Sulla scia dell'appello rivolto da Papa Benedetto XVI affinchè vengano garantiti maggiori aiuti ai rifugiati iracheni all'estero, Asia News ha raccolto una serie di testimonianze rilasciate nei mesi passati da esponenti religiosi di Siria, Giordania e Turchia, i paesi che accolgono il maggior numero di loro.
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All’Angelus dello scorso 17 dicembre, il Papa ha in particolare ricordato i profughi iracheni in Siria, “costretti a lasciare il loro Paese a causa della drammatica situazione che stanno vivendo”. Dopo il nord Iraq la prima meta per chi scappa è proprio la Siria. Qui, secondo ultime stime del ministero siriano dell’Interno, in tutto dal 2003 sono stati ammessi 750 mila iracheni. Di questi circa 40 mila sono cristiani, divisi tra Damasco e Aleppo. Scelgono la Siria perché si entra senza bisogno di visto, i bambini sono accettati nella scuole e il governo ha ancora una politica di apertura, rispetto ad altri Stati.
Siriano di origini irachene, mons. Antoine Aoudo, si occupa dal 1991 dei cristiani in fuga dall’Iraq. Dalla sua diocesi di Aleppo promuove e coordina programmi di assistenza agli immigrati. Ad AsiaNews spiega che “la condizione dei cristiani iracheni qui è molto dura, prima di tutto dal punto di vista psicologico”. “La solitudine, il senso di abbandono – continua – li rendono molto fragili; se si aggiunge l’estrema difficoltà economica si capisce perché nella Chiesa queste persone trovano l’unico luogo dove si sentono sicuri e protetti”. Per questo il presule racconta che il primo aiuto che offrono è “l’ascolto e la comprensione”. Inoltre le famiglie profughe non hanno alcuna speranza nel futuro: “A loro non viene garantito né il lavoro, né il diritto alla sanità, ma solo quello di soggiorno in attesa di tornare in Iraq o emigrare altrove”. Se negli anni precedenti a lasciare l’Iraq erano soprattutto le classi più abbienti, ora a fuggire sono i più poveri, che partono con poco in tasca e che nel giro di poco tempo si trovano bisognosi di tutto. “Le donne – denuncia il vescovo – sono quelle che soffrono di più: le vedove in particolare finiscono per prostituirsi nel tentativo di guadagnarsi da vivere per sé stesse e i figli. Ed è un fenomeno molto diffuso a Damasco”.
La Chiesa caldea ha istituito a Damasco un Comitato di sei persone – tre iracheni e tre siriani - che gestiscono i programmi di aiuto. “Ogni due o tre mesi variamo programmi per circa 1000 famiglie”. L’assistenza è di tipo alimentare, sanitario e pastorale con corsi di catechismo per i bambini. “Solo a Damasco, 600 bambini si stanno preparando alla Prima Comunione”.
Mons. Aoudo spiega che “non si possono aiutare in modo programmatico i musulmani iracheni perché il governo lo vieta”; ma poi aggiunge: “Se ci viene chiesta, una mano non si rifiuta mai a nessuno”.
Anche la Caritas a Damasco fa qualcosa, dice il vescovo, ma ha molte difficoltà organizzative. I programmi della Chiesa caldea sono possibili grazie a donazioni dall’estero, privati e alcune organizzazioni cattoliche, come Aiuto alla Chiesa che soffre. “L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) – riferisce il vescovo – è impegnato principalmente nel facilitare gli spostamenti e le pratiche per ricevere asilo in un Paese terzo”. “Ma spesso prima di partire si aspettano anche 4 anni”.
Sempre secondo l’Unhcr, i profughi iracheni in Giordania sono circa 500mila e negli ultimi mesi il flusso è di 1000 al giorno. Solo nel 2006 sono 45 mila i cristiani iracheni entrati nel Paese. Da Amman, dove guida la parrocchia di Saint Joseph, p. Raymond Mousalli ha di recente rivolto un appello alle organizzazioni internazionali ed umanitarie perchè aiutino la popolazione irachena cristiana in Giordania, in continuo aumento. Secondo il sacerdote, circa 8000 caldei attendono un visto per l’espatrio o il riconoscimento di asilo. L’appello è rivolto alla Croce Rossa e ad Amnesty International “perchè facciano pressioni per una maggiore celerità nelle concessioni del visto per chi vuole espatriare”. Amman ha iniziato a bloccare gli ingressi agli uomini iracheni tra i 18 e i 35 anni dando preferenza invece a donne, vecchi e bambini.
Gli stessi problemi affrontano i cristiani iracheni in Turchia. Dalle colonne del Turkish Daily News, quotidiano turco in lingua inglese, mons. François Yakan, vescovo caldeo a Istanbul, e mons. Yusuf Sağ, patriarca vicario della Chiesa siro-cattolica in Turchia, hanno descritto una situazione disastrosa. I due leader cristiani si sono appellati alla comunità europea, “perchè accolga le famiglie dei rifugiati cristiani iracheni”. Queste persone vivono in Turchia per anni in attesa di emigrare verso altri Paesi, ma non hanno nessun diritto a lavorare e sono costretti a risiedere dove decide il governo turco, spesso in luoghi dove non possono ricevere assistenza pastorale.
“Questi rifugiati - dichiara mons.Yakan - rimangono qui da uno ad undici anni e non hanno assistenza sanitaria, permessi di lavoro e diritto allo studio. Gli europei non si interessano della sorte di questa gente, eppure parlano di diritti umani e del loro essere cristiani”.
In Turchia bisogna per legge registrarsi presso gli uffici della polizia entro 10 giorni dall’arrivo e richiedere agli uffici dell’Unhcr un documento che certifichi lo status di rifugiati. Fino al rilascio del documento i profughi sono considerati come “richiedenti asilo”, mentre coloro che non si registrano o non fanno domanda di asilo rimangono immigrati senza documenti. Da quando è iniziata la guerra nel 2003 l’Unhcr ha sospeso i normali procedimenti applicati ai richiedenti asilo iracheni. Ottenere il permesso di emigrare in un altro Paese non era facile per loro neanche prima del 2003, ma ora è ancora più improbabile tranne che nei casi più estremi, o in cui i programmi umanitari di Paesi come Usa, Australia e Canada prevedano il ricongiungimento familiare.
Mons. Yusuf Sağ, denuncia che in Turchia l’Onu dirige i rifugiati verso Isparta o Kastamonu, posti dove nessuno parla arabo e dove non ci sono comunità cristiane. E aggiunge: “Il governo turco non fa differenze tra rifugiati cristiani e musulmani, ed entrambi subiscono un trattamento inumano. Noi possiamo fare poco, ed è una tragedia umanitaria”. (MA)