È sul sangue dei martiri che “si fonda la Chiesa”. Le parole di Papa
Francesco all’udienza generale di mercoledì scorso hanno trovato nuovo
vigore nella consacrazione, in Iraq, della chiesa dedicata ai Santi
Pietro e Paolo: una struttura inaugurata ad Ankawa di Erbil, nel giorno
dedicato proprio ai due martiri, il 29 giugno scorso, dal patriarca di
Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako. In un momento in cui il
Paese vive l’avanzata dell’esercito a Mosul, riconquistata quasi
interamente al sedicente Stato Islamico, nonostante alcune sacche di
resistenza, alla cerimonia di dedicazione ha partecipato il nunzio
apostolico in Iraq e Giordania, l’arcivescovo Alberto Ortega Martin, raggiunto telefonicamente a Baghdad da Giada Aquilino:
Penso che sia una buona notizia: in un Paese dove siamo abituati a tante cattive notizie, il fatto che sia stata inaugurata e dedicata una nuova chiesa è un grande segno di speranza. Tra l’altro è una chiesa che si trova ad Ankawa, un quartiere cristiano della città di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Si tratta di una zona dove ci sono parecchi cristiani e in particolare parecchi rifugiati cristiani: tanti di loro potranno partecipare così più facilmente alle attività della chiesa, alla Messa e alle celebrazioni. Tra l’altro è un edificio molto grande e bello. È un bel gesto che dimostra che la Chiesa continua, ha vitalità e che si va avanti nonostante le difficoltà.
Si tratta di una chiesa dedicata a due Santi che Papa Francesco ha definito “colonne” della Chiesa, due Santi martiri, Pietro e Paolo. Che significato ha in Iraq oggi?
In Iraq, il tema del martirio si vive molto da vicino perché qui i cristiani, anche per loro diretta esperienza, sanno cosa siano le difficoltà e persino le persecuzioni. E tanti di loro hanno perso tutto per mantenere la fede. Avere allora come patroni della chiesa questi grandi Santi, che hanno dato la vita per il Signore, senz’altro per i cristiani d’Iraq è un grande incoraggiamento ed esempio.
C’è stato un momento il giorno della celebrazione in cui ha potuto cogliere qualche parola di speranza, ma pure ancora qualche segno di paura da parte della popolazione?
Quando hanno finito la celebrazione della dedicazione dell’altare, la benedizione, l’unzione del tabernacolo, la gente abitualmente comincia ad urlare di gioia e ad applaudire. È stato un momento molto bello, di grande gioia. Anche nelle parole all’omelia di Sua Beatitudine, il Patriarca Sako, si è notato che c’è una certa preoccupazione: ha esortato ed incoraggiato tutti i cristiani a rimanere nel proprio Paese, ad essere una presenza buona in Iraq nonostante le difficoltà. Si vede quindi che è una situazione difficile, ma proprio l’inaugurazione di una nuova chiesa dà tanta speranza alla gente: la invita a vivere la fede che è ciò che può permetterle di continuare la propria missione.
Come continuare questa missione da cristiani in un momento in cui l’esercito iracheno sta riconquistando Mosul, ma ci sono ancora sacche di resistenza da parte di Daesh?
Dovrà finire questa battaglia e si dovrà vedere un po’ cosa succede a livello militare, sperando che anche la situazione politica e sociale sia un po’ più stabile. Ma l’importante è che i cristiani, come diceva anche il Patriarca, rimangano attaccati alla fede e alla loro terra, alla loro patria, continuando nonostante le difficoltà a fornire quel contributo prezioso che possono dare per il bene non soltanto della Chiesa ma anche dell’intera società. In molti vogliono rientrare nei loro villaggi che sono stati liberati: adesso si deve pensare a ricostruire.
Lei ha detto che ad Erbil ci sono sfollati iracheni che hanno travato lì riparo. In questo momento che fase della guerra si vive?
In alcuni posti che sono stati già liberati, dove la situazione è più tranquilla e forse le case erano meno danneggiate, molte famiglie sono rientrate. C’è un villaggio caldeo che si chiama Telleshkof, un villaggio caldeo vicino ad Alqosh, dove ci sono oltre 600 famiglie cristiane già rientrate: questo è un grande segno di speranza. In altri, si sta continuando il lavoro di ricostruzione: ci vorrà del tempo, ma io spero e auspico che si possa rientrare a poco a poco in tutti i villaggi.
C’è preoccupazione per chi ancora è sfollato e per chi ancora vive la violenza in prima persona?
Sì, c’è preoccupazione nel senso che tutti vorremmo un ritorno più veloce, ma servirà ancora un po’ di pazienza. Spero che presto ci siano le condizioni per poter rientrare. Intanto però quelli che rimangono sfollati continuano a ricevere l’aiuto da parte di tutta la Chiesa per poter continuare a stare là, col desiderio di poter rientrare a casa quanto prima.
C’è un’immagine che contraddistingue questo momento dell’Iraq e che le rimane negli occhi?
Il giorno dopo la consacrazione della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ho partecipato alle Prime Comunioni nella chiesa di San Giuseppe, sempre ad Ankawa, con l’arcivescovo di Erbil, mons. Bashar M. Warda. C’erano tanti bambini - una quarantina - che ricevevano la Prima Comunione ed è stata una celebrazione molto bella. Ho visto come hanno partecipato, come hanno seguito la Liturgia che non è facilissima, come hanno saputo le risposte e come hanno cantato, con gioia e fiducia: sono tornato con questa immagine negli occhi - di questi bambini che saranno i cristiani di domani - dicendo che, grazie a Dio, c’è tanta speranza per la Chiesa.
Penso che sia una buona notizia: in un Paese dove siamo abituati a tante cattive notizie, il fatto che sia stata inaugurata e dedicata una nuova chiesa è un grande segno di speranza. Tra l’altro è una chiesa che si trova ad Ankawa, un quartiere cristiano della città di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Si tratta di una zona dove ci sono parecchi cristiani e in particolare parecchi rifugiati cristiani: tanti di loro potranno partecipare così più facilmente alle attività della chiesa, alla Messa e alle celebrazioni. Tra l’altro è un edificio molto grande e bello. È un bel gesto che dimostra che la Chiesa continua, ha vitalità e che si va avanti nonostante le difficoltà.
Si tratta di una chiesa dedicata a due Santi che Papa Francesco ha definito “colonne” della Chiesa, due Santi martiri, Pietro e Paolo. Che significato ha in Iraq oggi?
In Iraq, il tema del martirio si vive molto da vicino perché qui i cristiani, anche per loro diretta esperienza, sanno cosa siano le difficoltà e persino le persecuzioni. E tanti di loro hanno perso tutto per mantenere la fede. Avere allora come patroni della chiesa questi grandi Santi, che hanno dato la vita per il Signore, senz’altro per i cristiani d’Iraq è un grande incoraggiamento ed esempio.
C’è stato un momento il giorno della celebrazione in cui ha potuto cogliere qualche parola di speranza, ma pure ancora qualche segno di paura da parte della popolazione?
Quando hanno finito la celebrazione della dedicazione dell’altare, la benedizione, l’unzione del tabernacolo, la gente abitualmente comincia ad urlare di gioia e ad applaudire. È stato un momento molto bello, di grande gioia. Anche nelle parole all’omelia di Sua Beatitudine, il Patriarca Sako, si è notato che c’è una certa preoccupazione: ha esortato ed incoraggiato tutti i cristiani a rimanere nel proprio Paese, ad essere una presenza buona in Iraq nonostante le difficoltà. Si vede quindi che è una situazione difficile, ma proprio l’inaugurazione di una nuova chiesa dà tanta speranza alla gente: la invita a vivere la fede che è ciò che può permetterle di continuare la propria missione.
Come continuare questa missione da cristiani in un momento in cui l’esercito iracheno sta riconquistando Mosul, ma ci sono ancora sacche di resistenza da parte di Daesh?
Dovrà finire questa battaglia e si dovrà vedere un po’ cosa succede a livello militare, sperando che anche la situazione politica e sociale sia un po’ più stabile. Ma l’importante è che i cristiani, come diceva anche il Patriarca, rimangano attaccati alla fede e alla loro terra, alla loro patria, continuando nonostante le difficoltà a fornire quel contributo prezioso che possono dare per il bene non soltanto della Chiesa ma anche dell’intera società. In molti vogliono rientrare nei loro villaggi che sono stati liberati: adesso si deve pensare a ricostruire.
Lei ha detto che ad Erbil ci sono sfollati iracheni che hanno travato lì riparo. In questo momento che fase della guerra si vive?
In alcuni posti che sono stati già liberati, dove la situazione è più tranquilla e forse le case erano meno danneggiate, molte famiglie sono rientrate. C’è un villaggio caldeo che si chiama Telleshkof, un villaggio caldeo vicino ad Alqosh, dove ci sono oltre 600 famiglie cristiane già rientrate: questo è un grande segno di speranza. In altri, si sta continuando il lavoro di ricostruzione: ci vorrà del tempo, ma io spero e auspico che si possa rientrare a poco a poco in tutti i villaggi.
C’è preoccupazione per chi ancora è sfollato e per chi ancora vive la violenza in prima persona?
Sì, c’è preoccupazione nel senso che tutti vorremmo un ritorno più veloce, ma servirà ancora un po’ di pazienza. Spero che presto ci siano le condizioni per poter rientrare. Intanto però quelli che rimangono sfollati continuano a ricevere l’aiuto da parte di tutta la Chiesa per poter continuare a stare là, col desiderio di poter rientrare a casa quanto prima.
C’è un’immagine che contraddistingue questo momento dell’Iraq e che le rimane negli occhi?
Il giorno dopo la consacrazione della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ho partecipato alle Prime Comunioni nella chiesa di San Giuseppe, sempre ad Ankawa, con l’arcivescovo di Erbil, mons. Bashar M. Warda. C’erano tanti bambini - una quarantina - che ricevevano la Prima Comunione ed è stata una celebrazione molto bella. Ho visto come hanno partecipato, come hanno seguito la Liturgia che non è facilissima, come hanno saputo le risposte e come hanno cantato, con gioia e fiducia: sono tornato con questa immagine negli occhi - di questi bambini che saranno i cristiani di domani - dicendo che, grazie a Dio, c’è tanta speranza per la Chiesa.