di Luigia Storti
Il 20 aprile dello scorso anno più di 200 iracheni, su quattro autobus, partirono alla volta di Amman, in Giordania. Non era un’allegra comitiva, anche se la speranza animava tutti. 110 di loro erano bambini e ragazzi affetti da gravi malformazioni al volto che, accompagnati da un genitore e da personale medico e paramedico iracheno, stavano per ritrovare la speranza di una vita normale grazie all’organizzazione internazionale Operation Smile che dal 1982 ha ridato il sorriso a più di 100.000 bambini nel mondo, e che dal 2003 ha prestato cure mediche a 292 bambini provenienti dall’Iraq intervenendo chirurgicamente su 250 di loro.
Lasciata Baghdad il convoglio di autobus si diresse ad ovest e presto si ritrovò a viaggiare sull’autostrada che taglia in due il deserto siriaco nella sua parte irachena.
I cellulari avevano smesso di funzionare appena lasciato il territorio della capitale, e fino all’arrivo al confine giordano non sarebbe più stato possibile comunicare con qualcuno, neanche per riferire di un eventuale pericolo, che puntualmente si materializzò nei pressi della cittadina di Ramadi, ormai conosciuta come una delle “roccaforti sunnite” della guerra intestina e contro l’occupazione che sta divorando l’Iraq. Un fuoristrada pieno di uomini armati sbarrò la strada al convoglio. Uno dei suoi occupanti ne discese e fece segno all’autista del primo autobus di aprire la portiera e farlo salire. Una volta a bordo l’uomo chiese agli ormai terrorizzati passeggeri di mostrare i documenti di identità, ma mentre essi si apprestavano a farlo un altro uomo, con il viso coperto ed armato dell’immancabile AK47, salì sull’autobus e ordinò al primo di far scendere tutti gli sciiti per poterli uccidere. Immediatamente l’autobus si riempì di urla e pianti. Riflettendo la composizione demografica del paese la maggior parte dei passeggeri erano infatti sciiti, e ben sapevano di star andando incontro a morte certa.
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A volte però, sebbene raramente, la fortuna volge lo sguardo anche verso gli iracheni, ed in quel caso essa si presentò loro sotto forma di una colonna di mezzi americani che sopraggiungendo da est costrinse gli assalitori alla fuga. Neanche con la più fervida immaginazione potremmo capire appieno la sensazione di sollievo che quelle persone provarono prima di riprendere il viaggio ormai salvi. Una sensazione che fu rivissuta ore dopo quando, in attesa di poter entrare in Giordania, al posto di confine di Karameh, quelle persone ascoltarono la storia che un autista stava narrando: non protette dal provvidenziale quanto inconsapevole aiuto che i mezzi americani avevano fornito al convoglio di autobus, quindici persone erano state uccise a sangue freddo dallo stesso gruppo tornato a pattugliare la strada per “ripulire” la zona dagli sciiti.
Questo è ormai diventato l’Iraq: un paese dove guerra e violenza hanno cancellato in molti ogni residuo di sentimento umano, sacrificato sull’altare di un Dio che è “mio” e non “tuo,” e dove anche i più innocenti ed indifesi possono morire per il nome che portano e che, di volta in volta, li qualifica come amici o nemici.
Nonostante quella brutta avventura, comunque, i quattro autobus arrivarono ad Amman ed in una settimana, su cinque tavoli operatori, e con 40 tra medici e paramedici volontari di Operation Smile che si alternavano in turni massacranti dalle 8.00 del mattino alle 22.00 di ogni sera, per 98 dei 110 bambini la vita ritornò a sorridere proprio attraverso i loro stessi visi ormai liberi da malformazioni.
Da quel 20 di aprile molti altri bimbi iracheni hanno ricevuto le stesse cure. Una cosa sola è cambiata: il loro trasporto all’estero avviene ormai tramite aerei militari americani per ovvie ragioni di sicurezza!
Chi ci ha raccontato questo episodio lo ha fatto con gli occhi lucidi dall’emozione e dalla felicità: lui era in quel primo autobus in qualità di medico, ed in quanto tale ha seguito quei bambini in quell’occasione ed ancora nel successivo mese di settembre, li ha visti guarire e tornare nel proprio paese con una nuova speranza.
Alla fine di ottobre del 2006 quel medico, che chiameremo con le sole iniziali J.T. per ragioni di sicurezza, era di nuovo a Baghdad con il compito di preparare il viaggio di altri bambini bisognosi di interventi di chirurgia plastica per malformazioni ed esiti di ustioni, questa volta per Roma.
Grazie ad un accordo tra la Direzione Generale per i Paesi del Mediterraneo e Medio Oriente/Task Force Iraq del Ministero degli Affari Esteri e la Fondazione Operation Smile Italia Onlus, infatti, i piccoli pazienti provenienti dalle province di Bassora e Dhi Qar (il cui capoluogo è Nassiriya) erano attesi in Italia agli inizi di novembre. L’attività di controllo dei documenti e di triage dei pazienti in collaborazione con i medici romani, organizzata in una località conosciuta solo a pochi, era frenetica, ed il Dottor J.T. lavorava a pieno ritmo quando ricevette la telefonata che tutti gli iracheni temono e che sempre si traduce o con la morte del minacciato o con la sua fuga: “tu lavori con gli americani, stai attento, ti uccideremo.”
Fu così che dopo avere accompagnato e seguito, come già programmato, i primi 31 bambini ricoverati ed operati presso le strutture sanitarie Ospedale San Pietro-Fatebenefratelli e Villa Flaminia di Roma, il Dottor J.T. ha chiesto ed ottenuto lo status di rifugiato politico in Italia, dove ora vive in attesa di sostenere gli esami per il riconoscimento della laurea in medicina conseguita a Baghdad, e magari di poter frequentare i corsi di specializzazione in chirurgia plastica per i quali l’esperienza certo non gli manca.
In questi giorni a Torino il Dottor J.T. ci ha parlato della sua vita, della situazione sanitaria in Iraq e dei suoi desideri. Cominciamo proprio da questi ultimi e cerchiamo di capire cosa hanno a che fare con la nostra città.
Dopo Roma, Torino. Cosa l’ha portata qui Dottor J.T.?
Per due anni, dal giugno del 2003 al giugno del 2005, ho lavorato con i medici italiani dell’Ospedale della Croce Rossa a Baghdad, e per quasi due mesi con l’equipe di medici e paramedici proveniente da Torino con i quali ho stabilito un buon rapporto. All’epoca, dopo essermi laureato in medicina a Baghdad, avevo frequentato due anni di specializzazione in chirurgia plastica, e lavorare con i medici italiani mi ha dato la possibilità di imparare molto, anche delle tecniche e dei materiali che fino ad allora in Iraq non avevamo potuto utilizzare a causa dell’embargo che aveva trasformato il nostro sistema sanitario, una volta il migliore del Medio oriente, in uno dei peggiori del mondo.
Per questa ragione sono venuto a Torino. Il mio desiderio è continuare a studiare e specializzarmi nel mio campo, e qui ho trovato un ambiente aperto e pronto a capire i problemi di un medico che è stato costretto a lasciare il suo paese ma che non vuole smettere di essere utile al prossimo, specialmente ai bambini con cui ho lavorato così tanto negli ultimi anni.
Che possibilità ci sono per lei di inserirsi a Torino?
E’ presto per dirlo. Ci sono degli esami da sostenere ed un iter burocratico da rispettare, ma ho avuto occasione di esporre il mio caso ad alcuni colleghi ed anche al Professor Giovanni Pacchiotti, Direttore dell’Istituto di Chirurgia Plastica dell’Ospedale San Vito, cui ho anche confessato un mio sogno: che qualche bambino iracheno che necessiti di un intervento di chirurgia plastica possa essere operato a Torino.
Lavorando per Operation Smile, lei si è occupato principalmente di chirurgia plastica per gravi malformazioni. Ci può parlare di questi piccoli bisognosi di cure?
L’opera svolta da Operation Smile riguarda quasi esclusivamente bambini affetti da palatoschisi e labbro leporino, malformazioni che nella maggior parte dei casi non mettono a repentaglio la vita dei pazienti ma hanno gravissime conseguenze, specialmente in campo psicologico. Un bambino non operato soffrirà la pietà o addirittura l’esclusione da parte della società, avrà difficoltà a nutrirsi ed anche a parlare, e per questa ragione è importante intervenire entro i primi due anni di vita.
L’incidenza di casi come quelli da lei illustrati è alta in Iraq?
In Iraq, a causa di ciò che sta accadendo, è difficile compilare delle statistiche. Per esperienza e per i contatti con gli altri medici che si occupano di questi casi posso parlare di almeno 3000 bambini affetti da queste patologie. Un’incidenza senza dubbio più alta che nei paesi europei dove tali malformazioni congenite vengono subito curate.
Che possibilità ci sono per questi bambini di essere operati in Iraq?
Pochissime, purtroppo, e per molte ragioni diverse legate alla situazione in cui versa il paese. Per prima cosa gli specialisti sono sempre di meno. Prima della guerra del 2003 i chirurghi plastici specializzati in questo tipo di chirurgia erano 45, tutti laureati all’Università di Baghdad che era anche l’unica dove era possibile specializzarsi nel campo. Ora sono tra 20 e 25, di cui 10 nella capitale. Le minacce cui i medici sono - siamo - stati sottoposti in questi anni solo per il fatto di voler continuare ad esercitare la nostra professione senza distinguere tra pazienti e colleghi di diversa appartenenza etnica o confessionale, e perchè la nostra stessa presenza è malvista da chi vuole spogliare il paese dei suoi cervelli, ci ha costretto alla fuga. Dal 2003, infatti, l’Iraq ha perso circa 15.000 medici, un numero enorme specialmente se consideriamo che proprio la situazione di violenza in cui una buona parte del paese vive renderebbe più che mai necessaria la nostra presenza.
Il numero ridotto di specialisti vuol dire minori possibilità per i pazienti di ricevere le cure adeguate. In alcune province del paese, ad esempio, come quelle di Dhi Qar, Diyala e Maysan, non ci sono chirurghi in grado di eseguire questi interventi che non vengono neanche considerati prioritari.
In questi casi i genitori di un bimbo che necessita di intervento devono recarsi a Baghdad?
Si, per loro è l’unica possibilità ma, anche se arrivati a Baghdad o anche se “di” Baghdad, l’intervento non è mai certo.
Poniamo che si tratti di un ricovero in un ospedale pubblico. In alcuni di essi - Al-Kindi, Wasyt e Medical City - è teoricamente possibile intervenire su questi pazienti, e gratuitamente, ma è davvero difficile. Per prima cosa questi ospedali sono costretti a dare la priorità agli interventi di urgenza che purtroppo a Baghdad sono nell’ordine delle decine se non centinaia al giorno. A volte poi mancano i farmaci, specialmente gli anestetici ed i salvavita. In quel caso si cercano negli ospedali vicini sperando che ne abbiano in eccedenza, o si manda una macchina a prendere le scorte presso il Ministero della Salute che però molte volte è impossibile da raggiungere a causa delle strade bloccate, con o senza preavviso, dei checkpoints, delle bombe che esplodono e che paralizzano il traffico, del coprifuoco. Tutte situazioni che molte volte impediscono allo stesso personale degli ospedali di arrivare al lavoro. E’ ovvio, anche se crudele quindi, che questo tipo di chirurgia venga molte volte posposto o addirittura annullato rendendo vani i ricoveri dei bambini. Migliore, anche se non di molto, è la situazione nelle poche cliniche private ancora funzionanti che magari sono meglio equipaggiate ma che sono ben lontane, malgrado gli elevati costi – anche 2.000 $ per un intervento di palatoschisi – dal poter porre rimedio ad una simile tragedia.
E per la chirurgia necessaria nei casi di ustioni?
La situazione se si vuole è ancora peggiore. In questo campo la chiusura dell’Ospedale della Croce Rossa Italiana ha rappresentato un netto peggioramento della situazione. Se si potesse fare una media direi che in ogni attentato con autobomba per ogni vittima c’è un paziente ustionato che non può ricevere cure adeguate malgrado si tratti molte volte di interventi salvavita. Alcuni ospedali hanno dei piccoli reparti ma non sono adeguati perchè necessiterebbero di camere di isolamento, di impianti e procedure di sterilizzazione, di efficaci sistemi di ricambio dell’aria, di attrezzature e presidi sanitari specifici. Tutte cose impossibili da ottenere oggi in Iraq.
Il quadro che ci ha descritto è senza dubbio peggiore di ciò che apprendiamo quasi quotidianamente dai mezzi di informazione, specialmente per quanto riguarda i bambini che vengono sempre genericamente conteggiati tra le “vittime.” Che speranze ci sono che questa tragedia possa finire?
Sinceramente non lo so.
E lei, Dottore, che speranze ha?
Per adesso rimanere qui a studiare per diventare un medico migliore, provare ad essere di aiuto almeno a qualcuno di quei bambini, e poi, se un giorno potrò, ritornare nel mio paese che avrà bisogno di tutte le energie necessarie per ricostruire il proprio presente ed il proprio futuro che, come ovunque nel mondo, è nei nostri bambini.