devono sostituirsi a noi. Abbiamo bisogno di essere aiutati proprio a che ci venga riconosciuto il diritto ad essere protagonisti della nostra vita. Chi si trasforma in nostro tutore, alla fine fa il gioco di chi vorrebbe ancora mantenerci in uno stato di minorità.
Nel contesto iracheno d'oggi, chiedere un’enclave per i cristiani è un gioco politico molto pericoloso: sarà certamente strumentalizzato e si rivolterà contro di noi. Dobbiamo essere obiettivi, realistici e prudenti. Un ghetto per i cristiani porterebbe inevitabilmente con sé scontri settari, religiosi e politici senza fine; la nostra stessa libertà ne verrebbe diminuita.
Noi cristiani siamo una componente fondamentale della storia e della cultura irachena. Siamo una presenza significativa nella vita sociale e religiosa del Paese e ci sentiamo iracheni a tutti gli effetti. Abbiamo resistito a minacce e a persecuzioni e abbiamo comunque trovato il modo per continuare a vivere e testimoniare il Vangelo nella nostra terra, senza mai cessare di dimostrarci cittadini leali, anche a prezzo del sangue dei nostri padri, fratelli e figli.
Oggi, sulla stessa scia, vorremmo continuare la nostra presenza e testimonianza in tutta quella che è la nostra terra: l’Iraq, appunto, nella sua interezza. Reclamare la creazione di un ghetto è soprattutto contro il messaggio cristiano, che ci vuole sale e lievito in mezzo a tutta la pasta dell’umanità.
Ciò che invece costituisce un bene per la comunità cristiana di questo Paese è incoraggiare l’unità della Nazione, la democrazia, la convivenza pacifica, la cultura pluralistica, la promozione del riconoscimento dell'altro come persona umana nel rispetto concreto della sua dignità, la collaborazione con tutti per la costruzione di una società migliore, basata sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali sanciti dalla Costituzione nazionale e dal diritto internazionale.
*Arcivescovo di Kirkuk
[1]. Il progetto di un “ghetto assiro” nella piana di Ninive è sostenuto fortemente dalla diaspora cristiana negli Usa, che esercita molta influenza sul Patriarcato di Baghdad, dagli evangelici e dal ministro delle Finanze del Kurdistan, Sarkis Aghajan, che negli ultimi anni ha elargito ingenti somme di denaro per la ricostruzione di numerosi di villaggi e chiese al nord. Il Vaticano non si è mai pronunciato in modo esplicito sulla questione, sebbene la Segreteria di stato sia molto contraria. Lo scorso gennaio, Benedetto XVI, nella visita ad limina con i vescovi caldei, ha sottolineato che il compito dei cristiani in Iraq è di costruire rapporti di comprensione “fra cristiani e musulmani” e di offrire una “testimonianza disinteressata di carità… senza distinzione d’origine o di religione”.
Queste persone che sostengono il progetto della piana di Ninive vivono in tranquilla sicurezza mentre noi cristiani dell'Iraq siamo spesso esposti ad attentati terroristici e alla morte. Forse essi hanno il nobile intento di aiutarci, ma di fatto ciò avviene senza consultarci quanto al nostro destino e al nostro futuro. Essi perciò pretendono di decidere a nostro nome senza averne ricevuto il mandato.
L'avvenire dei cristiani iracheni deve essere studiato prima di tutto dai cristiani che vivono in Iraq: caldei, assiri, siri e armeni, attraverso la mediazione di competenti e disinteressati leader politici, chiamati a prendere una posizione chiara sul futuro dei cristiani.
I cristiani della diaspora possono aiutarci mantenendo viva la consapevolezza dell’opinione pubblica mondiale sulle nostre condizioni di vita, ma non devono sostituirsi a noi. Abbiamo bisogno di essere aiutati proprio a che ci venga riconosciuto il diritto ad essere protagonisti della nostra vita. Chi si trasforma in nostro tutore, alla fine fa il gioco di chi vorrebbe ancora mantenerci in uno stato di minorità.
Nel contesto iracheno d'oggi, chiedere un’enclave per i cristiani è un gioco politico molto pericoloso: sarà certamente strumentalizzato e si rivolterà contro di noi. Dobbiamo essere obiettivi, realistici e prudenti. Un ghetto per i cristiani porterebbe inevitabilmente con sé scontri settari, religiosi e politici senza fine; la nostra stessa libertà ne verrebbe diminuita.
Noi cristiani siamo una componente fondamentale della storia e della cultura irachena. Siamo una presenza significativa nella vita sociale e religiosa del Paese e ci sentiamo iracheni a tutti gli effetti. Abbiamo resistito a minacce e a persecuzioni e abbiamo comunque trovato il modo per continuare a vivere e testimoniare il Vangelo nella nostra terra, senza mai cessare di dimostrarci cittadini leali, anche a prezzo del sangue dei nostri padri, fratelli e figli.
Oggi, sulla stessa scia, vorremmo continuare la nostra presenza e testimonianza in tutta quella che è la nostra terra: l’Iraq, appunto, nella sua interezza. Reclamare la creazione di un ghetto è soprattutto contro il messaggio cristiano, che ci vuole sale e lievito in mezzo a tutta la pasta dell’umanità.
Ciò che invece costituisce un bene per la comunità cristiana di questo Paese è incoraggiare l’unità della Nazione, la democrazia, la convivenza pacifica, la cultura pluralistica, la promozione del riconoscimento dell'altro come persona umana nel rispetto concreto della sua dignità, la collaborazione con tutti per la costruzione di una società migliore, basata sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali sanciti dalla Costituzione nazionale e dal diritto internazionale.
*Arcivescovo di Kirkuk
[1]. Il progetto di un “ghetto assiro” nella piana di Ninive è sostenuto fortemente dalla diaspora cristiana negli Usa, che esercita molta influenza sul Patriarcato di Baghdad, dagli evangelici e dal ministro delle Finanze del Kurdistan, Sarkis Aghajan, che negli ultimi anni ha elargito ingenti somme di denaro per la ricostruzione di numerosi di villaggi e chiese al nord. Il Vaticano non si è mai pronunciato in modo esplicito sulla questione, sebbene la Segreteria di stato sia molto contraria. Lo scorso gennaio, Benedetto XVI, nella visita ad limina con i vescovi caldei, ha sottolineato che il compito dei cristiani in Iraq è di costruire rapporti di comprensione “fra cristiani e musulmani” e di offrire una “testimonianza disinteressata di carità… senza distinzione d’origine o di religione”.