Fonte: LA STAMPA
Tra i molti articoli che in questi giorni ho letto sulla sorte dell'ex presidente iracheno, uno mi ha colpito in modo particolare tanto da aver avuto voglia di ricopiarlo e postarlo, invitando chiunque lo legga a riflettere sulla necessità di non dare giudizi affrettati, dettati non tanto dal realismo, quanto da granitiche posizioni politiche che funzionalmente - pur conoscendolo - lo ignorano.
L'articolo si intitola "Una morte giustificabile" ed è stato pubblicato ieri, 31 dicembre 2006, su La Stampa a firma di Andrea Romano.
Clicca su "leggi tutto" per leggere l'intero articolo.
Una morte giustificabile
Andrea Romano
La Stampa, 31 dicembre 2006
La Stampa, 31 dicembre 2006
Beati coloro che sono animati dalla certezza delle proprie opinioni di fronte allo spettacolo di quel cappio. Perché l'esecuzione di Saddam dovrebbe costringerci tutti a un doloroso esercizio del dubbio. Compresi noi europei che veniamo da un lungo periodo di privilegio, da più di sei decenni all'insegna della pace e della democrazia durante i quali non ci è più toccato in sorte di giudicare chi tra noi si fosse reso responsabile del crimine di sterminio. L'ultima volta che ci siamo misurati con il problema lo abbiamo risolto con qualche approssimazione giuridica ma con efficacia, senza poi dovercene pentire più di tanto. «Se sia giusto uccidere un tiranno lo abbiamo chiarito una volta per tutte con la fucilazione di Benito Mussolini»: rispose più o meno così Sandro Pertini, memore del suo antifascismo combattente, a chi gli chiedeva nel 1986 cosa pensasse del fallito attentato a Pinochet. Augusto Pinochet è poi spirato serenamente nel suo letto, come era già capitato a Pol Pot e ancora prima a Stalin. Lo stesso sarebbe accaduto a Saddam, tra venti o trent'anni, se la pena capitale fosse stata commutata nel carcere a vita. Sarebbe stato meglio per l'Iraq di questi giorni? Probabilmente sì, come ci dicono le vittime dei primi attentati già organizzati in rappresaglia. E viene da pensare che ancor meglio sarebbe stato se Saddam fosse stato ucciso nel buco in cui era stato catturato, risparmiandoci le certezze o i dubbi di queste ore. Ma sarebbe un cedimento alla pigrizia. Perché la sua esecuzione fa orrore alla nostra civiltà giuridica tanto quanto ci obbliga a metterci nei panni di un iracheno: uno qualunque tra i milioni che ieri hanno festeggiato, in piazza o nelle proprie case, per la giustizia che finalmente veniva resa alla memoria di un familiare o di un amico assassinato da una delle dittature più sanguinarie del ventesimo secolo. È stata una giustizia piena di falle e di crepe, gestita da un tribunale di vincitori che ancora non possono ritenersi tali. Soprattutto, è mancato il vero processo internazionale che avrebbe potuto far luce sui trent'anni del suo potere, sulle connivenze di cui ha goduto anche in Occidente così come sulla vera dimensione dei suoi crimini. Paradossalmente Saddam è arrivato al patibolo per uno dei suoi stermini minori, per poche decine di civili uccisi sulle centinaia di migliaia di cui si è reso responsabile. E da oggi c'è chi potrà dire che il dittatore è stato fatto tacere perché non rivelasse niente dei suoi passati rapporti con la Casa Bianca, così come si diceva che Mussolini era stato fucilato su ordine dei britannici per evitare imbarazzi a Churchill. Tutto vero, è stata una giustizia fragile e parziale. Ma è stata la giustizia degli iracheni, di un popolo che non finisce di essere vittima dei propri carnefici, dei catastrofici errori di Bush e del pilatesco disinteresse della maggior parte dei paesi europei. Nel mare di sangue da cui è attraversato ogni giorno, quella di Saddam è l'unica morte giustificabile sulla strada di una speranza possibile per l'Iraq. Una tragedia come ogni volta che un uomo muore per mano di un altro uomo, ma forse l'inizio di una svolta per un paese che può iniziare a ritrovarsi intorno all'esecuzione del primo responsabile della sua rovina. Una piccola dose di rispetto verso la sventura irachena dovrebbe spingerci a domandarci se non sia il caso di abbassare almeno un po' il ditino con il quale condanniamo quella forca. Uno spettacolo penoso, ma anche un messaggio per gli altri sanguinari rais rimasti nel mondo. Che forse per qualche giorno andranno a dormire massaggiandosi il collo.