By Asia News
La linea dura del presidente Usa Donald Trump sull’immigrazione ha messo più di 100 irakeni caldei a rischio di rimpatrio. In Iraq la loro vita è in pericolo, come sottolinea la Conferenza episcopale statunitense (Usccb) in una lettera inviata al segretario per la Difesa nazionale. Sono molte le comunità che pagano le conseguenze della politica di Trump, come racconta ad AsiaNews p. Giancarlo Ghezzi, missionario Pime e parroco della chiesa All Saints di Detroit.
La linea dura del presidente Usa Donald Trump sull’immigrazione ha messo più di 100 irakeni caldei a rischio di rimpatrio. In Iraq la loro vita è in pericolo, come sottolinea la Conferenza episcopale statunitense (Usccb) in una lettera inviata al segretario per la Difesa nazionale. Sono molte le comunità che pagano le conseguenze della politica di Trump, come racconta ad AsiaNews p. Giancarlo Ghezzi, missionario Pime e parroco della chiesa All Saints di Detroit.
A febbraio, il Dipartimento per la sicurezza nazionale ha ampliato il
criterio per la deportazione. In precedenza, si trattava di immigrati
senza documenti e con condanne penali, ma ora si parla di chiunque abbia
commesso “atti che possano costituire reato”.
I 114 caldei fermati lo scorso 11 giugno dalla Immigration and
Customs Enforcement (Ice) avevano ricevuto un ordine di espulsione
diversi anni fa, e a quanto riporta Foreign Policy non tutti
hanno precedenti penali: alcuni erano soltanto rimasti oltre la scadenza
del visto. In passato non erano stati deportati perché l’Iraq non
emetteva i documenti necessari al rimpatrio, ma a marzo Baghdad ha
promesso di accettare i rimpatriati a patto di essere esclusa dal
“travel ban”. Alla fine di gennaio 2017, l’amministrazione di Trump
aveva emesso il primo divieto all’ingresso di cittadini di sette Paesi a
maggioranza musulmana. Nella seconda versione di marzo l’Iraq ne è
stato escluso, lasciando nella lista Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e
Yemen.
Secondo l’Ice, i detenuti sono “criminali incalliti”. Il New York Times
parla di condanne che variano dal furto fino all’omicidio. Per gli
avvocati difensori si tratta per lo più di reati minori commessi anni
fa, in alcuni casi seguiti da decenni di comportamento rispettoso della
legge. Jihan Asker, 41 anni e madre di tre figli, aveva patteggiato una
condanna per frode minore nel 2003, pagando una multa di 150 dollari e
scontando sei mesi di libertà vigilata.
Lo scorso 19 giugno, la Commissione sulla migrazione e la Commissione
Giustizia e pace dell’Usccb hanno scritto a John F. Kelly, segretario
alla Difesa nazionale, perché posponga l’espulsione degli irakeni fino
alla stabilizzazione del Paese e all’assicurazione che il governo di
Baghdad sia “intenzionato e capace di proteggere i diritti delle
minoranze religiose”. Essi sono consapevoli dei crimini commessi da
alcuni di loro e credono sia “appropriato che vengano puniti per i loro
reati”, ma sostengono che “non sarebbe né giusto né umano deportare una
persona che si è integrata nella vita americana e non rappresenta alcun
rischio evidente per la comunità locale”. Soprattutto considerando il
“pericolo di persecuzione e di possibili lesioni fisiche”.
Molti di questi caldei non conoscono l’arabo e hanno simboli
cristiani tatuati sul corpo. Il loro provvedimento di espulsione è stato
sospeso dal giudice distrettuale Mark Goldsmith fino a oggi perché se
l’ordine fosse attuato i deportati subirebbero un “danno irreparabile” e
“un importante rischio di perdita della vita”.
Il fenomeno delle deportazioni si estende oltre i confini della comunità irakena. P. Ghezzi racconta ad AsiaNews
l’esperienza dei suoi parrocchiani, per la maggioranza provenienti da
Messico, Costa Rica e Salvador. La loro partecipazione in chiesa è
“diminuita drasticamente” perché temono di essere fermati dalla polizia o
dall’Ice. È ridotto anche il numero dei bisognosi alla mensa gestita
dalla Caritas: “Non vengono perché hanno paura che uscendo di casa
possano essere fermati. Non si muovono, non rischiano, neanche per
cercare aiuto”.
“Il problema delle espulsioni – spiega il sacerdote – è che
distruggono le famiglie: il marito viene rimandato al Paese d’origine, e
la moglie resta qui con i figli, o il contrario. Le famiglie vengono
spezzate."
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