Franco Peretti
Da molto tempo l’Iraq rappresenta a livello mondiale una zona calda da un punto di vista politico e spesso i mezzi di comunicazione sociale hanno parlato e parlano di questa comunità per molti e preoccupanti motivi.
Recentemente poi, e la notizia è di qualche settimana fa, papa Francesco ha annunciato al mondo la sua decisione di andare in terra irachena nel prossimo mese di marzo.
Per capire qualcosa di più, nella giornata della pace proclamata dalla Chiesa Cattolica, ho scelto di intervistare un protagonista delle missioni umanitarie dell’ONU, che per trent’anni ha prestato la sua attività all’interno di questa struttura ricoprendo diversi ruoli, con incarichi di alta responsabilità anche in Iraq.
Si tratta di Bruno Geddo, che, come ho appena detto, per tre decenni è rimasto dentro il sistema organizzativo delle Nazioni Unite e di conseguenza ha una conoscenza molto precisa dei problemi e delle difficoltà delle aree nelle quali ha operato.
L’esperienza, maturata in prima linea negli interventi umanitari, è molto vasta. In tutta la sua carriera si è occupato in modo particolare di una serie di aree regionali dell’Africa sub sahariana, del nord Africa e del Medio Oriente.
Nell’ultimo periodo nell’ambito dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) Geddo ha ricoperto l’incarico di rappresentante di questa istituzione proprio in Iraq. Da questo suo recente incarico gli è derivata una profondo e preciso quadro della realtà irachena che nel corso di questa intervista emergerà in tutto il suo spessore.Le notizie, che mediante giornali e televisioni arrivano dall’ Iraq non sono sostanzialmente tranquillizzanti. Molto spesso si ha la sensazione, per non dire la certezza, che, nonostante i tentativi di dimostrare che tutto è controllato ai vari livelli, sotto la cenere ci siano ancora carboni accesi molto pericolosi e soprattutto carboni assai idonei a generare vampate di fiamma molto potenti. Quale è il suo punto di vista?
“La situazione irachena desta forti inquietudini a causa di due fattori concomitanti. Da un lato: il continuo degrado delle istituzioni, afflitte a vari livelli da corruzione, da incompetenza e da spreco di risorse mai raggiunti prima a causa del sistema di spartizione di posti e prebende negli organismi statali e nella pubblica amministrazione periferica tra sciiti, sunniti e curdi. Dall’altro: la progressiva sostituzione dello stato da parte di tribù e clan nella gestione del territorio e della giustizia, con le comprensibili e conosciute conseguenze in termini di nepotismo, settarismo ed esclusione. Questi due fattori hanno profondamente minato la fiducia della popolazione nelle istituzioni e nel sistema democratico, determinando un continuo calo nel tasso di partecipazione ai processi elettorali e imponenti, ma sterili, manifestazioni di protesta in tutto il Paese“.
L’economia dell’ Iraq ha però un forte strumento idoneo a generare risorse con la sua commercializzazione
“È vero, l’Iraq ha una grande ricchezza naturale, il petrolio, ma l’economia rimane asfittica e incapace di crescere nonostante questo patrimonio, anche perché il ribasso di lungo termine del prezzo del petrolio costringe lo stato a tagliare la spesa per i servizi al fine di continuare a pagare i salari di milioni di pubblici funzionari in una pubblica amministrazione pletorica che di fatto funge da ammortizzatore sociale contro la disoccupazione”.
In paese dove l’economia è stagnante non può certamente crescere l’occupazione ed in modo particolare l’occupazione giovanile, ma potrebbero crescere le tensioni sociali
“Questi fattori determinano una cronica disoccupazione e sottoccupazione giovanile e crescenti livelli di povertà. La situazione socio-economica è ulteriormente aggravata dall’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19. Ciononostante, tutti i tentativi di cambiamento sulla spinta dei movimenti di protesta sono falliti. In una situazione non dissimile dal dramma libanese, il sistema politico è bloccato dai veti reciproci e non è in grado di rispondere alle istanze di riforma e alle richieste di equità e giustizia portate avanti dalla società civile. Per molti giovani iracheni l’unica valvola di sfogo rimasta sembra essere l’emigrazione, che impoverisce ulteriormente il Paese“.
Nelle sue affermazioni si trovano elementi assai precisi per cogliere il quadro economico iracheno. Sembrano però opportuni a questo punto alcuni approfondimenti legati alla questione della sicurezza. Verrebbe spontaneo dire che da sempre manca la sicurezza in questi territori; in questi ultimi anni poi, in base a quanto si apprende dalle fonti di informazione, la situazione è diventata ancora più grave.
“Anche la situazione di sicurezza in Iraq desta preoccupazioni crescenti. Certamente l’incapacità della classe politica a riformare il Paese non produce un miglioramento dei livelli di sicurezza. Del resto la sicurezza non viene neppure potenziata dalla geopolitica regionale che vede l’influenza iraniana esercitare un pesante effetto di bloccaggio sulla situazione irachena contribuendo alla stagnazione del Paese. In questi periodi inoltre sia la contrapposizione politica molto conflittuale tra Stati Uniti e milizie popolari sciite, sia l’ordine di ulteriore riduzione delle forze americane rimaste sul territorio, rischiano di riproporre l’errore commesso nel 2011, quando, a causa del ritiro prematuro delle truppe americane in Iraq, gli Stati Uniti non valutarono adeguatamente le conseguenze derivanti dalle umiliazioni quotidiane inflitte alla popolazione sunnita e la deriva settaria del governo di Nuri al Maliki”.
In questo contesto di debolezza istituzionale si può allora affermare che si trova il terreno fecondo per la nascita dell’ ISIS?
“Furono sostanzialmente queste le cause profonde dell’ascesa repentina dell’ISIS davanti, tra l’altro, ad un esercito iracheno incapace di reazione. Furono proprio queste le cause, che portarono di fatto l’ISIS ad impossessarsi di un terzo del paese e dichiarare l’avvento del Califfato nel 2014. Dopo tre anni di sangue e terrore il Califfato è stato sconfitto militarmente; ma l’ideologia jihadista dell’ISIS continua a fare presa nelle menti e nei cuori di quei sunniti che si sentono vittime di discriminazione, emarginazione e ingiustizia da parte della maggioranza sciita. Approfittando della disattenzione del mondo a causa del COVID-19 e del disimpegno americano, l’ISIS si sta riorganizzando moltiplicando le sue cellule sul territorio. Malgrado un esercito meglio addestrato e più efficiente, con azioni puntuali i miliziani uccidono capi religiosi e tribali non allineati, attaccano postazioni militari e civili inermi, minacciano le popolazioni rurali in certe aree del paese e incendiano campi e raccolti per renderne la vita ancora più precaria“. In questo paese martoriato dalle guerre e dalle lotte intestine si registra la presenza dei cristiani, che in base ai dati statistici rappresentano però una minoranza sempre più esigua. È possibile avere qualche elemento conoscitivo più preciso?
“La situazione delle minoranze cristiane in Iraq, in gran parte di rito caldeo e siriaco, cattolico od ortodosso, sembra essere caratterizzata da un declino ormai inarrestabile. Dal 2003 ad oggi la popolazione cristiana e scesa da 1,5 milioni a circa 250,000 persone, un declino in percentuale dal 5% allo 0,2 % della popolazione irachena. Attentati alle chiese, assassinii e rapimenti di sacerdoti, fedeli minacciati e uccisi, erano fenomeni già cominciati con l’avvento di Al Qaeda; seconda dati del Catholic Register, una rivista americana, più di 1350 Cristiani sono stati uccisi dal 2003 e già prima del 2014 più di 70 chiese erano state bombardate. Ma l’occupazione di dodici villaggi cristiani di Ninive da parte dell’ISIS tra 2014 e 2017 ha portato violenza e sopraffazione ad un inedito livello di brutalità e barbarie, causando la fuga di massa delle popolazioni terrorizzate per cercare protezione nel Kurdistan iracheno, chiese sistematicamente profanate e bruciate, abitazioni in gran parte incendiate e saccheggiate. La scelta imposta dall’ISIS ai Cristiani era semplice: convertirsi, fuggire o essere uccisi. A Qaraqosh, che prima dell’occupazione dell’ISIS contava 55,000 abitanti, non più di 21.000 sono tornati. A Mosul, antico crocevia di etnie e religioni diverse, 45 chiese sono state danneggiate o distrutte, ma solo una ad oggi è stata restaurata, mentre i cristiani tornati a vivere in città sono meno di un centinaio”.
La descrizione, appena fatta, mette in evidenza una distruzione dalle dimensioni inimmaginabili da un punto di vista economico. Si può intuire che esista non solo un problema economico, potrebbe esistere nelle popolazioni cristiane il trauma delle violenze subite.
“Mentre i danni materiali possono essere riparati, quelli psicologici non sono facilmente rimediabili. I traumi subiti mettono in forse, minano la fiducia in un futuro di pacifica convivenza tra cristiani e mussulmani. Anzi a ben vedere forse, oggi, questa convivenza è già compromessa”.
Quali sono le richieste dei cristiani? Che cosa potrebbe capitare in mancanza di precise assicurazioni delle autorità governative?
“In mancanza di fiducia, per tornare le popolazioni cristiane domandano garanzie di protezione; ma sanno che il governo di Bagdad non può fornirle, e mancano le condizioni politiche per l’invio di una forza internazionale di protezione a Ninive. E così che l’emigrazione di massa diventa l’unica alternativa plausibile agli occhi delle giovani generazioni; e le comunità di Cristiani iracheni in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia crescono a vista d’occhio. Godono del benessere materiale, ma la loro lingua, devozione e tradizioni sono in pericolo. A Qaraqosh, prima dell’arrivo dell’ISIS, il 92% dei cristiani parlavano l’aramaico, la lingua di Gesù, e la stragrande maggioranza dei giovani faceva volontariato in parrocchia e assisteva alla messa domenicale. Con l’emigrazione in altre realtà e continenti sarà sempre più difficile mantenere questi tratti distintivi ed il rischio è che le radici e l’identità di una comunità antichissima vadano perdute per sempre”.
In queste settimane un annuncio molto importante è venuto dalla Chiesa di Roma: papa Francesco sarà nel prossimo mese di marzo in Iraq. Questo evento sicuramente ha molti significati: vuole essere un messaggio per far sentire i fedeli iracheni inseriti nella comunità cristiana, ma contiene anche un significato idoneo a rafforzare la fraternità ( termine questo che è preferito da papa Francesco a fratellanza) tra cristiani e mussulmani. Una sua riflessione sull’annuncio di Francesco.
“La visita del Papa in Iraq, a lungo desiderata ma sempre rimandata per ragioni di sicurezza, non ha solo un altissimo valore simbolico ma riveste anche un’importanza concreta sotto vari aspetti. Prima di tutto la testimonianza di solidarietà, conforto e incoraggiamento alla chiesa che soffre, rappresentata in maniera potente dai cristiani iracheni e più in generale in Medio Oriente, una minoranza religiosa che si sta lentamente estinguendo sulle stesse terre in cui è stata presente da 1600 anni. Egualmente importante, la richiesta di concrete garanzie per la sicurezza e protezione della minoranza cristiana a Ninive, in modo da inviare un segnale positivo e ridurre la pressione all’emigrazione, che tra l’altro priverebbe l’Iraq del ruolo di equilibrio della minoranza cristiana nel complesso mosaico etnico – religioso del paese. Poi il messaggio di dialogo tra le fedi abramitiche e comune appello alla fratellanza universale per promuovere armonia e pace tra i popoli, sulla scia della Dichiarazione di Abu Dhabi. Infine un appello alla tolleranza e pacifica convivenza tra le diverse componenti del popolo iracheno, che resta profondamente diviso tra sette e fazioni e soggetto a pericolose manipolazioni interne ed esterne. Senza tolleranza e accettazione di opinioni diverse, la democrazia in Iraq rimarrà gracile e fragile”.
Tra i momenti significativi del soggiorno in Iraq del papa, vi è pure l’incontro con i’ autorevole Ayatollah Ali al Sistani. Questo è un personaggio di grande prestigio nel mondo mussulmano. Forse potrebbe nascere un nuovo dialogo e potrebbero aprirsi le porte a nuove iniziative di collaborazione. Del resto questo Papa guarda con molta attenzione e con sensibilità nuova all’opportunità di una collaborazione tra le due comunità religiose.
“Il viaggio del Papa in Iraq offre un’occasione unica per un incontro con il Grande Ayatollah Ali al Sistani a Najaf, città santa e fulcro dell’Islam sciita assieme a Kerbala; incontrando l’anziano Ayatollah dalla grande influenza sul popolo sciita iracheno e iraniano, il Papa potrebbe inviare un messaggio importante all’Iran e alla componente sciita dell’Islam, finora esclusa dal dialogo privilegiato della Chiesa con le autorità religiose sunnite di Al-Azhar”.
Finora Lei ha fatto una serie di precise sottolineature socio-politiche. Adesso invece la domanda è un po’ personale. Conoscendo l’itinerario apostolico di papa Francesco e conoscendo i luoghi che dal pontefice saranno visitati, dia per un attimo spazio alle sue emozioni
“Per quel che riguarda la visita alle comunità cristiane di Ninive, mi emoziona l’idea che il Papa celebri messa nella chiesa madre di Qaraqosh, che solo tre anni fa era un tempio dissacrato e vuoto, la navata annerita dal fuoco e gli altari distrutti. Spero che a Mosul sia inclusa una sosta del Papa alla chiesa di Nostra Signora delle Ore, storica testimonianza della presenza cristiana nell’antico centro della città sventrato dalla guerra; l’imponente edificio e rimasto in piedi ma e stato devastato dall’ISIS dopo averlo usato come officina per confezionare bombe ed esplosivi, e per impiccare i condannati a morte. Spero anche che l’itinerario del Papa gli permetta di sostare alle rovine del santuario del Profeta Giona, simbolo di Mosul e prima moschea fatta esplodere dall’ISIS per distruggere l’identità della popolazione musulmana della città e sottometterla alla volontà del Califfato. Sarebbe un gesto potente di solidarietà verso coloro che non si sono lasciati sopraffare dal terrore jihadista, nel nome dei profeti dell’Antico Testamento e di Abramo, progenitore comune delle religioni del Libro”.
Da molto tempo l’Iraq rappresenta a livello mondiale una zona calda da un punto di vista politico e spesso i mezzi di comunicazione sociale hanno parlato e parlano di questa comunità per molti e preoccupanti motivi.
Recentemente poi, e la notizia è di qualche settimana fa, papa Francesco ha annunciato al mondo la sua decisione di andare in terra irachena nel prossimo mese di marzo.
Per capire qualcosa di più, nella giornata della pace proclamata dalla Chiesa Cattolica, ho scelto di intervistare un protagonista delle missioni umanitarie dell’ONU, che per trent’anni ha prestato la sua attività all’interno di questa struttura ricoprendo diversi ruoli, con incarichi di alta responsabilità anche in Iraq.
Si tratta di Bruno Geddo, che, come ho appena detto, per tre decenni è rimasto dentro il sistema organizzativo delle Nazioni Unite e di conseguenza ha una conoscenza molto precisa dei problemi e delle difficoltà delle aree nelle quali ha operato.
L’esperienza, maturata in prima linea negli interventi umanitari, è molto vasta. In tutta la sua carriera si è occupato in modo particolare di una serie di aree regionali dell’Africa sub sahariana, del nord Africa e del Medio Oriente.
Nell’ultimo periodo nell’ambito dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) Geddo ha ricoperto l’incarico di rappresentante di questa istituzione proprio in Iraq. Da questo suo recente incarico gli è derivata una profondo e preciso quadro della realtà irachena che nel corso di questa intervista emergerà in tutto il suo spessore.Le notizie, che mediante giornali e televisioni arrivano dall’ Iraq non sono sostanzialmente tranquillizzanti. Molto spesso si ha la sensazione, per non dire la certezza, che, nonostante i tentativi di dimostrare che tutto è controllato ai vari livelli, sotto la cenere ci siano ancora carboni accesi molto pericolosi e soprattutto carboni assai idonei a generare vampate di fiamma molto potenti. Quale è il suo punto di vista?
“La situazione irachena desta forti inquietudini a causa di due fattori concomitanti. Da un lato: il continuo degrado delle istituzioni, afflitte a vari livelli da corruzione, da incompetenza e da spreco di risorse mai raggiunti prima a causa del sistema di spartizione di posti e prebende negli organismi statali e nella pubblica amministrazione periferica tra sciiti, sunniti e curdi. Dall’altro: la progressiva sostituzione dello stato da parte di tribù e clan nella gestione del territorio e della giustizia, con le comprensibili e conosciute conseguenze in termini di nepotismo, settarismo ed esclusione. Questi due fattori hanno profondamente minato la fiducia della popolazione nelle istituzioni e nel sistema democratico, determinando un continuo calo nel tasso di partecipazione ai processi elettorali e imponenti, ma sterili, manifestazioni di protesta in tutto il Paese“.
L’economia dell’ Iraq ha però un forte strumento idoneo a generare risorse con la sua commercializzazione
“È vero, l’Iraq ha una grande ricchezza naturale, il petrolio, ma l’economia rimane asfittica e incapace di crescere nonostante questo patrimonio, anche perché il ribasso di lungo termine del prezzo del petrolio costringe lo stato a tagliare la spesa per i servizi al fine di continuare a pagare i salari di milioni di pubblici funzionari in una pubblica amministrazione pletorica che di fatto funge da ammortizzatore sociale contro la disoccupazione”.
In paese dove l’economia è stagnante non può certamente crescere l’occupazione ed in modo particolare l’occupazione giovanile, ma potrebbero crescere le tensioni sociali
“Questi fattori determinano una cronica disoccupazione e sottoccupazione giovanile e crescenti livelli di povertà. La situazione socio-economica è ulteriormente aggravata dall’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19. Ciononostante, tutti i tentativi di cambiamento sulla spinta dei movimenti di protesta sono falliti. In una situazione non dissimile dal dramma libanese, il sistema politico è bloccato dai veti reciproci e non è in grado di rispondere alle istanze di riforma e alle richieste di equità e giustizia portate avanti dalla società civile. Per molti giovani iracheni l’unica valvola di sfogo rimasta sembra essere l’emigrazione, che impoverisce ulteriormente il Paese“.
Nelle sue affermazioni si trovano elementi assai precisi per cogliere il quadro economico iracheno. Sembrano però opportuni a questo punto alcuni approfondimenti legati alla questione della sicurezza. Verrebbe spontaneo dire che da sempre manca la sicurezza in questi territori; in questi ultimi anni poi, in base a quanto si apprende dalle fonti di informazione, la situazione è diventata ancora più grave.
“Anche la situazione di sicurezza in Iraq desta preoccupazioni crescenti. Certamente l’incapacità della classe politica a riformare il Paese non produce un miglioramento dei livelli di sicurezza. Del resto la sicurezza non viene neppure potenziata dalla geopolitica regionale che vede l’influenza iraniana esercitare un pesante effetto di bloccaggio sulla situazione irachena contribuendo alla stagnazione del Paese. In questi periodi inoltre sia la contrapposizione politica molto conflittuale tra Stati Uniti e milizie popolari sciite, sia l’ordine di ulteriore riduzione delle forze americane rimaste sul territorio, rischiano di riproporre l’errore commesso nel 2011, quando, a causa del ritiro prematuro delle truppe americane in Iraq, gli Stati Uniti non valutarono adeguatamente le conseguenze derivanti dalle umiliazioni quotidiane inflitte alla popolazione sunnita e la deriva settaria del governo di Nuri al Maliki”.
In questo contesto di debolezza istituzionale si può allora affermare che si trova il terreno fecondo per la nascita dell’ ISIS?
“Furono sostanzialmente queste le cause profonde dell’ascesa repentina dell’ISIS davanti, tra l’altro, ad un esercito iracheno incapace di reazione. Furono proprio queste le cause, che portarono di fatto l’ISIS ad impossessarsi di un terzo del paese e dichiarare l’avvento del Califfato nel 2014. Dopo tre anni di sangue e terrore il Califfato è stato sconfitto militarmente; ma l’ideologia jihadista dell’ISIS continua a fare presa nelle menti e nei cuori di quei sunniti che si sentono vittime di discriminazione, emarginazione e ingiustizia da parte della maggioranza sciita. Approfittando della disattenzione del mondo a causa del COVID-19 e del disimpegno americano, l’ISIS si sta riorganizzando moltiplicando le sue cellule sul territorio. Malgrado un esercito meglio addestrato e più efficiente, con azioni puntuali i miliziani uccidono capi religiosi e tribali non allineati, attaccano postazioni militari e civili inermi, minacciano le popolazioni rurali in certe aree del paese e incendiano campi e raccolti per renderne la vita ancora più precaria“. In questo paese martoriato dalle guerre e dalle lotte intestine si registra la presenza dei cristiani, che in base ai dati statistici rappresentano però una minoranza sempre più esigua. È possibile avere qualche elemento conoscitivo più preciso?
“La situazione delle minoranze cristiane in Iraq, in gran parte di rito caldeo e siriaco, cattolico od ortodosso, sembra essere caratterizzata da un declino ormai inarrestabile. Dal 2003 ad oggi la popolazione cristiana e scesa da 1,5 milioni a circa 250,000 persone, un declino in percentuale dal 5% allo 0,2 % della popolazione irachena. Attentati alle chiese, assassinii e rapimenti di sacerdoti, fedeli minacciati e uccisi, erano fenomeni già cominciati con l’avvento di Al Qaeda; seconda dati del Catholic Register, una rivista americana, più di 1350 Cristiani sono stati uccisi dal 2003 e già prima del 2014 più di 70 chiese erano state bombardate. Ma l’occupazione di dodici villaggi cristiani di Ninive da parte dell’ISIS tra 2014 e 2017 ha portato violenza e sopraffazione ad un inedito livello di brutalità e barbarie, causando la fuga di massa delle popolazioni terrorizzate per cercare protezione nel Kurdistan iracheno, chiese sistematicamente profanate e bruciate, abitazioni in gran parte incendiate e saccheggiate. La scelta imposta dall’ISIS ai Cristiani era semplice: convertirsi, fuggire o essere uccisi. A Qaraqosh, che prima dell’occupazione dell’ISIS contava 55,000 abitanti, non più di 21.000 sono tornati. A Mosul, antico crocevia di etnie e religioni diverse, 45 chiese sono state danneggiate o distrutte, ma solo una ad oggi è stata restaurata, mentre i cristiani tornati a vivere in città sono meno di un centinaio”.
La descrizione, appena fatta, mette in evidenza una distruzione dalle dimensioni inimmaginabili da un punto di vista economico. Si può intuire che esista non solo un problema economico, potrebbe esistere nelle popolazioni cristiane il trauma delle violenze subite.
“Mentre i danni materiali possono essere riparati, quelli psicologici non sono facilmente rimediabili. I traumi subiti mettono in forse, minano la fiducia in un futuro di pacifica convivenza tra cristiani e mussulmani. Anzi a ben vedere forse, oggi, questa convivenza è già compromessa”.
Quali sono le richieste dei cristiani? Che cosa potrebbe capitare in mancanza di precise assicurazioni delle autorità governative?
“In mancanza di fiducia, per tornare le popolazioni cristiane domandano garanzie di protezione; ma sanno che il governo di Bagdad non può fornirle, e mancano le condizioni politiche per l’invio di una forza internazionale di protezione a Ninive. E così che l’emigrazione di massa diventa l’unica alternativa plausibile agli occhi delle giovani generazioni; e le comunità di Cristiani iracheni in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia crescono a vista d’occhio. Godono del benessere materiale, ma la loro lingua, devozione e tradizioni sono in pericolo. A Qaraqosh, prima dell’arrivo dell’ISIS, il 92% dei cristiani parlavano l’aramaico, la lingua di Gesù, e la stragrande maggioranza dei giovani faceva volontariato in parrocchia e assisteva alla messa domenicale. Con l’emigrazione in altre realtà e continenti sarà sempre più difficile mantenere questi tratti distintivi ed il rischio è che le radici e l’identità di una comunità antichissima vadano perdute per sempre”.
In queste settimane un annuncio molto importante è venuto dalla Chiesa di Roma: papa Francesco sarà nel prossimo mese di marzo in Iraq. Questo evento sicuramente ha molti significati: vuole essere un messaggio per far sentire i fedeli iracheni inseriti nella comunità cristiana, ma contiene anche un significato idoneo a rafforzare la fraternità ( termine questo che è preferito da papa Francesco a fratellanza) tra cristiani e mussulmani. Una sua riflessione sull’annuncio di Francesco.
“La visita del Papa in Iraq, a lungo desiderata ma sempre rimandata per ragioni di sicurezza, non ha solo un altissimo valore simbolico ma riveste anche un’importanza concreta sotto vari aspetti. Prima di tutto la testimonianza di solidarietà, conforto e incoraggiamento alla chiesa che soffre, rappresentata in maniera potente dai cristiani iracheni e più in generale in Medio Oriente, una minoranza religiosa che si sta lentamente estinguendo sulle stesse terre in cui è stata presente da 1600 anni. Egualmente importante, la richiesta di concrete garanzie per la sicurezza e protezione della minoranza cristiana a Ninive, in modo da inviare un segnale positivo e ridurre la pressione all’emigrazione, che tra l’altro priverebbe l’Iraq del ruolo di equilibrio della minoranza cristiana nel complesso mosaico etnico – religioso del paese. Poi il messaggio di dialogo tra le fedi abramitiche e comune appello alla fratellanza universale per promuovere armonia e pace tra i popoli, sulla scia della Dichiarazione di Abu Dhabi. Infine un appello alla tolleranza e pacifica convivenza tra le diverse componenti del popolo iracheno, che resta profondamente diviso tra sette e fazioni e soggetto a pericolose manipolazioni interne ed esterne. Senza tolleranza e accettazione di opinioni diverse, la democrazia in Iraq rimarrà gracile e fragile”.
Tra i momenti significativi del soggiorno in Iraq del papa, vi è pure l’incontro con i’ autorevole Ayatollah Ali al Sistani. Questo è un personaggio di grande prestigio nel mondo mussulmano. Forse potrebbe nascere un nuovo dialogo e potrebbero aprirsi le porte a nuove iniziative di collaborazione. Del resto questo Papa guarda con molta attenzione e con sensibilità nuova all’opportunità di una collaborazione tra le due comunità religiose.
“Il viaggio del Papa in Iraq offre un’occasione unica per un incontro con il Grande Ayatollah Ali al Sistani a Najaf, città santa e fulcro dell’Islam sciita assieme a Kerbala; incontrando l’anziano Ayatollah dalla grande influenza sul popolo sciita iracheno e iraniano, il Papa potrebbe inviare un messaggio importante all’Iran e alla componente sciita dell’Islam, finora esclusa dal dialogo privilegiato della Chiesa con le autorità religiose sunnite di Al-Azhar”.
Finora Lei ha fatto una serie di precise sottolineature socio-politiche. Adesso invece la domanda è un po’ personale. Conoscendo l’itinerario apostolico di papa Francesco e conoscendo i luoghi che dal pontefice saranno visitati, dia per un attimo spazio alle sue emozioni
“Per quel che riguarda la visita alle comunità cristiane di Ninive, mi emoziona l’idea che il Papa celebri messa nella chiesa madre di Qaraqosh, che solo tre anni fa era un tempio dissacrato e vuoto, la navata annerita dal fuoco e gli altari distrutti. Spero che a Mosul sia inclusa una sosta del Papa alla chiesa di Nostra Signora delle Ore, storica testimonianza della presenza cristiana nell’antico centro della città sventrato dalla guerra; l’imponente edificio e rimasto in piedi ma e stato devastato dall’ISIS dopo averlo usato come officina per confezionare bombe ed esplosivi, e per impiccare i condannati a morte. Spero anche che l’itinerario del Papa gli permetta di sostare alle rovine del santuario del Profeta Giona, simbolo di Mosul e prima moschea fatta esplodere dall’ISIS per distruggere l’identità della popolazione musulmana della città e sottometterla alla volontà del Califfato. Sarebbe un gesto potente di solidarietà verso coloro che non si sono lasciati sopraffare dal terrore jihadista, nel nome dei profeti dell’Antico Testamento e di Abramo, progenitore comune delle religioni del Libro”.