Foto Patriarcato Caldeo |
By Asia News
Strade interrotte; scuole e uffici a Baghdad e nelle città del sud dell’Iraq chiusi da ieri, primo giorno della settimana lavorativa; studenti, giovani, semplici cittadini di diverse etnie e confessioni, uniti nella piazza. In Iraq continuano con rinnovato vigore le manifestazioni anti-governative, iniziate il primo ottobre e riprese il 24 del mese scorso dopo una breve interruzione. Una protesta di piazza, assicurano i partecipanti, che continuerà con il blocco totale del servizio pubblico “fino alla caduta del regime”.
Strade interrotte; scuole e uffici a Baghdad e nelle città del sud dell’Iraq chiusi da ieri, primo giorno della settimana lavorativa; studenti, giovani, semplici cittadini di diverse etnie e confessioni, uniti nella piazza. In Iraq continuano con rinnovato vigore le manifestazioni anti-governative, iniziate il primo ottobre e riprese il 24 del mese scorso dopo una breve interruzione. Una protesta di piazza, assicurano i partecipanti, che continuerà con il blocco totale del servizio pubblico “fino alla caduta del regime”.
Le contestazioni, che hanno registrato il sostegno
dei capi delle Chiese in Iraq, hanno fatto registrare il mese scorso
circa 260 morti e migliaia di feriti. Lo stesso patriarca caldeo, il
card. Louis Raphael Sako, nei giorni di maggiore tensione si è recato in
ospedale come segno di solidarietà con i feriti, in larga parte musulmani, e contribuire con una donazione all’acquisto di medicine.
Il patriarcato segue da vicino l’evolversi della situazione e plaude
all’impegno di giovani e non, “uniti” dalla comune appartenenza alla
nazione irakena, per il futuro del Paese. Una vicinanza rinnovata anche
il 2 novembre scorso, quando il porporato (vedi foto) ha visitato la
folla in piazza Tahrir, incontrato i manifestanti e donato loro delle
medicine. “Siamo venuti per esprimere la nostra ammirazione - ha
sottolineato - per questi giovani che hanno spezzato le barriere
settarie e riguadagnato l’identità della nazione irakena” e “al governo
chiediamo di ascoltare il loro grido legittimo”.
Oggi pomeriggio, presso la cattedrale di san Giuseppe a Baghdad, il
patriarcato terrà una “preghiera ecumenica” per la pace e la stabilità.
Intanto nel Paese si moltiplicano gli appelli alla disobbedienza
civile. I sindacati di professori, ingegneri, medici e avvocati sono in
prima linea a guidare la protesta, dopo aver proclamato uno sciopero
generale che rischia di paralizzare scuole e uffici pubblici nella
capitale e nel sud. A Baghdad alcuni giovani manifestanti hanno
posizionato alcune auto di traverso nelle strade per bloccare il
passaggio, mentre una folla sempre più numerosa si sta radunando a
piazza Tahrir, epicentro della contestazione.
A Kout, periferia sud della capitale, il 25enne manifestante Tahsine
Nasser spiega che “bloccare le strade” permette di inviare “un messaggio
al governo”. “Diciamo loro - prosegue - che resteremo per strada fino
alla caduta del regime e alla cacciata di ladri e corrotti”. Ad
al-Hilla, nella provincia di Babilonia, la maggior parte dei funzionari
pubblici sono in sciopero; chiuse le scuole anche a Bassora, nel sud.
Nelle città sante sciite di Kerbala e Najaf sempre più studenti delle
scuole religiose si uniscono alle manifestazioni che non hanno un
carattere settario, etnico o confessionale, ma sembrano unire i
partecipanti sotto un’unica bandiera irakena.
Interrotto anche il traffico di merci e veicolo in direzione del
porto di Oum Qasr, strategico per l’approvvigionamento di merci e
carburanti, tanto da suscitare le prime preoccupazioni - e le ire -
delle autorità. Oggi, sottolineano analisti ed esperti, “per la prima
volta da decenni è la società civile irakena a farsi sentire” dopo
l’autoritarismo del partito Baat e di Saddam Hussein e le derive
confessionali, con le relative violenze, che sono seguite alla caduta
dei raìs nel 2003.
Il pericolo è che la mobilitazione pacifica, ma ferma, possa essere
ancora oggetto di attacchi, violenze e intimidazioni come successo nelle
scorse settimane. E restano anche i timori di un possibile intervento
di potenze straniere - regionali e internazionali - con interessi nel
Paese. Ieri decine di manifestanti hanno attaccato il consolato iraniano
nella città santa sciita di Kerbala, scalando l’edificio e strappando
la bandiera della Repubblica islamica, sostituita con una dell’Iraq. Le
forze di sicurezza hanno sparato colpi in aria per disperdere la folla,
che ha risposto scagliando sassi e bruciando gomme. Un primo, parziale
bilancio parla di almeno tre vittime; ora si attente la (possibile)
risposta di Teheran.