By Avvenire
Giacomo Gambassi
16 vovembre 2019
È arrivato in piazza Tahrir, cuore delle proteste che stanno scuotendo Baghdad, su una delle centinaia di Tuc Tuc. Quelle che in Italia tutti conoscono come Ape Piaggio, nella capitale dell’Iraq sono fra i simboli della rivolta che ha un’eco in tutto il mondo.
E il cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei, ha scelto il piccolo e popolare mezzo di trasporto per immergersi fra le migliaia di giovani (e meno giovani) che sono in strada dall’inizio di ottobre. Uniti, al di dà dell’appartenenza religiosa o dell’etnia, per chiedere un futuro nuovo in questa «terra santa», come la definisce il cardinale. «Benvenuti ai nostri fratelli cristiani, saluti al Papa, onori a voi, e benedizioni da voi...» è stato il grido con cui sono accolti il patriarca e la delegazione della Chiesa caldea.
«A tutti devono essere garantiti un lavoro, un alloggio, i sostegni necessari per abitare nel nostro Paese. È così che si costruisce la pace, non sicuramente alimentando le paure, le preoccupazioni, la miseria», spiega Sako ad Avvenire. Iracheno, 71 anni, creato cardinale da papa Francesco nel 2018, parteciperà all’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che farà giungere a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da Bergoglio. Sako, che è anche presidente dell’Assemblea dei vescovi cattolici d’Iraq, porterà in Puglia attese e difficoltà dell’intera Chiesa caldea che ha ramificazioni anche in Turchia, Libano, Egitto e Siria oltre a comprendere i cattolici della diaspora.
La sua visita ai manifestanti si è conclusa di fronte al palazzo di quattordici piani che torreggia sulla piazza e che è divenuto l’emblema della mobilitazione irachena: è il “Ristorante turco” dove si sosta sventolando bandiere e striscioni. «Sono rimasto colpito da come tutti si guardano l’un l’altro come fratelli nati nello stesso Paese – racconta il patriarca –. I giovani chiedono in modo pacifico diritti, quei diritti che sono stati loro “rubati”. Quando si privano le persone dei servizi, dell’elettricità, dell’acqua, dei centri sanitari o educativi, dell’occupazione si commette peccato. E la corruzione e il settarismo contribuiscono al deterioramento della situazione».
Nel documento di preparazione all’Incontro di Bari si cita un’intuizione di Paolo VI: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Una frase che può essere applicata anche all’Iraq odierno...
Sicuramente. La riconciliazione fra i popoli, o anche all’interno di un Paese, non può prescindere dalla giustizia sociale. Perno di ogni azione e di ogni scelta deve essere la dignità dell’uomo che va assicurata in ogni luogo e in ogni momento.
La guerra scatenata dal Daesh può dirsi conclusa. E il fondamentalismo?
Il conflitto è militarmente finito, ma non l’ideologia che lo ha alimentato e che continua a fare breccia grazie all’ignoranza. È innegabile che tutto si collochi nel contesto religioso della Jihad islamica, ossia della “guerra santa”. Invece non ci possono mai essere guerre sante. Anche per l’islam. Come testimonia il fatto che sono stati moltissimi i musulmani uccisi in questi anni. Fondamentale è il Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi lo scorso febbraio da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar. È un richiamo a cambiare mentalità, a uscire da visioni settarie. In un mondo che si è trasformato in villaggio globale, abbiamo l’urgenza di osare la pace tutti insieme, di collaborare senza distinzioni di credo, etnia, cultura per il bene dell’umanità. Basta vendette. Solo il perdono e la riconciliazione sono le vie per una reale svolta.
In Iraq il 95% della popolazione è musulmana. Come i cristiani affrontano la scommessa del dialogo?
Quello che viviamo ogni giorno è il dialogo della vita. Siamo gli uni accanto agli altri nel lavoro, nella scuola, adesso nelle strade per le manifestazioni di queste settimane. Cristiani e musulmani sono chiamati a cercare un vocabolario “comune” intorno al messaggio religioso. Mai si può ricorrere alla fede per giustificare la violenza. Ecco perché noi cristiani abbiamo anche la missione di aiutare i nostri fratelli musulmani a capire che la religione è amore, fraternità, rispetto della vita e dell’altro.
La guerra del Califfato si è portata dietro un preoccupante esodo dei cristiani dal Paese. C’è allarme?
Per la nostra Chiesa una delle maggiori sfide è quella di continuare ad avere un popolo qui. Le famiglie sono divise ormai fra l’Iraq e i luoghi della fuga. Così rischiano di essere cancellati duemila anni di storia e di presenza cristiana. È compito dell’intera Chiesa universale ma direi anche di tutto il mondo sostenerci in queste terre dove affondano le radici della nostra fede e della nostra civiltà. Siamo una minoranza piegata dai problemi e dalle sofferenze, siamo vittime di persecuzioni, abbiamo vissuto il martirio, ma restiamo un esempio di fedeltà al Vangelo, soprattutto per l’Occidente secolarizzato.
Fuggire sembra quasi un obbligo...
Si lascia il Paese a causa della guerra, delle discriminazioni, delle difficoltà socio-economiche. E tutto ciò non è disgiunto dalla presenza dell’islam. Eppure i nostri padri hanno resistito. Anche noi dobbiamo farlo e potremmo contribuire a cambiare gli “schemi” musulmani. Se l’islam resta com’è oggi, chiuso in se stesso, non ha un domani.
Tema migrazioni. Nove rifugiati su dieci provengono da Paesi in difficoltà fra cui Siria e Iraq.
Accogliere i profughi è un dovere e mostra quanto una nazione sia generosa verso chi è nel bisogno. Ma c’è anche l’analoga responsabilità ad aiutare le persone a restare nelle loro terre. Occorre un impegno collettivo perché siano migliorate le condizioni di vita nei Paesi d’origine. Al centro deve esserci il concetto di cittadinanza e non quello di appartenenza religiosa. Si parla spesso di diritti umani ma serve che siano fatti rispettare ovunque, anche qui.
Ci potrà mai essere un’autentica libertà religiosa in Iraq?
Accadrà sicuramente. Non si può imporre una fede a un uomo o a una donna. La religione è legata alla coscienza e fa parte del Dna personale: non può essere un’autorità esterna a indicarla. E oggi, grazie al cielo, anche Internet è un supporto. L’Arabia Saudita ha proibito di far entrare una Bibbia, ma la Sacra Scrittura si trova con un clic sul web.
I conflitti in Iraq e Siria hanno costretto altri 3,4 milioni di bambini a non poter avere un’istruzione. Ciò ha portato il numero di studenti “senza scuola” in Medio Oriente e in Nord Africa a quota 16 milioni.L’istruzione è un diritto. In Iraq la guerra lo ha negato perché ha distrutto aule e scuole. Oggi una parte consistente della popolazione non sa neppure leggere. Ciò può favorire l’estremismo.
La Chiesa è impegnata in questo campo.
Siamo in prima linea con le nostre scuole che sono frequentate da numerosi musulmani: si arriva anche al 90% degli alunni. Studiare fianco a fianco con chi ha una fede diversa è una maniera positiva di costruire un avvenire riconciliato.
E la comunità internazionale?
È assente. L’Occidente agisce qui cercando solo i propri interessi. E, quando si fabbricano armi che poi vengono vendute ai nostri Stati, si deve avere la consapevolezza che si partecipa a preparare guerre e distruzione.
Come giudica l’evento sul Mediterraneo?
È una necessità. C’è bisogno di una visione complessiva soprattutto per il Medio Oriente che porti a imbastire una strategia concreta. Noi cristiani siamo tenuti a spenderci per la pace. Il che significa affrontare temi come l’incontro fra i popoli, la sicurezza, i diritti ma anche il nostro futuro in questi luoghi. Sono grato alla Cei per l’iniziativa e in particolare al cardinale Bassetti che l’ha voluta.
Giacomo Gambassi
16 vovembre 2019
È arrivato in piazza Tahrir, cuore delle proteste che stanno scuotendo Baghdad, su una delle centinaia di Tuc Tuc. Quelle che in Italia tutti conoscono come Ape Piaggio, nella capitale dell’Iraq sono fra i simboli della rivolta che ha un’eco in tutto il mondo.
E il cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei, ha scelto il piccolo e popolare mezzo di trasporto per immergersi fra le migliaia di giovani (e meno giovani) che sono in strada dall’inizio di ottobre. Uniti, al di dà dell’appartenenza religiosa o dell’etnia, per chiedere un futuro nuovo in questa «terra santa», come la definisce il cardinale. «Benvenuti ai nostri fratelli cristiani, saluti al Papa, onori a voi, e benedizioni da voi...» è stato il grido con cui sono accolti il patriarca e la delegazione della Chiesa caldea.
«A tutti devono essere garantiti un lavoro, un alloggio, i sostegni necessari per abitare nel nostro Paese. È così che si costruisce la pace, non sicuramente alimentando le paure, le preoccupazioni, la miseria», spiega Sako ad Avvenire. Iracheno, 71 anni, creato cardinale da papa Francesco nel 2018, parteciperà all’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che farà giungere a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da Bergoglio. Sako, che è anche presidente dell’Assemblea dei vescovi cattolici d’Iraq, porterà in Puglia attese e difficoltà dell’intera Chiesa caldea che ha ramificazioni anche in Turchia, Libano, Egitto e Siria oltre a comprendere i cattolici della diaspora.
La sua visita ai manifestanti si è conclusa di fronte al palazzo di quattordici piani che torreggia sulla piazza e che è divenuto l’emblema della mobilitazione irachena: è il “Ristorante turco” dove si sosta sventolando bandiere e striscioni. «Sono rimasto colpito da come tutti si guardano l’un l’altro come fratelli nati nello stesso Paese – racconta il patriarca –. I giovani chiedono in modo pacifico diritti, quei diritti che sono stati loro “rubati”. Quando si privano le persone dei servizi, dell’elettricità, dell’acqua, dei centri sanitari o educativi, dell’occupazione si commette peccato. E la corruzione e il settarismo contribuiscono al deterioramento della situazione».
Nel documento di preparazione all’Incontro di Bari si cita un’intuizione di Paolo VI: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Una frase che può essere applicata anche all’Iraq odierno...
Sicuramente. La riconciliazione fra i popoli, o anche all’interno di un Paese, non può prescindere dalla giustizia sociale. Perno di ogni azione e di ogni scelta deve essere la dignità dell’uomo che va assicurata in ogni luogo e in ogni momento.
La guerra scatenata dal Daesh può dirsi conclusa. E il fondamentalismo?
Il conflitto è militarmente finito, ma non l’ideologia che lo ha alimentato e che continua a fare breccia grazie all’ignoranza. È innegabile che tutto si collochi nel contesto religioso della Jihad islamica, ossia della “guerra santa”. Invece non ci possono mai essere guerre sante. Anche per l’islam. Come testimonia il fatto che sono stati moltissimi i musulmani uccisi in questi anni. Fondamentale è il Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi lo scorso febbraio da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar. È un richiamo a cambiare mentalità, a uscire da visioni settarie. In un mondo che si è trasformato in villaggio globale, abbiamo l’urgenza di osare la pace tutti insieme, di collaborare senza distinzioni di credo, etnia, cultura per il bene dell’umanità. Basta vendette. Solo il perdono e la riconciliazione sono le vie per una reale svolta.
In Iraq il 95% della popolazione è musulmana. Come i cristiani affrontano la scommessa del dialogo?
Quello che viviamo ogni giorno è il dialogo della vita. Siamo gli uni accanto agli altri nel lavoro, nella scuola, adesso nelle strade per le manifestazioni di queste settimane. Cristiani e musulmani sono chiamati a cercare un vocabolario “comune” intorno al messaggio religioso. Mai si può ricorrere alla fede per giustificare la violenza. Ecco perché noi cristiani abbiamo anche la missione di aiutare i nostri fratelli musulmani a capire che la religione è amore, fraternità, rispetto della vita e dell’altro.
La guerra del Califfato si è portata dietro un preoccupante esodo dei cristiani dal Paese. C’è allarme?
Per la nostra Chiesa una delle maggiori sfide è quella di continuare ad avere un popolo qui. Le famiglie sono divise ormai fra l’Iraq e i luoghi della fuga. Così rischiano di essere cancellati duemila anni di storia e di presenza cristiana. È compito dell’intera Chiesa universale ma direi anche di tutto il mondo sostenerci in queste terre dove affondano le radici della nostra fede e della nostra civiltà. Siamo una minoranza piegata dai problemi e dalle sofferenze, siamo vittime di persecuzioni, abbiamo vissuto il martirio, ma restiamo un esempio di fedeltà al Vangelo, soprattutto per l’Occidente secolarizzato.
Fuggire sembra quasi un obbligo...
Si lascia il Paese a causa della guerra, delle discriminazioni, delle difficoltà socio-economiche. E tutto ciò non è disgiunto dalla presenza dell’islam. Eppure i nostri padri hanno resistito. Anche noi dobbiamo farlo e potremmo contribuire a cambiare gli “schemi” musulmani. Se l’islam resta com’è oggi, chiuso in se stesso, non ha un domani.
Tema migrazioni. Nove rifugiati su dieci provengono da Paesi in difficoltà fra cui Siria e Iraq.
Accogliere i profughi è un dovere e mostra quanto una nazione sia generosa verso chi è nel bisogno. Ma c’è anche l’analoga responsabilità ad aiutare le persone a restare nelle loro terre. Occorre un impegno collettivo perché siano migliorate le condizioni di vita nei Paesi d’origine. Al centro deve esserci il concetto di cittadinanza e non quello di appartenenza religiosa. Si parla spesso di diritti umani ma serve che siano fatti rispettare ovunque, anche qui.
Ci potrà mai essere un’autentica libertà religiosa in Iraq?
Accadrà sicuramente. Non si può imporre una fede a un uomo o a una donna. La religione è legata alla coscienza e fa parte del Dna personale: non può essere un’autorità esterna a indicarla. E oggi, grazie al cielo, anche Internet è un supporto. L’Arabia Saudita ha proibito di far entrare una Bibbia, ma la Sacra Scrittura si trova con un clic sul web.
I conflitti in Iraq e Siria hanno costretto altri 3,4 milioni di bambini a non poter avere un’istruzione. Ciò ha portato il numero di studenti “senza scuola” in Medio Oriente e in Nord Africa a quota 16 milioni.L’istruzione è un diritto. In Iraq la guerra lo ha negato perché ha distrutto aule e scuole. Oggi una parte consistente della popolazione non sa neppure leggere. Ciò può favorire l’estremismo.
La Chiesa è impegnata in questo campo.
Siamo in prima linea con le nostre scuole che sono frequentate da numerosi musulmani: si arriva anche al 90% degli alunni. Studiare fianco a fianco con chi ha una fede diversa è una maniera positiva di costruire un avvenire riconciliato.
E la comunità internazionale?
È assente. L’Occidente agisce qui cercando solo i propri interessi. E, quando si fabbricano armi che poi vengono vendute ai nostri Stati, si deve avere la consapevolezza che si partecipa a preparare guerre e distruzione.
Come giudica l’evento sul Mediterraneo?
È una necessità. C’è bisogno di una visione complessiva soprattutto per il Medio Oriente che porti a imbastire una strategia concreta. Noi cristiani siamo tenuti a spenderci per la pace. Il che significa affrontare temi come l’incontro fra i popoli, la sicurezza, i diritti ma anche il nostro futuro in questi luoghi. Sono grato alla Cei per l’iniziativa e in particolare al cardinale Bassetti che l’ha voluta.
Sako: dal 2018 con la porpora a Baghdad
Louis Raphaël Sako è cardinale dal 2018 per volontà di papa Francesco. 71 anni, nato a Zakho in Iraq, ha frequentato il Seminario dei padri domenicani a Mossul. Sacerdote dal 1974, ha conseguito il dottorato in storia alla Sorbona di Parigi. Nel 2013 è diventato arcivescovo di Kirkuk. È stato eletto patriarca di Babilonia dei caldei durante il Sinodo convocato da Benedetto XVI nel 2013 a Roma e ha ricevuto da papa Ratzinger l’ecclesiastica communio.