Antonio Spadaro
Accogliendo l’invito della Repubblica d’Iraq e della Chiesa Cattolica locale, Papa Francesco compirà un Viaggio Apostolico nel suddetto Paese dal 5 all’8 marzo 2021, visitando Baghdad, la piana di Ur, legata alla memoria di Abramo, la città di Erbil, come pure Mosul e Qaraqosh nella piana di Ninive».
Così il 7 dicembre, Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, annunciava un viaggio tanto desiderato da Francesco.
E ha aggiunto che il programma del viaggio «terrà conto dell’evoluzione dell’emergenza sanitaria mondiale».
Senza dimenticare la condizione di pandemia da Covid-19, anzi pienamente consapevole della sua morsa, Francesco compirà il suo primo viaggio dopo 15 mesi di stop.
Ma non è questa la notizia. Un virus ha distrutto le barriere umane, attraversandole senza chiedere permessi o abbattendo frontiere e dogane, svelando una umanità nuda. Il Pontefice, tenendo fisso lo sguardo sul mondo, ha deciso che questo era il momento per programmare un viaggio in Iraq.
Perché?
Il Covid-19 è diventato lo specchio di un virus pervasivo ben presente nel cuore dell’uomo, metafora che svela un mondo malato. Vi è una sorta di pandemia dello spirito e dei rapporti sociali della quale quella del coronavirus diventa simbolo e immagine.
Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto «ospedale da campo».
Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive, che era stata occupata da parte del sedicente «Stato Islamico», tra il 2014 e il 2017, e così Ur dei Caldei, luogo di origine delle tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islam.
Il 25 gennaio del 2020 Francesco aveva ricevuto il presidente iracheno, Barham Salih, parlando di «favorire la stabilità e il processo di ricostruzione, incoraggiando la via del dialogo e della ricerca di soluzioni adeguate a favore dei cittadini e nel rispetto della sovranità nazionale».
In quella occasione il Papa ha regalato al Presidente un medaglione della pace raffigurante un deserto guarito, cioè una landa desolata che diventa un giardino.
Accogliendo l’invito della Repubblica d’Iraq e della Chiesa Cattolica locale, Papa Francesco compirà un Viaggio Apostolico nel suddetto Paese dal 5 all’8 marzo 2021, visitando Baghdad, la piana di Ur, legata alla memoria di Abramo, la città di Erbil, come pure Mosul e Qaraqosh nella piana di Ninive».
Così il 7 dicembre, Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, annunciava un viaggio tanto desiderato da Francesco.
E ha aggiunto che il programma del viaggio «terrà conto dell’evoluzione dell’emergenza sanitaria mondiale».
Senza dimenticare la condizione di pandemia da Covid-19, anzi pienamente consapevole della sua morsa, Francesco compirà il suo primo viaggio dopo 15 mesi di stop.
Ma non è questa la notizia. Un virus ha distrutto le barriere umane, attraversandole senza chiedere permessi o abbattendo frontiere e dogane, svelando una umanità nuda. Il Pontefice, tenendo fisso lo sguardo sul mondo, ha deciso che questo era il momento per programmare un viaggio in Iraq.
Perché?
Il Covid-19 è diventato lo specchio di un virus pervasivo ben presente nel cuore dell’uomo, metafora che svela un mondo malato. Vi è una sorta di pandemia dello spirito e dei rapporti sociali della quale quella del coronavirus diventa simbolo e immagine.
Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto «ospedale da campo».
Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive, che era stata occupata da parte del sedicente «Stato Islamico», tra il 2014 e il 2017, e così Ur dei Caldei, luogo di origine delle tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islam.
Il 25 gennaio del 2020 Francesco aveva ricevuto il presidente iracheno, Barham Salih, parlando di «favorire la stabilità e il processo di ricostruzione, incoraggiando la via del dialogo e della ricerca di soluzioni adeguate a favore dei cittadini e nel rispetto della sovranità nazionale».
In quella occasione il Papa ha regalato al Presidente un medaglione della pace raffigurante un deserto guarito, cioè una landa desolata che diventa un giardino.
E al momento dello scambio di doni ha espresso un suo desiderio: che il Presidente dell’Iraq gli portasse «una carta di identità» che attestasse «Papa Francesco figlio del figlio del figlio del figlio… di Abramo», con riferimento al padre delle tre religioni monoteiste.
Questo è il punto: il Pontefice ha identificato in questi mesi di lockdown e di crisi sanitaria mondiale un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un «prezioso apporto» (cfr Fratelli tutti [FT], nn. 271-287).
Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad.
Un filo tiene legata la piazza San Pietro – che, in piena pandemia, il 27 marzo ha visto Francesco pregare da solo per il mondo – e i luoghi della Mesopotamia, culla della civiltà antica, profanata dalle violenze dello Stato Islamico, dai conflitti regionali e internazionali, dalla persecuzione dei cristiani, dall’esodo di massa di tantissimi iracheni in cerca di una vita migliore.
Sappiamo che da tempo Francesco meditava di visitare l’Iraq. Ne aveva parlato il 10 giugno 2019 durante un’udienza alle Opere di aiuto alle Chiese orientali: «Un pensiero insistente mi accompagna pensando all’Iraq, perché possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali».
Il peso del passato califfale di Baghdad si riverbera nell’oggi come snodo di imperialismi, epicentro di visioni apocalittiche che vogliono accelerare la fine dei tempi con la violenza della filosofia dell’homo homini lupus, in una dialettica fra tensioni millenarie e mobilitazione militante.
Quella di Francesco è una sfida dal forte valore «politico», perché capovolge la logica dell’apocalisse che combatte contro il mondo, perché crede che questo sia l’opposto di Dio, cioè idolo, e dunque da distruggere al più presto per accelerare la fine del tempo.
È una sfida a chi non trova alternative all’essere martiri o apostati. No. C’è un’altra opzione, quella evangelica: essere fratelli. «Basta violenza, basta guerra, basta conflitti. Il viaggio del Papa in Iraq sarà un grido di fratellanza, un anelito di armonia, pace e solidarietà»: così da Baghdad il patriarca caldeo, il card. Louis Raphael Sako, ha commentato a caldo la notizia. «Fratellanza e convivenza armonica», questa la speranza, ha ripetuto il cardinale. Egli ha evocato il profeta Ezechiele, che è vissuto a Babilonia, parlando agli ebrei che in quel tempo vivevano fuori delle proprie terre, come rifugiati, scoraggiati: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», dicevano. E allora Ezechiele profetizzava: «Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore» (Ez 37,5-6).
Si riparte da Baghdad, dunque, per vedere le ossa rinsecchite divenire vitali e infuse di spirito. La notizia del viaggio ha chiuso il 2020 e ha aperto, nella speranza, il 2021. Ritorniamo a sognare, diremmo con il titolo di un volume che il Pontefice ha scritto in conversazione con Austin Ivereigh e nel quale ha affermato:
«Ecco la buona notizia: esiste un’Arca che ci aspetta per condurci a un domani nuovo. La pandemia del Covid-19 è il nostro “momento Noè”, purché e quando troveremo l’Arca dei vincoli che ci uniscono, della carità, della comune appartenenza».
Bisogna tornare al luogo d’origine dell’arca di Noè, alla Mesopotamia, dunque. E il Papa lo farà fisicamente. L’arca riappare nel luogo nel quale è stata concepita per spaccare il mare ghiacciato dell’indifferenza. Francesco da qui potrà evocare un «nuovo umanesimo», che in Fratelli tutti descrive così: «Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (FT 8).
Sappiamo che da tempo Francesco meditava di visitare l’Iraq. Ne aveva parlato il 10 giugno 2019 durante un’udienza alle Opere di aiuto alle Chiese orientali: «Un pensiero insistente mi accompagna pensando all’Iraq, perché possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali».
Il peso del passato califfale di Baghdad si riverbera nell’oggi come snodo di imperialismi, epicentro di visioni apocalittiche che vogliono accelerare la fine dei tempi con la violenza della filosofia dell’homo homini lupus, in una dialettica fra tensioni millenarie e mobilitazione militante.
Quella di Francesco è una sfida dal forte valore «politico», perché capovolge la logica dell’apocalisse che combatte contro il mondo, perché crede che questo sia l’opposto di Dio, cioè idolo, e dunque da distruggere al più presto per accelerare la fine del tempo.
È una sfida a chi non trova alternative all’essere martiri o apostati. No. C’è un’altra opzione, quella evangelica: essere fratelli. «Basta violenza, basta guerra, basta conflitti. Il viaggio del Papa in Iraq sarà un grido di fratellanza, un anelito di armonia, pace e solidarietà»: così da Baghdad il patriarca caldeo, il card. Louis Raphael Sako, ha commentato a caldo la notizia. «Fratellanza e convivenza armonica», questa la speranza, ha ripetuto il cardinale. Egli ha evocato il profeta Ezechiele, che è vissuto a Babilonia, parlando agli ebrei che in quel tempo vivevano fuori delle proprie terre, come rifugiati, scoraggiati: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», dicevano. E allora Ezechiele profetizzava: «Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore» (Ez 37,5-6).
Si riparte da Baghdad, dunque, per vedere le ossa rinsecchite divenire vitali e infuse di spirito. La notizia del viaggio ha chiuso il 2020 e ha aperto, nella speranza, il 2021. Ritorniamo a sognare, diremmo con il titolo di un volume che il Pontefice ha scritto in conversazione con Austin Ivereigh e nel quale ha affermato:
«Ecco la buona notizia: esiste un’Arca che ci aspetta per condurci a un domani nuovo. La pandemia del Covid-19 è il nostro “momento Noè”, purché e quando troveremo l’Arca dei vincoli che ci uniscono, della carità, della comune appartenenza».
Bisogna tornare al luogo d’origine dell’arca di Noè, alla Mesopotamia, dunque. E il Papa lo farà fisicamente. L’arca riappare nel luogo nel quale è stata concepita per spaccare il mare ghiacciato dell’indifferenza. Francesco da qui potrà evocare un «nuovo umanesimo», che in Fratelli tutti descrive così: «Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (FT 8).