By Vatican News
Debora Donnini
Debora Donnini
La fuga dei cristiani dalle proprie case, lasciando tutto, nel 2014
quando lo Stato islamico ha invaso la zona di Mosul, la Piana di Ninive.
Parte da qui il racconto toccante di padre Thabat Mekko,
sacerdote di Karamles, in Iraq. La sua esperienza l’ha raccontata al
simposio organizzato ieri da Asianews nel corso del quale quattro
missionari hanno testimoniato il loro impegno con i giovani in diversi
Paesi del mondo. Negli anni in cui i cristiani sono fuggiti per trovare
riparo nel Kurdistan, a Erbil padre Mekko dirigeva un centro profughi,
che si prendeva cura di 145 famiglie. Ma ad essere aiutate sono state
molte di più. Un aiuto offerto non solo dal punto di vista materiale,
vestiti, cibo, ma anche scolastico, cercando con l’attività pastorale di
non far perdere la speranza.
Il ritrono e la difficile ricostruzione
Poi il ritorno. Padre Mekko ricorda di aver piantato una croce sulla
collina, appena arrivato a Karamles. “Dopo la sconfitta del sedicente
Stato islamico, nella Piana di Ninive non tutti i cristiani sono
tornati. Il ritorno era difficile perché l’Is ha distrutto la zona, ha
fatto ruberie, quindi la morte e la distruzione erano dappertutto”,
racconta. A tornare è stato circa il 45% dei cristiani. “Con l’aiuto di
Dio e della Chiesa universale, siamo riusciti a ricostruire la zona” e
“oggi c’è la presenza cristiana nella sua terra storica. La società è
composta da cristiani, musulmani, curdi, caldei, assiri, shabaq, quindi
la fiducia è molto importante e la Chiesa sta facendo proprio questo
lavoro”. Molto importante è lavorare con i giovani. La situazione però
non è facile perché i cristiani sono una minoranza con tutto ciò che
questo comporta. Proprio per questo è importante organizzare attività
fra cristiani e musulmani, gettare ponti, incoraggiando i giovani
cristiani a impegnarsi nella società. Una parte dei problemi dei giovani
oggi dipende proprio da quanto accaduto nel 2014, spiega, con le
minacce di morte, la perdita della terra, tanti progetti di studio e
lavoro messi in pericolo. Il sacerdote iracheno sottolinea l’importanza
di “aprire una nuova pagina, nuove relazioni con gli altri” e racconta
che lui stesso sta aiutando “gli shabaq, i musulmani che stanno a
Karamles” a ricostruire le case, accoglie i loro figli negli asili
mentre a Mosul partecipa all’attività dei giovani proprio per mandare
“un messaggio ai cristiani: la nostra società deve tornare come era”.