"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

22 novembre 2019

La bandiera irachena sull'altare come simbolo di vicinanza ai manifestanti.

By Baghdadhope*

Foto Ankawa.com
Secondo quanto riferisce il sito Ankawa.com in solidarietà con le proteste antigovernative che dal primo ottobre stanno infiammando Baghdad ed il sud dell'Iraq nella cittadina a maggioranza cristiana di Baghdida, nel nord del paese, l'altare della chiesa di Mar Benham e Sara è stato adornato con una bandiera irachena.
La chiesa, inaugurata il 1 agosto del 2008, è stata riconsacrata il 15 agosto del 2019 dal patriarca della chiesa siro cattolica, Mar Joseph III Younan dopo essere stata distrutta dall'ISIS nel 2014. 
Essa è dedicata alle figure del principe assiro Benham e di sua sorella Sara che, insieme a 40 seguaci, si convertirono al cristianesimo e che per questo furono condannati a morte dal padre Sennacherib.
La chiesa siro cattolica della cittadina di Baghdida (conosciuta anche come Qaraqosh) apparteneva fino alllo scorso agosto alla diocesi di Mosul, Kirkuk e Kurdistan che è stata però sostituita dall'attuale diocesi di Hadiab - Erbil e tutto il Kurdistan guidata da Mons. Nathaniel Nizar Seeman. 

21 novembre 2019

La corona di spine di Cristo come simbolo della sofferenza di tutti gli iracheni.

By Baghdadhope*

Tra le foto delle opere d'arte che in questi giorni stanno adornando il tunnel che a Baghdad passa sotto Piazza Tahrir, epicentro geografico delle proteste antigovernative in atto ormai dal primo di ottobre, ha destato molto interesse quella che raffigura il volto di Gesù incoronato di spine.
L'opera, secondo quanto riferisce Ankawa.com, è stata dipinta da una ragazza, Duha Abbas Al Jabri, che ha inteso rappresentare il Cristo crocefisso come simbolo delle pene patite dagli iracheni a dimostrazione di quanto le rivolte stiano coinvolgendo tutte le componenti etniche e religiose del paese, come è stato chiaro dalle iniziative prese dal patriarcato caldeo di visitare i feriti delle rivolte ricoverati in ospedale e di sfilare con la bandiera irachena al collo proprio a Piazza Tahrir, e dalla dichiarazione congiunta di tutti i capi cristiani di Baghdad a favore di una soluzione pacifica della rivolta che conta già più di 300 morti e migliaia di feriti.         


AgenSIR
Iraq: “Baghdadhope”, la corona di spine di Cristo come simbolo della sofferenza di tutto il popolo 

Iraqi Christian groups respond to criticism of USAID grants to help victims of ISIS

By The Christian Post
Samuel Smith

Iraqi Christian groups are responding after grants they were awarded last month from the U.S. Agency for International Development to help restore the Nineveh Plains and strengthen communities victimized by the Islamic State (IS) were criticized by media. 
Representatives from the Catholic University in Erbil (affiliated with the Chaldean Catholic Church) and the Shlama Foundation, a small Ankawa-based Christian nonprofit, are defending their organizations’ USAID grants after a lengthy ProPublica article questioned their validity. 
The article in question was published Nov. 4 and titled “How Mike Pence’s Office Meddled in Foreign Aid to Reroute Money to Favored Christian Groups.”  Experts cited in the article take issue with the role that Vice President Pence’s office and political appointees played in ensuring USAID funding goes to Iraq-based Christian organizations trying to rebuild their communities.
Through interviews with 40 current and former U.S. officials and aid professionals, the article aimed to “shed new light on the success of Pence and his allies in influencing the government’s long-standing process for awarding foreign aid.” Concern was expressed by “career officials” that USAID could be in violation of the Establishment Clause of the U.S. Constitution for “favoring” Iraqi Christian groups for grants in a predominantly Muslim country. 
But some religious freedom advocates say they feel that criticism of USAID funding going to these groups is an attempt to turn America’s bipartisan desire to aid religious minority communities decimated by IS and on the verge of extinction into a “partisan” issue. 
“It is irrational, immoral and inconsistent with international human rights theory and policy to argue that the United States should not be helping Christians or a religious group targeted with religious genocide by ISIS,” international human rights lawyer Nina Shea, a senior fellow with the conservative think tank Hudson Institute, told The Christian Post. 
“Their conclusion is that the US should not be helping genocide, religious genocide survivors because they are a religious group even though they were targeted for religious reasons.” 

A Baghdad, i manifestanti stanno dando forma ad un “paese vero”

By Un Ponte per...

Gesù Cristo, a braccia aperte, accoglie la folla che avanza verso Piazza Tahrir da Saadoun Street, un’importante arteria che attraversa Baghdad. “Issa, Cristo vivente, tu che fai miracoli, liberaci dalla miseria, dalla corruzione e dal male”, leggiamo su un cartello firmato “i vostri fratelli cristiani”. Questa sorprendente partecipazione è volontariamente sottolineata dai manifestanti iracheni che dal 25 ottobre occupano il centro della capitale. A pochi metri di distanza, un manifesto appeso ad una tenda proclama ironicamente: “Offriamo le nostre condoglianze al governo per la morte del comunitarismo, fratello di Adel Abdel-Mehdi [il primo ministro iracheno], del parlamento e dei partiti.
La corruzione e il comunitarismo che divorano lo Stato dal 2003 sono stati i primi ad essere banditi dallo spazio che i manifestanti hanno sequestrato per condannare l’Iraq che rinnegano, e per disegnare il paese che vorrebbero. “Qui vedrete tutto ciò che l’Iraq non è e tutto ciò che vorremmo che fosse. Un paese vero, e non una proprietà di ladri e di assassini”, dice uno studente di economia, riferendosi alla repressione mortale che ha colpito i manifestanti. Da circa due settimane il giovane vive giorno e notte in una delle centinaia di tende allestite nel territorio controllato dalla protesta.

Tende multicolore
Questo campo gigante, nel cuore di Baghdad, è stato sottratto al traffico e al controllo della polizia. Dalla grande piazza Tahrir, che non hai mai portato meglio il proprio nome: “liberazione”, straborda nei viali, nei giardini e nei cunicoli circostanti con una posizione e un’area paragonabili a quella compresa tra Place de la République e Place de la Bastille a Parigi. Migliaia di manifestanti occupano permanentemente i locali e decine di migliaia di persone, impegnate o che sostengono il movimento, lo attraversano ogni giorno.
All’inizio della sua quarta settimana, la protesta in Iraq continua a guadagnare terreno, sostegno e determinazione. Lo sciopero generale di domenica è stato ampiamente sostenuto da parte di funzionari pubblici, studenti, insegnanti e liberi professionisti, che si sono uniti alle file dei manifestanti a Baghdad come anche in altre città del sud del paese. I manifestanti della capitale hanno addirittura esteso il territorio che controllavano dall’inizio del movimento, conquistando l’accesso ai due ponti che attraversano il fiume Tigri e che conducono al lato della città dove si trovano gli edifici governativi. Occupano anche un edificio che si affaccia su uno di questi ponti. “I vostri cecchini e le vostre bombe non fanno che rafforzare la nostra volontà”, hanno scandito i manifestanti questa domenica: il giorno prima, infatti, un ordigno esplosivo posto sotto una macchina in piazza Tahrir aveva ucciso quattro manifestanti, portando il numero di morti a quasi 330 dal 1° ottobre.
L’Iraq, con tutte le sue regioni, le sue generazioni, le sue professioni e le sue ambizioni, è raccolto nel campo di Piazza Tahrir, un vero e proprio villaggio che sa di “Festa dell’Umanità”. In una foresta di bandiere irachene, centinaia di coloratissimi stand e tende sono occupati da studenti di ogni facoltà di Baghdad, sindacati professionali di insegnanti, farmacisti, avvocati, scrittori e artisti. Tutti loro hanno scritto l’elenco delle loro richieste, in belle lettere scritte a mano, come è appropriato nel paese che ha dato i natali al campione storico di calligrafia araba. Bloccati ai lati delle loro tende, questi programmi condividono diversi punti essenziali: dimissioni del governo (“ladri”), formazione di un’autorità di transizione, riforma della Costituzione, elezioni libere sotto osservazione internazionale.

Usa, media contro Trump: «Non può aiutare i cristiani in Iraq»

By Tempi
Leone Grott

Gli Stati Uniti possono aiutare l’Iraq a ricostruire edifici e città distrutti dall’invasione dello Stato islamico, possono donare milioni di dollari alle comunità musulmane sunnite e sciite ma non possono aiutare i cristiani e le altre minoranze. Sono le incredibile critiche che i media americani stanno rivolgendo al presidente Donald Trump.

VIETATO AIUTARE LE MINORANZE
Tutto è partito da un report di ProPublica, subito ripreso ad esempio dal Washington Post, dove si accusa l’amministrazione Trump di aver destinato una parte dei fondi Usaid alle comunità cristiane e non ai progetti curati dalle Nazioni Unite. In particolare, si legge, 375 milioni su 1,5 miliardi sono stati indirizzati «alle minoranze etniche e religiose perseguitate», in particolare cristiani e yazidi. Apriti cielo. Trump e il suo vicepresidente Mike Pence sono stati accusati di aver agito in modo «incostituzionale» perché il regolamento dell’Usaid prevede che i fondi «debbano essere liberi da ogni interferenza politica e basati sul merito e non sull’appartenenza religiosa o l’assenza di appartenenza religiosa».
Trump e Pence hanno sempre promesso di aiutare i cristiani perseguitati dall’Isis in Iraq. Inizialmente, però, alle parole non sono seguiti i fatti. L’arcivescovo di Erbil, monsignor Bashar Warda, ricevuto anche alla Casa Bianca, ha più volte dichiarato che «siamo consapevoli di quante persone nel governo americano siano contrarie agli impegni assunti dal vicepresidente. Sappiamo quanto sia difficile politicamente dire che i cristiani iracheni avranno una piccola priorità sugli altri. I nostri sacerdoti e la nostra gente però hanno creduto a quelle parole e ora sono delusi».
DA 1,5 MILIONI DI CRISTIANI A 250 MILA
Come più volte denunciato dalla Chiesa irachena, l’invasione dell’Isis ha svuotato i villaggi cristiani della Piana di Ninive, minacciando seriamente la sopravvivenza del cristianesimo in Iraq. I danni incalcolabili provocati dai jihadisti e la persecuzione diretta ed esplicita dei cristiani non hanno fatto che aggiungersi ai problemi causati dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Da allora, infatti, i cristiani sono passati da 1,5 milioni a 250 mila circa.
Se i villaggi della Piana di Ninive non saranno ricostruiti e le città, come Mosul, non torneranno sicure, la presenza cristiana rischia semplicemente di sparire. Il governo iracheno, dopo la sconfitta dello Stato islamico, ha cominciato a ricostruire numerose zone dell’Iraq, ignorando sistematicamente i cristiani, ai quali dallo Stato non è arrivato neanche un dollaro. Poiché le Nazioni Unite non possono che lavorare con il governo, non c’è alcuna speranza che i fondi donati all’Onu aiutino anche in minima parte i cristiani perseguitati. È per porre un freno a questa insopportabile discriminazione che le comunità hanno chiesto agli Stati Uniti di aiutare direttamente i cristiani ed è per questo che Trump e Pence si sono impegnati.
CRISTIANI FONDAMENTALI PER TUTTO L’IRAQ
Non c’è dubbio che Trump speri di trarre un vantaggio elettorale dalla donazione di fondi ai cristiani iracheni, ma gli attacchi che la sua amministrazione sta subendo per questo sono privi di fondamento. I 267 milioni di dollari donati da Usaid nel 2015 e 2016 all’Iraq sono interamente andati ai musulmani. Su 1,5 miliardi donati tra il 2017 e il 2018, 1,2 miliardi circa pure. Dov’è lo scandalo se un paese, direttamente responsabile della quasi scomparsa dei cristiani in Iraq, dona 375 milioni di dollari (alcuni dei quali sono in realtà finiti all’Onu) per aiutare le comunità più perseguitate dall’Isis, cioè cristiani e yazidi?
Preservare la comunità cristiana in Iraq non è tanto un dovere morale, ma ha un valore strategico. I cristiani, infatti, sono l’unica presenza che tenta di riconciliare le comunità irachene divise su linee religiose e che invoca la maturazione dello Stato nel nome dei principi cari a tutto l’Occidente di laicità e cittadinanza. I cristiani, inoltre, svolgono un ruolo fondamentale nella società educando nelle scuole cittadini di ogni confessione religiosa, senza discriminare nessuno. Senza i cristiani, l’Iraq piomberebbe nel caos più di quanto non sia già successo, causando ulteriori problemi agli Stati Uniti e al mondo intero.

Leggi anche:
Trump nel mirino: troppi aiuti ai cristiani dell'IraqInside Over
Fulvio Scaglione

19 novembre 2019

20 novembre 2019

«Basta! Basta». La notte del martirio del piccolo Adam e dei cristiani di Baghdad

By Tempi
Caterina Giojelli

«Adam Odai Zuhaid Arab è il nome del bambino di tre anni che ha gridato “basta!” mentre i terroristi insanguinavano e devastavano la chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad il 31 ottobre 2010. Lo ha gridato decine di volte, i sopravvissuti hanno ancora la sua voce nelle orecchie: uno strillo infantile disperato. Ha urlato per un tempo interminabile, da sotto il corpo di suo padre Odai che si era adagiato su di lui per proteggerlo e che stava morendo per le ferite subite all’inizio dell’assalto».
Sono passati nove anni dalla notte del massacro di 48 cristiani nella cattedrale siro-cattolica da parte di terroristi di Abu Bakr al-Baghdadi (che allora non era ancora califfo ma leader dell’organizzazione Stato islamico dell’Iraq). Quarantotto servi di Dio, due sacerdoti e 46 fedeli, tra di loro molti bambini, per cui si è chiusa a Baghdad la fase diocesana della causa di beatificazione e dichiarazione del martirio. Bambini come Adam, la cui storia è stata raccontata da Rodolfo Casadei nel bellissimo libro Tribolati ma non schiacciati – storie di persecuzione, fede e speranza edito da Lindau.
«TACI, BAMBINO, NON VEDI LA MIA ARMA?»
«“Basta!” urlava disperato Adam, “basta!”, strillava da terra». Nemmeno i terroristi potevano restare indifferenti a quelle grida. Anzi, erano molto disturbati. La mamma di Adam, sdraiata a pochi passi da lui, fingendosi morta mentre premeva una mano contro la coscia dell’altra figlioletta Nairi di un anno che piangeva ferita da un proiettile e da schegge che le avevano fratturato il femore, ricorda bene l’aggressore che si era chinato sul suo bambino a rimbrottarlo: «Taci una buona volta, non vedi la mia arma, vuoi che ti ammazziamo come gli altri?». Ricorda il momento in cui Hussein, il capo dei terroristi dava ai suoi uomini l’ordine di finire suo marito scosso dagli spasmi. E ricorda il momento in cui la voce spaventata del suo bambino non si era sentita più.
LA CATTEDRALE DIVENTA UNA TOMBA
Casadei aveva incontrato la mamma di Adam, la piccola Nairi e altri sopravvissuti del massacro del 31 ottobre 2010 al Policlinico Gemelli di Roma, poche settimane dopo i tragici avvenimenti. E si era fatto raccontare le quattro ore e mezza di incubo vissuto dai martiri fra le 17 e le 21.30 nella cattedrale. Dopo una serie di azioni diversive, i terroristi di Al Qaeda avevano fatto saltare la Jeep Cherokee imbottita di esplosivo che avevano parcheggiato all’altezza dell’abside ed erano entrati nel cortile della chiesa scavalcando il muro di cinta, cogliendo di sorpresa le guardie al cancello d’ingresso. Un assalitore, ferito durante un attacco precedente alla sede della Borsa, si era fatto esplodere per non essere d’impaccio ai compagni. Gli altri, dopo aver sparato ai poliziotti, avevano aperto il fuoco contro i fedeli che cercavano di scappare, sparato al diacono, sparato ai sacerdoti, sparato sulle madri e i padri che non riuscivano a far tacere i bambini, lanciato granate nella sacrestia dove si erano barricati alcuni fedeli.
UN IRREALISTICO SCAMBIO DI OSTAGGI
Avevano chiamato la hot line di una tv locale, Al Baghdadiya, per un irrealistico scambio di ostaggi (due donne egiziane cristiane che secondo loro erano state sequestrate dal clero copto e si trovavano ristrette in «monasteri prigione» per impedire loro di convertirsi all’Islam). Avevano profanato la chiesa, sparato contro immagini e oggetti sacri, recitato le ultime due preghiere rituali dell’Islam, quella del tramonto e quella della notte. E quando le forze speciali del ministero dell’interno avevano fatto irruzione, si erano fatti esplodere. Dopo aver causato la morte di 57 persone, tra cui 48 cristiani che partecipavano alla messa, e averne ferite altre 70 che riportarono gravissime amputazioni. «Lo scarno riassunto degli avvenimenti lascia annichiliti. Ma ciò che è accaduto in quelle ore è molto di più di quello che sta dentro a un semplice resoconto di cronaca nera, o a una cronaca di guerra», scrive Casadei
«LASCIATE STARE LORO, PRENDETE ME»
«Racconta Yussef, un sopravvissuto: “Sparavano e gridavano: “Sporchi cristiani, noi andremo in Paradiso e voi all’Inferno! Allah è grande! Siete dei miscredenti e andrete all’Inferno!”». Fra i primi fu ucciso padre Wassim Sabih Alkas Butros, che era uscito dal confessionale andando incontro ai terroristi per offrirsi in ostaggio: «“Lasciate stare loro, prendete me!”. Per tutta risposta uno dei terroristi gli spara al torace da distanza ravvicinata. L’uomo cade a terra. “Chi è costui?” chiede sorpreso lo stesso carnefice che ha premuto il grilletto. “È un prete”, gli risponde un compagno. Parte una seconda raffica sul sacerdote agonizzante. Viene colpito anche alla testa. «Prendete me, lasciate stare la gente!» fu anche il grido di padre Tahir Saadallah Abdal, che presiedeva la Messa, facendo scudo col suo corpo ai chierichetti. I terroristi lo mitragliarono sotto gli occhi di sua madre: «Cade sulle ginocchia portandosi le mani al petto, e prima di scivolare a terra – i testimoni sono concordi – pronuncia le stesse parole di Gesù sulla croce nel Vangelo di Luca: “Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito”».
«
NOI MORIAMO, PERÒ VIVA LA CROCE!»
Per ore gli assalitori urlarono come invasati, falciando chiunque si muovesse o non riuscisse a calmare i piccoli. «C’è una coppia con una bambina di appena tre mesi in braccio alla madre. Il bebè piange disperatamente. I terroristi inveiscono. Il padre risponde che non è possibile calmare la bambina: viene falciato a colpi di mitra insieme alla giovane moglie, a suo padre e al neonato, resta viva ma ferita solo una sorella del giovane. Un altro uomo, colpito da un proiettile, emette un lamento di dolore e da terra grida: “Noi moriamo, però viva la Croce!”. Più assalitori puntano le armi verso di lui e lo crivellano di colpi mentre grida ancora: “Viva la Croce!”». Saliti in piedi sull’altare i terroristi iniziarono a sparare sulle formelle della Via Crucis, la grande croce, «“Non distruggete la Croce della nostra salvezza! Non lo sapete che è la Croce che ci salva tutti?” (chiese una donna morente dopo aver supplicato i terroristi di darle il colpo di grazia, ndr). “Taci, donna! Tu devi soffrire e morire!”. “Lasciate stare la croce!”. “Bada, faccio esplodere la mia cintura”, minaccia Hussein. “Fallo”, lo sfida la signora. Poco dopo smetterà di parlare».
«KAFI! FAFI! BASTA! BASTA!» STRILLAVA ADAM
Alla studentessa universitaria Shahad Zuhair Marsina, zia di Adam e la sorella di suo padre Odai, venne intimato da un terrorista di comunicare ad Al Baghdadiya al cellulare che gli ostaggi stavano tutti bene. Ma «io vedevo i morti davanti a me. Non parlai come mi aveva chiesto lui. Si arrabbiò e cominciò a insultare me e la mia fede: “Non vi lasceremo andare, cristiani! Siete degli infedeli che adorano la Croce. Ma Dio è uno solo! Non dovete adorare la Croce!”». E intanto Adam continuava a urlare: «Kafi! Kafi! Basta! Basta!». Fino a quando colpirono suo padre che lo teneva stretto stretto a sé.
Martha, la mamma di Adam, ricorderà per sempre gli istanti in cui i terroristi recitarono l’isha e incrociò lo sguardo di Hussein («Perdonatemi», aveva cominciato a dire il terrorista guardando morti, feriti e bambini piangenti ai suoi piedi): «“Si è accorto del mio movimento e del fatto che ero ancora viva”, racconta. “Ma ha continuato a trascinarsi zoppicando lontano da me. Poco dopo c’è stata l’esplosione. È stato orribile, per lo spostamento d’aria ci siamo sollevate da terra. Brandelli di corpi sono volati dappertutto. Vicino a me un braccio di Hussein, vicino a mia sorella è rotolata la sua testa”».
«IL MIO BAMBINO, LA BOCCA PIENA DI CALCINACCI»
Dopo che i terroristi si fecero esplodere, Martha riuscì a trascinare fuori dalla chiesa Nairi che perdeva sangue. Poi tornò indietro per cercare il suo piccolo Adam e il marito Odai. Ma «il mio bambino aveva la bocca piena di calcinacci, e una gamba quasi staccata dal corpo». Il piccolo aveva passato ore, raccontarono i testimoni, chiedendo di alzarsi al padre che lo teneva abbracciato e gli diceva di non avere paura. Anche una signora colpita alla schiena aveva cercato di calmarlo fino alla morte.
Oggi Adam, insieme ad altri 46 fedeli, tra loro una ragazzina di 11 anni, un neonato di tre mesi e un bimbo non nato, in grembo alla mamma morta nelle esplosioni, sono chiamati martiri della Chiesa irachena in cammino verso la santità. La mattina dell’attentato, il più sanguinoso contro i cristiani in Iraq («tanto più feroce in quanto ha colpito persone inermi, raccolte nella casa di Dio», tuonò papa Benedetto XVI facendo appello alla comunità internazionale perché cessassero le violenze), padre Wassim aveva spedito un sms a molti amici. C’era scritto: «Cristo è la mia vita».

19 novembre 2019

Trump nel mirino: troppi aiuti ai cristiani dell'Iraq

By Inside Over
Fulvio Scaglione

La campagna elettorale permanente che accompagna la presidenza di Donald Trump, e l’opposizione che le sue politiche incontrano da parte del cosiddetto “deep State”, rischiano di riversarsi anche sui cristiani dell’Iraq, che certo non hanno bisogno di ulteriori disgrazie.

Alcuni importanti media americani, infatti, hanno raccolto e rilanciato una polemica nata all’interno di Usaid, l’agenzia del governo americano per l’aiuto alla cooperazione e allo sviluppo. Le critiche sono rivolte in particolare contro il vicepresidente Mike Pence che, dicono le solite fonti anonime riprese da Wall Street Journal, ProPublica e Buzz Feed, avrebbe forzato l’Agenzia a indirizzare interventi e finanziamenti verso le organizzazioni cristiane irachene. E sotto accusa è in qualche modo finito anche monsignor Bashar Matti Warda, arcivescovo di Erbil (il centro del Kurdistan iracheno dove dal 2014 si sono raccolti centinaia di migliaia di profughi cristiani fuggiti davanti all’Isis) ed esponente di spicco della Chiesa caldea cattolica. Monsignor Warda era stato ricevuto a Washington dal vicepresidente Pence alla fine del 2017 e nel 2018 aveva avuto un incontro con lo stesso Trump alla Casa Bianca.
Nel biennio 2015-2016 Usaid, ovvero il Governo americano, ha investito in assistenza agli iracheni 267 milioni di dollari, sia con interventi diretti sia con il finanziamento di interventi gestiti dalle Nazioni Unite. Il cambio di rotta, secondo l’accusa, sarebbe cominciato nel 2017, dopo l’insediamento di Trump. L’aiuto americano all’Iraq, veicolato attraverso Usaid sulla spinta della Casa Bianca, tra 2017 e 2018 è arrivato a 1,5 miliardi di dollari, dei quali 375 milioni indirizzati nello specifico “alle minoranze etniche e religiose perseguitate”, cioè soprattutto a cristiani e yazidi. Questo sarebbe contrario allo statuto di Usaid (dove è scritto che gli aiuti “devono essere liberi da qualunque proposito di interferenza politica e anche dall’apparenza di un’interferenza, e devono essere assegnati sulla base esclusiva del merito e non della particolare affiliazione religiosa dell’organizzazione beneficata”) e persino alle norme costituzionali, che vietano al Governo di privilegiare questa o quella confessione religiosa.
Tutto, poi, viene riportato alla campagna per le presidenziali e alla necessità che Donald Trump ha di tranquillizzare e soddisfare l’elettorato cristiano che tanta parte ha avuto nella sua vittoria del 2016. I giornali che lo attaccano ricordano, a questo proposito, anche la recente concessione a Paula White, consigliera spirituale di Trump e nota telepredicatrice evangelista della Florida, di un incarico alla Casa Bianca.
Può darsi che tutto questo sia vero. Anzi, è probabile che lo sia. Il problema, però, è un altro. Se il tema è “aiutare l’Iraq”, hanno ragione Pence e Trump, non i puristi di Usaid o dei giornali. E questo per una lunga serie di ragioni. Intanto, i cristiani sono la parte di popolazione irachena che ha più sofferto dopo l’invasione anglo-americana del 2003 e dopo l’avvento dell’Isis nel 2014. Sono ormai ridotti ai minimi termini (erano più di un milione e mezzo prima del 2003, sono intorno ai 250 mila oggi) e ancora poche settimane fa Louis Raphael I Sako, patriarca della Chiesa caldea cattolica oltre che membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ha lamentato “il continuo calo del numero dei cristiani che vivono in Iraq”. E questo è successo perché i cristiani, oltre agli yazidi, sono l’unica minoranza irachena indifesa e disarmata. Gli sciiti controllano il Governo centrale, i sunniti sono comunque assistiti dalle petromonarchie del Golfo persico. Un piccolo privilegio orientato ai cristiani (ripetiamolo, 375 milioni su un miliardo e mezzo di dollari in due anni) non può essere letto come un insulto alla Costituzione americana e nemmeno, come sostengono le fonti anonime interne a Usaid, come un potenziale incitamento alle rivalità settarie.
Al contrario. La pretesa di suddividere gli aiuti solo in base ai numeri e alle percentuali della popolazione, è assurda e non tiene in alcun conto la realtà sul terreno. In tutti i Paesi mediorientali, e nell’Iraq della triangolazione sciiti-curdi-sunniti in particolare modo, il ruolo delle minoranze è fondamentale a prescindere dai numeri. La loro presenza è l’unica e fragilissima garanzia che la regione non diventi un unico grande confronto-scontro tra musulmani sunniti e musulmani sciiti o un unico grande calderone di scontri a base tecnico-religiosa. Al limite, quindi, bisognerebbe privilegiarle, non trattarle come un elemento secondario del quadro.

Dalle proteste nascerà un nuovo Iraq?

By Mondo e Missione

Dalle proteste in corso uscirà davvero un Iraq libero da settarismi e corruzione, come lo vorrebbero i giovani scesi in piazza? O sarà solo l’ennesimo bagno di sangue? La posta in gioco è alta. Ne parleremo giovedì al Pime di Milano insieme al ricercatore Andrea Plebani


Dalle piazze traboccanti di giovani manifestanti, a Baghdad come a Bassora e a Nasiriyah, uscirà davvero un nuovo Iraq, finalmente libero da settarismi e corruzione, o sarà solo l’ennesimo, tragico, bagno di sangue? È la domanda che assilla chi ha a cuore il tormentato Paese mediorientale, che 16 anni dopo l’intervento americano e la destituzione di Saddam Hussein sta vivendo un momento di rivolgimento cruciale.
Era stata l’esasperazione per la cronica mancanza di servizi, la povertà e l’assenza di prospettive lavorative, in un contesto governato da una politica clientelare e inefficiente, a spingere per le strade all’inizio di ottobre migliaia di cittadini nella capitale e nel Sud del Paese. Ma in un Paese abituato alle proteste popolari (frequenti, negli ultimi anni, nella città petrolifera di Bassora), questa volta la dimensione delle agitazioni si è amplificata e lo scenario è rapidamente cambiato. Alla risposta violenta delle forze dell’ordine – i morti sono già arrivati a 320, con 15mila feriti – non è infatti seguito un ripiegamento dei giovani, le cui rivendicazioni si sono anzi moltiplicate, fino a includere modifiche costituzionali e la sostituzione di un’intera classe dirigente, giudicata non solo corrotta ma anche asservita a interessi di potenze esterne, a cominciare dall’ingombrante vicino iraniano.
Tutto il sistema politico che governa oggi l’Iraq, in effetti, è pesantemente condizionato dal gigante sciita (la stessa confessione del 60% degli iracheni), e il fatto che a contestarlo siano oggi in prima fila gli stessi cittadini sciiti rappresenta uno dei fattori chiave dell’attuale rivolta. Questa nuova generazione di giovani, di cui molti erano bambini quando Saddam Hussein fu spodestato, sta infatti portando avanti un modello inedito, caratterizzato da un nazionalismo che per la prima volta cerca di mettere da parte il settarismo di cui sono tradizionalmente intrisi i rapporti sociali e politici in Iraq. Questi ragazzi – e ragazze -, che scendono in piazza avvolti nella bandiera irachena, urlano i loro slogan in nome della propria appartenenza non a una fede o un’etnia, ma a una stessa nazione, che “rivogliono indietro”, come afferma una delle parole d’ordine di questi giorni.
La determinazione dei manifestanti sta mettendo a dura prova i delicati equilibri del Paese e non solo. Ne è una dimostrazione lo stesso pugno di ferro dispiegato dal premier Adel Abdul Mahdi, che se all’inizio della sollevazione sembrava sul punto di dover dare le dimissioni, è stato poi “salvato” dalle pressioni dirette di Teheran, che avrebbe inviato a Baghdad lo stesso generale Qassem Souleimani dell’unità d’élite dei Pasdaran (il cui ritratto viene bruciato in strada dai manifestanti iracheni) per convincere i suoi partiti “vassalli” a non togliere la fiducia al governo Mahdi. Il timore è che cedere alle richieste della piazza significherebbe mettere in discussione un sistema di potere abituato a prosperare sulla lottizzazione settaria: un sistema a cui molti attori non sono disposti a rinunciare.
La delicatezza del momento non è certo sfuggita alla più importante autorità religiosa sciita irachena, l’ayatollah Ali Al Sistani, che si è espresso apertamente in supporto dei manifestanti e ha esortato i politici a portare avanti le riforme richieste dalla piazza, a cominciare da una nuova legge elettorale considerata più rappresentativa, da stilare al più presto per poter poi tornare al voto. Il clerico 89enne, di solito poco propenso a coinvolgersi nelle questioni politiche, ha dichiarato venerdì scorso che dopo queste dimostrazioni, giunte ormai alla settima settimana, «l’Iraq non sarà mai più lo stesso».
Anche i rappresentanti delle Chiese cristiane hanno espresso compatti il loro sostegno alle rivendicazioni popolari. Tra l’altro, in un pronunciamento comune, hanno ringraziato i giovani che con la loro protesta pacifica verso la leadership politica hanno «rotto le barriere settarie, hanno affermato l’unità nazionale irachena e hanno chiesto che l’Iraq diventi una patria per tutti».
Se è vero che questi ragazzi sono più immuni, rispetto ai loro padri, dall’influenza di una mentalità rigorosamente tribale e confessionale, il loro coraggio e la loro determinazione saranno sufficienti a far prevalere un modello plurale – in un Paese da sempre caratterizzato dalla diversità – e a scongiurare i rischi della violenza e della disgregazione? Le incognite che pesano sulla rivolta sono importanti. È fondamentale che la società civile irachena resti compatta, senza ascoltare le sirene che, dentro e fuori dai confini del Paese, fomentano la divisione.

Sulle prospettive della “Terra dei due fiumi” discuteremo giovedì 21 al Centro Pime di Milano (via Monte Rosa 81) insieme ad Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica e dell’Ispi, che presenterà il suo libro “La terra dei due fiumi allo specchio” (Rubbettino). Appuntamento alla Caffetteria Pime alle 18.30.

Il cardinale Sako: «Il mio Iraq chiede diritti. E pace»

By Avvenire
Giacomo Gambassi
16 vovembre 2019

È arrivato in piazza Tahrir, cuore delle proteste che stanno scuotendo Baghdad, su una delle centinaia di Tuc Tuc. Quelle che in Italia tutti conoscono come Ape Piaggio, nella capitale dell’Iraq sono fra i simboli della rivolta che ha un’eco in tutto il mondo.
E il cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei caldei, ha scelto il piccolo e popolare mezzo di trasporto per immergersi fra le migliaia di giovani (e meno giovani) che sono in strada dall’inizio di ottobre. Uniti, al di dà dell’appartenenza religiosa o dell’etnia, per chiedere un futuro nuovo in questa «terra santa», come la definisce il cardinale. «Benvenuti ai nostri fratelli cristiani, saluti al Papa, onori a voi, e benedizioni da voi...» è stato il grido con cui sono accolti il patriarca e la delegazione della Chiesa caldea.
«A tutti devono essere garantiti un lavoro, un alloggio, i sostegni necessari per abitare nel nostro Paese. È così che si costruisce la pace, non sicuramente alimentando le paure, le preoccupazioni, la miseria», spiega Sako ad Avvenire. Iracheno, 71 anni, creato cardinale da papa Francesco nel 2018, parteciperà all’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace” promosso dalla Cei che farà giungere a Bari dal 19 al 23 febbraio 2020 i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da Bergoglio. Sako, che è anche presidente dell’Assemblea dei vescovi cattolici d’Iraq, porterà in Puglia attese e difficoltà dell’intera Chiesa caldea che ha ramificazioni anche in Turchia, Libano, Egitto e Siria oltre a comprendere i cattolici della diaspora.
La sua visita ai manifestanti si è conclusa di fronte al palazzo di quattordici piani che torreggia sulla piazza e che è divenuto l’emblema della mobilitazione irachena: è il “Ristorante turco” dove si sosta sventolando bandiere e striscioni. «Sono rimasto colpito da come tutti si guardano l’un l’altro come fratelli nati nello stesso Paese – racconta il patriarca –. I giovani chiedono in modo pacifico diritti, quei diritti che sono stati loro “rubati”. Quando si privano le persone dei servizi, dell’elettricità, dell’acqua, dei centri sanitari o educativi, dell’occupazione si commette peccato. E la corruzione e il settarismo contribuiscono al deterioramento della situazione».
Nel documento di preparazione all’Incontro di Bari si cita un’intuizione di Paolo VI: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Una frase che può essere applicata anche all’Iraq odierno...
Sicuramente. La riconciliazione fra i popoli, o anche all’interno di un Paese, non può prescindere dalla giustizia sociale. Perno di ogni azione e di ogni scelta deve essere la dignità dell’uomo che va assicurata in ogni luogo e in ogni momento.
La guerra scatenata dal Daesh può dirsi conclusa. E il fondamentalismo?
Il conflitto è militarmente finito, ma non l’ideologia che lo ha alimentato e che continua a fare breccia grazie all’ignoranza. È innegabile che tutto si collochi nel contesto religioso della Jihad islamica, ossia della “guerra santa”. Invece non ci possono mai essere guerre sante. Anche per l’islam. Come testimonia il fatto che sono stati moltissimi i musulmani uccisi in questi anni. Fondamentale è il Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi lo scorso febbraio da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar. È un richiamo a cambiare mentalità, a uscire da visioni settarie. In un mondo che si è trasformato in villaggio globale, abbiamo l’urgenza di osare la pace tutti insieme, di collaborare senza distinzioni di credo, etnia, cultura per il bene dell’umanità. Basta vendette. Solo il perdono e la riconciliazione sono le vie per una reale svolta.
In Iraq il 95% della popolazione è musulmana. Come i cristiani affrontano la scommessa del dialogo?

Quello che viviamo ogni giorno è il dialogo della vita. Siamo gli uni accanto agli altri nel lavoro, nella scuola, adesso nelle strade per le manifestazioni di queste settimane. Cristiani e musulmani sono chiamati a cercare un vocabolario “comune” intorno al messaggio religioso. Mai si può ricorrere alla fede per giustificare la violenza. Ecco perché noi cristiani abbiamo anche la missione di aiutare i nostri fratelli musulmani a capire che la religione è amore, fraternità, rispetto della vita e dell’altro.

La guerra del Califfato si è portata dietro un preoccupante esodo dei cristiani dal Paese. C’è allarme?

Per la nostra Chiesa una delle maggiori sfide è quella di continuare ad avere un popolo qui. Le famiglie sono divise ormai fra l’Iraq e i luoghi della fuga. Così rischiano di essere cancellati duemila anni di storia e di presenza cristiana. È compito dell’intera Chiesa universale ma direi anche di tutto il mondo sostenerci in queste terre dove affondano le radici della nostra fede e della nostra civiltà. Siamo una minoranza piegata dai problemi e dalle sofferenze, siamo vittime di persecuzioni, abbiamo vissuto il martirio, ma restiamo un esempio di fedeltà al Vangelo, soprattutto per l’Occidente secolarizzato.
Fuggire sembra quasi un obbligo...
Si lascia il Paese a causa della guerra, delle discriminazioni, delle difficoltà socio-economiche. E tutto ciò non è disgiunto dalla presenza dell’islam. Eppure i nostri padri hanno resistito. Anche noi dobbiamo farlo e potremmo contribuire a cambiare gli “schemi” musulmani. Se l’islam resta com’è oggi, chiuso in se stesso, non ha un domani.
Tema migrazioni. Nove rifugiati su dieci provengono da Paesi in difficoltà fra cui Siria e Iraq.

Accogliere i profughi è un dovere e mostra quanto una nazione sia generosa verso chi è nel bisogno. Ma c’è anche l’analoga responsabilità ad aiutare le persone a restare nelle loro terre. Occorre un impegno collettivo perché siano migliorate le condizioni di vita nei Paesi d’origine. Al centro deve esserci il concetto di cittadinanza e non quello di appartenenza religiosa. Si parla spesso di diritti umani ma serve che siano fatti rispettare ovunque, anche qui.
Ci potrà mai essere un’autentica libertà religiosa in Iraq?
Accadrà sicuramente. Non si può imporre una fede a un uomo o a una donna. La religione è legata alla coscienza e fa parte del Dna personale: non può essere un’autorità esterna a indicarla. E oggi, grazie al cielo, anche Internet è un supporto. L’Arabia Saudita ha proibito di far entrare una Bibbia, ma la Sacra Scrittura si trova con un clic sul web.
I conflitti in Iraq e Siria hanno costretto altri 3,4 milioni di bambini a non poter avere un’istruzione. Ciò ha portato il numero di studenti “senza scuola” in Medio Oriente e in Nord Africa a quota 16 milioni.L’istruzione è un diritto. In Iraq la guerra lo ha negato perché ha distrutto aule e scuole. Oggi una parte consistente della popolazione non sa neppure leggere. Ciò può favorire l’estremismo.
La Chiesa è impegnata in questo campo.
Siamo in prima linea con le nostre scuole che sono frequentate da numerosi musulmani: si arriva anche al 90% degli alunni. Studiare fianco a fianco con chi ha una fede diversa è una maniera positiva di costruire un avvenire riconciliato.
E la comunità internazionale?
È assente. L’Occidente agisce qui cercando solo i propri interessi. E, quando si fabbricano armi che poi vengono vendute ai nostri Stati, si deve avere la consapevolezza che si partecipa a preparare guerre e distruzione.
Come giudica l’evento sul Mediterraneo?
È una necessità. C’è bisogno di una visione complessiva soprattutto per il Medio Oriente che porti a imbastire una strategia concreta. Noi cristiani siamo tenuti a spenderci per la pace. Il che significa affrontare temi come l’incontro fra i popoli, la sicurezza, i diritti ma anche il nostro futuro in questi luoghi. Sono grato alla Cei per l’iniziativa e in particolare al cardinale Bassetti che l’ha voluta.

Sako: dal 2018 con la porpora a Baghdad

Louis Raphaël Sako è cardinale dal 2018 per volontà di papa Francesco. 71 anni, nato a Zakho in Iraq, ha frequentato il Seminario dei padri domenicani a Mossul. Sacerdote dal 1974, ha conseguito il dottorato in storia alla Sorbona di Parigi. Nel 2013 è diventato arcivescovo di Kirkuk. È stato eletto patriarca di Babilonia dei caldei durante il Sinodo convocato da Benedetto XVI nel 2013 a Roma e ha ricevuto da papa Ratzinger l’ecclesiastica communio.

15 novembre 2019

Baghdad, parlamentare cristiana: manifestare è un diritto, dal governo servono risposte

Foto Ankawa.com
By Asia News

Le manifestazioni di piazza “sono un diritto legittimo di ogni cittadino irakeno” che viene “garantito dalla Costituzione” ed è compito del governo trovare risposte soddisfacenti ai quesiti sollevati dal popolo “prima che la situazione sfugga al controllo”. È quanto afferma ad AsiaNews Rihan Hanna Ayoub, parlamentare cristiana del collegio di Kirkuk, commentando le violenze di polizia e forze di sicurezza per reprimere le manifestazioni anti-governative che, dal primo ottobre, scuotono il Paese. Un crescendo di repressioni e abusi che hanno provocato oltre 320 morti e migliaia di feriti - in larga parte civili - e spinto la Chiesa caldea a promuovere una tre giorni di digiuno e di preghiera per la pace. 
Le manifestazioni, sottolinea la parlamentare cristiana, sono “un diritto legittimo” a patto che “siano pacifiche e non siano contraddistinte dal caos o dall’invasione della proprietà pubblica o privata”. Come membro della Camera dei rappresentanti e portavoce del popolo, aggiunge, “affermiamo il nostro interesse nel soddisfare queste richieste”, anche e soprattutto perché sono “problemi reali cui il governo avrebbe dovuto dare risposte anni fa”. 
“Per questo - conclude Rihan Hanna Ayoub - mi rivolgo all’esecutivo chiedendo di accelerare l’inchiesta in corso, appurare le responsabilità e fornire risposte efficaci, prima che la situazione sfugga al controllo. In special modo considerando che manifestanti e forze di sicurezza sono stati colpiti in modo grave per il comportamento deviato di alcune persone”.
Nelle ultime settimane una serie di manifestazioni, andate in crescendo, hanno interessato la capitale e le province meridionali. I dimostranti hanno invocato la caduta dell’establishment politico, ritenuto responsabile della attuale situazione di crisi. Ad agitare la piazza la difficile condizione economica in cui versa gran parte della popolazione, a dispetto dei proventi della vendita del petrolio. 
Il greggio finanzia fino all’85-90% delle casse dello Stato. Nel bilancio federale per il 2019 si parla di 79 miliardi legati al petrolio, sulla base di esportazioni previste per 3,88 milioni di barili al giorno al prezzo stimato di 56 dollari. Nell’anno corrente l’economia è cresciuta proprio per l’aumento nella produzione del greggio e l’aumento del Pil dovrebbe attestarsi secondo la Banca mondiale attorno al 4,6%. 
Tuttavia, i frutti di questa ricchezza di rado arrivano fino al cittadino medio a causa di una cattiva gestione delle finanze, di una burocrazia inefficiente e di una corruzione diffusa. Il tasso medio di disoccupazione è dell’11%, con punte di oltre il 20 fra i giovani; il 22% della popolazione vive in condizioni di povertà. 
La crisi ha innescato la protesta, in un primo momento tollerata dalle autorità poi repressa con crescente violenza. Anche ieri si sono registrate almeno quattro vittime e oltre 50 feriti nelle cariche della polizia contro un gruppo di dimostranti nel centro di Baghdad. In piazza vi sono anche diversi giovani cristiani, uniti alla maggioranza musulmana sotto la comune bandiera irakena nel tentativo di dare un nuovo impulso alla nazione e superare divisioni etniche e confessionali. 
Fra i tanti ragazzi e ragazze presenti a piazza Tahrir, il cuore della protesta, vi è Yahya Wartan, che si prodiga assieme a un gruppo di amici nel rifornire i manifestanti con beni di prima necessità, cibo e medicine sulla scorta di quanto fatto a fine ottobre dallo stesso patriarca caldeo. A dispetto dei gas lacrimogeni e delle bombe sonore, i membri del team entrano in piazza per distribuire cibo, acqua, medicinali, articoli per l’igiene e coperte, indossando una maglietta bianca con la scritta “Assemblea dei giovani cristiani irakeni”. L’accoglienza, spiega ad Ankawa, è “incoraggiante e ci ha dato lo slancio per continuare”. Vogliamo lanciare il messaggio, aggiunge, che anche i giovani cristiani irakeni sono presenti in questo momento.

12 novembre 2019

Chiesa irakena in digiuno e preghiera per la pace. Mons Warduni: i giovani uniti in piazza

By Asia News

Il problema dell’Iraq e della maggior parte dei Paesi arabi è di natura “culturale e spirituale”, non “puramente politico”. Il ladro, il corrotto, l’estremista o il tiranno dominano “perché manca una motivazione religiosa, spirituale e morale” forte e salda. È quanto afferma il patriarca caldeo, card Louis Raphael Sako, in un messaggio inviato per conoscenza ad AsiaNews. Per il porporato la “questione” è legata “all’educazione” in famiglia e comunità “che è irta di preconcetti, costumi e pratiche desuete” che “non si basano sulla ragione e sulla analisi”. 
Il primate caldeo torna ancora una volta sulle manifestazioni anti-governative divampate il primo ottobre scorso e riprese con particolare vigore nelle ultime due settimane. E non nasconde le profonde preoccupazioni per le violenze di polizia e forze di sicurezza verso la popolazione, che hanno già causato almeno 319 vittime complessive fra militari e (in larga parte) civili.
In un crescendo di violenze e tensione, il patriarca caldeo ha invitato i cristiani del Paese a digiunare per tre giorni, da questa mattina fino alla sera di mercoledì 13 novembre “per la pace e il ritorno della stabilità”. Insieme al digiuno, il porporato esorta i fedeli a recitare la preghiera diffusa il 4 novembre scorso nella cattedrale di san Giuseppe a Baghdad, nel contesto dell’incontro ecumenico per la pace promosso dai vertici della Chiesa irakena. 
“Ciò di cui abbiamo bisogno - scrive il card Sako - è una lettura attenta dell’Iraq dopo l’invasione Usa del 2003”. Le dimostrazioni di queste settimane, avverte, “sono una reazione spontanea” alle “sofferenze” degli anni passati e sono promosse “sotto la bandiera irakena”, non “con stendardi delle varie parti o fazioni”. I manifestanti hanno “rovesciato il settarismo” per unirsi sotto una come “identità nazionale”. Al governo, avverte, il compito di “conquistare la fiducia” dei suoi figli avviando “un dialogo coraggioso” e “riforme economiche” che portino a una “redistribuzione della ricchezza” e agli intellettuali fuggiti l’appello a tornare “per contribuire alle riforme”. 
I timori del patriarca sono condivisi dall’ausiliare di Baghdad mons. Shlemon Warduni, secondo cui in troppi “fanno solo il proprio interesse personale” e “non si curano del bene comune, soprattutto della situazione dei giovani e dei più poveri”. Il motore della rivolta, conferma ad AsiaNews, è nella parte più giovane della popolazione “che non ha lavoro, che ha finito le scuole e non sa cosa fare”. 
“Per le strade - aggiunge - vi è una situazione di grande caos e confusione. Queste manifestazioni mostrano al mondo che siamo in una condizione tragica e non sappiamo cosa fare. Perché non ci sono persone che guardano al bene comune, non si curano dell’interesse di tutti”. Il prelato è preoccupato per l’escalation di violenze “che ha causato oltre 300 morti e 16mila feriti. Non si può restare inerti e, come Chiesa, rispondiamo con il digiuno e la preghiera”. Mons. Warduni sottolinea infine “l’importanza che ragazzi e ragazze siano uniti, in piazza, dietro alla comune bandiera irakena. Non guardano in faccia alla religione, l’etnia, ma vogliono solo il bene del Paese, anche se preoccupano i casi di attacchi e sequestri di civili in piazza ad opera di bande armate”.
Intanto l’escalation della tensione viene seguita da vicino nelle cancellerie occidentali e dai massimi organismi internazionali. Per arginare la crisi gli Stati Uniti invocano elezioni anticipate e riforme, mentre diverse ong pro diritti umani lanciano l’allarme per una deriva violenta che potrebbe sfociare in un “bagno di sangue”.
La missione Onu in Iraq (Unami) denuncia un “clima di paura” e invoca “massimo contenimento” da parte delle forze dell’ordine, compreso il divieto di uso “di proiettili” o “l’uso improprio di mezzi non letali” come i gas lacrimogeni. 
I vertici Unami chiedono il rilascio dei manifestanti arrestati in queste settimane e una inchiesta sui sequestri in circostanze misteriose di attivisti e medici, prelevati [secondo diverse ong] da membri delle forze di sicurezza o da gruppi armati. L’organismo delle Nazioni Unite auspica inoltre una serie di misure da attuare nelle prossime settimane o mesi, fra cui una riforma elettorale e costituzionale, processi contro quanti sono accusati di corruzione e applicare le normative già esistenti per combattere ruberie e malversazioni.

Iraq, ancora manifestazioni e vittime. Vescovo di Baghdad: spero torni la normalità

By Vatican News
Elvira Ragosta

Gli iracheni sono scesi in piazza anche nelle ultime ore per protestare contro il carovita e la corruzione. I media locali registrano ancora vittime nella repressione delle manifestazioni. Gli scontri sono avvenuti ieri a Nassiriya, a sud di Baghdad, dove quattro persone sono rimaste uccise e 130 ferite. Secondo la Commissione per i diritti umani irachena, sono circa 320 persone che hanno perso la vita dall’inizio delle manifestazioni, a inizio ottobre scorso.

La testimonianza dell’arcivescovo di Baghdad
La situazione a Baghdad è difficile da descrivere e incomprensibile da lontano, dice ai microfoni di Adelaide Patrignani monsignor Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo di Baghdad. “Nel mio quartiere c’è normalità - aggiunge Sleiman- ma nel cuore della città ci sono ancora manifestazioni, strade chiuse, misure di sicurezza e di tanto in tanto problemi di violenza, con morti e feriti e questa situazione dura dal primo ottobre”.
Guardando al futuro dell’Iraq, l’arcivescovo di Bghdad aggiunge: “Spero e prego tutti i giorni perché finisca questa situazione, si ritrovi la normalità e che si continui a ragionare, dialogare, pensare in un’atmosfera di normalità, perché l’atmosfera non è serena”.

Patriarcato caldeo: tre giorni di digiuno per chiedere la pace
Da lunedì 11 a mercoledì 13 novembre “i figli e le figlie” della Chiesa caldea sono chiamati a digiunare e pregare per chiedere a Dio il dono della pace e del ritorno alla stabilità in Iraq. Lo ha chiesto Louis Raphael Sako, Patriarca di Babilonia dei caldei, che, secondo quanto riportato dall’agenzia Fides, ha anche rinnovato l’appello al governo e ai manifestanti affinché tutti esercitino “saggezza e moderazione nel dare priorità all’interesse generale” dell’intero popolo iracheno, evitando di spargere sangue innocente e di saccheggiare o danneggiare beni pubblici e privati.

L’analisi della crisi e le possibili soluzioni
“In Iraq c’è stato il fallimento complessivo di quel sistema costituzionale settario, impostato come soluzione post Saddam Hussein”. Questa l’analisi di Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica. “Il sistema settario riproduce corruzione e rende molto difficile il controllo democratico e la rendicontazione sulle attività governative. In una situazione come quella irachena – aggiunge Parsi – si può immaginare come questo abbia fatto esplodere le tensioni sociali, considerando la condizione economica assolutamente disastrosa”. Dopo settimane di manifestazioni di piazza, gli Stati Uniti chiedono elezioni anticipate. Un comunicato del portavoce della Casa Bianca segnala come gli "Stati Uniti siano fortemente preoccupati per i continui attacchi contro i manifestanti, attivisti e media, così come per le restrizioni all'accesso a internet in Iraq". Per il professor Parsi, però, le elezioni non cambierebbe molto la situazione: “Serve un ricambio complessivo della classe politica - aggiunge il docente - e un ridisegno del sistema, che è difficilissimo a fronte della situazione interna e internazionale”.

11 novembre 2019

Patriarcato caldeo: tre giorni di digiuno per chiedere che in Iraq torni la pace

By Fides

Da lunedì 11 a mercoledì 13 novembre “i figli e le figlie” della Chiesa caldea sono chiamati a digiunare e pregare per chiedere a Dio il dono della pace e del ritorno alla stabilità in Iraq. Lo ha chiesto Louis Raphael Sako, Patriarca di Babilonia dei caldei, invitando a ricorrere alle armi spirituali del digiuno e della preghiera per chiedere la fine del caos e delle violenze che stanno insanguinando il Paese. Il Primate della Chiesa caldea ha anche rinnovato l’appello al governo e ai manifestanti affinché tutti esercitino “saggezza e moderazione nel dare priorità all’interesse generale” dell’intero popolo iracheno, evitando di spargere sangue innocente e di saccheggiare o danneggiare beni pubblici e privati.
Al momento sono almeno 320 gli iracheni rimasti uccisi negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza che da settimane dilagano in tutto il Paese.
Nelle ultime ore, l’amministrazione USA è intervenuta sulla crisi irachena con una dichiarazione del portavoce della Casa Bianca diffusa dall’Ambasciata USA a Baghdad, nella quale si prende posizione a favore dei manifestanti e si indica la strada delle elezioni anticipate come via per provare a uscire dal caos e placare le proteste antigovernative, esplose a inizio ottobre e finite nel sangue. Il comunicato USA di fatto giustifica le proteste come una comprensibile reazione davanti all’accrescersi dell’influenza iraniana in Iraq.

8 novembre 2019

New Chorepiscops to our Chaldean Diocese in Sydney and NZ


Photo Chaldean Diocese of St. Thomas
Photo Chaldean Diocese of St. Thomas
By St. Thomas the Apostle Chaldean & Assyrian Catholic Diocese of Australia and New Zealand

By the grace of the the Lord, the ceremony of the Choriepiscopal Ordination of Fr. Paul Mingana and Fr. Thair Shiekh was held on Friday night by the layhand of His Grace Archbishop Mar Amel Nona at Our Lady Guardian of Planets Chaldean Church/ Melbourne with the presence of reverend fathers and chorepiscopals representatives of the Eastern Churches, our reverend fathers of the Diocese, our Chaldean nuns and a great number of our faithful from Melbourne and Sydney who came to be part of this special even of our Dioceses wishing both fathers all the blessings and grace of the Lord.

Respinte le “rappresentazioni ingannevoli” delle iniziative del Patriarca caldeo in merito alle proteste di piazza

By Fides

I recenti incontri del Patriarca caldeo Louis Raphael Sako con i partecipanti alle manifestazioni di protesta in atto a Baghdad non esprimevano in alcun modo una posizione “antagonista” dei vertici della Chiesa caldea nei confronti del governo e delle istituzioni politiche nazionali. Esse volevano solo manifestare solidarietà alle legittime richieste dei manifestanti, riconosciute come tali anche dal governo, e ribadire il sostegno al processo per la creazione di un autentico Stato di diritto anche in Iraq.
Lo sottolinea un comunicato diffuso dallo stesso Patriarcato caldeo, che dichiara fin nel suo titolo l’intenzione di smentire le “rappresentazioni ingannevoli” circolate su media e reti sociali in Iraq riguardo ad alcune iniziative del Patriarca, come le recenti visite compiute dal Primate della Chiesa caldea a alcuni feriti ricoverati in ospedale dopo gli scontri di piazza e ai manifestanti radunati in piazza Tahrir, a Baghdad. I critici avevano attaccato tali iniziative, presentandole come espressione di eccessivo protagonismo politico da parte del Capo della più consistente compagine ecclesiale presente in Iraq.
La visita del Patriarca Sako ai feriti ricoverati in ospedale – si legge nel comunicato – aveva carattere umanitario ed è servita anche a portare presso la struttura sanitaria una somma di denaro per l’acquisto di medicinali, mentre nell’incontro di sabato 2 novembre con i manifestanti di piazza Tahrir, durato per più di un'ora, il Patriarca insieme ai suoi Vescovi ausiliari ha invitato tutti a mantenere la calma e a bandire dalle proteste ogni forma di violenza. I contatti tra i funzionari governativi e il Patriarcato – aggiunge il testo diffuso dai suoi canali ufficiali – continuano in maniera costante, e il Patriarca, anche nel suo incontro coi manifestanti, ha semplicemente invitato il governo “ad ascoltare il grido dei suoi figli e figlie” venendo incontro alle richieste di lotta alla corruzione e di sostegno alla creazione di posti di lavoro e di servizi attraverso una amministrazione governativa trasparente.

6 novembre 2019

Iraq: Tveit (Wcc), “richieste del popolo legittime, devono essere ascoltate e rispettate”


“Preoccupazione” per le proteste, “accompagnate da violenza”, e per “la crescente polarizzazione in Iraq” è stata espressa dal segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc), Olav Fykse Tveit.
In una nota il Consiglio mondiale delle Chiese, “che sta lavorando per promuovere la coesione sociale in Iraq attraverso la cooperazione interreligiosa tra le sue diverse comunità religiose, rifiuta e denuncia l’uso di violenza eccessiva contro i manifestanti da parte delle forze di sicurezza, che ha provocato molti morti e feriti. La libertà di espressione e di riunirsi pacificamente sono diritti fondamentali di tutti gli esseri umani”. Per Tveit “le richieste del popolo iracheno di giustizia sociale, uguaglianza e vita dignitosa sono legittime. Le loro voci devono essere ascoltate e rispettate. La violenza non è una soluzione, né da parte delle autorità né dei manifestanti”.
Da qui l’invito “al Governo e a chi è chiamato ad assumere decisioni ad impegnarsi nel dialogo così da individuare i modi migliori per costruire una società inclusiva, rispettando i diritti di tutte le persone e fornendo i mezzi per una vita dignitosa. I continui scontri contribuiscono a una maggiore insicurezza per tutti e impediscono la creazione di fiducia all’interno della società e della nazione”. Tveit ha anche invocato preghiere per il popolo iracheno e per i suoi leader politici e religiosi. “Possa il Signore concedere loro la saggezza per affrontare le sfide pacificamente e per andare insieme verso la ricostruzione e una pace sostenibile fondata sulla giustizia e l’inclusione. Preghiamo per l’Iraq”.

World Council of Churches: Iraqi people’s voices must be heard

World Council of Churches: Iraqi people’s voices must be heard

By World Council of Churches
The escalating protests, accompanying violence, and increasing polarisation in Iraq are of grave concern for all who care for this country and its people, said World Council of Churches general secretary Rev. Dr Olav Fykse Tveit on 5 November.
“The World Council of Churches, which is working to promote social cohesion in Iraq through inter-religious cooperation among its many different religious communities, rejects and denounces the use by security forces of excessive violence against protestors, which has resulted in the deaths and injuries of many,” he said. “Freedom of expression and peaceful assembly are fundamental rights of all human beings.”
The demands of the Iraqi people for social justice, equality, and life in dignity are legitimate, continued Tveit. “Their voices must be heard and respected,” he said. “Violence is not a solution, neither from the authorities nor the protestors.”
Tveit called on the government, decision makers and the people of Iraq to engage in dialogue in order to identify better ways of moving towards an inclusive society, respecting the equal rights of all people and providing the means for life in dignity.
“The continuous confrontations contribute to greater insecurity for all and prevent the building of trust within the society and nation,” Tveit said. “We pray for the victims and their families.”
Tveit also urged prayers for the people of Iraq, and for its political and religious leaders. “May our Lord grant them the wisdom to address the challenges they are facing peacefully, and to move together towards reconstruction and a sustainable peace founded on justice and inclusion,” he said.