"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

25 dicembre 2006

Chiese vuote e buie per la vigilia di Natale a Baghdad

Fonti: Varie. Clicca sui link in fondo alla pagina per leggerle in originale (italiano ed inglese)

Con una mossa "politicamente scorretta" l'Arcivescovo di Canterbury, Rowan Willimas, in visita nei giorni scorsi nella Terra Santa con una delegazione di altri prelati britannici, ha accusato i governi inglesi ed americani di avere causato, con una politica “miope” ed “incompetente” il peggioramento della situazione dei cristiani in Iraq. Preoccupato della sorte dei cristiani in Medio Oriente in generale, l’Arcivescovo di Canterbury ha incentrato la sua attenzione sull’Iraq, senza dubbio il paese che...

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da tre anni e mezzo a questa parte ha assistito alla più massiccia emigrazione di cristiani in tutta l’area. I cristiani iracheni sono, secondo Williams, oramai considerati dai propri connazionali di fede islamica come “sostenitori dell’Occidente Crociato” una conseguenza della sciagurata agenda estera americana e britannica che più di una volta era stata prevista prima della guerra del 2003. Rowan Williams ha dichiarato inoltre la sua intenzione di coinvolgere tutte le chiese britanniche in una campagna di sensibilizzazione e conoscenza della minoranza cristiana in Medio Oriente.
Le parole dell’Arcivescovo di Canterbury sono state riprese da un testimone diretto della situazione che i cristiani stanno vivendo: Andrew White, canonico e vicario anglicano della chiesa di Saint George a Baghdad. “I collaboratori della mia chiesa sono stati uccisi” ha dichiarato il reverendo riferendosi alle cinque persone, tra le quali il pastore Rev. Maher Dakel, scomparse nel settembre 2005 sulla strada che va da Ramadi a Falluja che stavano percorrendo di ritorno dalla Giordania. Per quanto riguarda gli altri fedeli molti sono stati minacciati, e molti hanno ricevuto delle lettere minatorie contenenti delle pallottole, un chiaro avvertimento sulla sorte che aspetta loro nel caso si ostinino a rimanere nelle zone di Baghdad, ma anche del resto del paese, dove ormai negare che la “pulizia religiosa” sia in atto è solo un atto di cortesia politica verso i governi occupanti che, pur essendo stati avvertiti, hanno ignorato il pericolo che le loro azioni avrebbero creato alla minoranza cristiana.
Che il contesto in cui questa minoranza sta cercando di sopravvivere sia tragico è testimoniato dallo stesso tipo avvertimento ricevuto da famiglie cristiane di Mosul: "Andate via, crociati, o vi taglieremo la testa."
Uno spazio vitale sempre più ristretto è ciò che i cristiani stanno sperimentando. Cacciati da molte zone di Baghdad a suon di minacce, uccisioni mirate, rapimenti ed attacchi alle chiese, ora stanno fuggendo anche da Mosul, la città che, nella visione degli estremisti fautori di uno stato islamico puro, potrebbe diventare in futuro la capitale dello stato sunnita in contrapposizione a Baghdad che potrebbe rimanere, invece, sotto controllo sciita. “Vogliamo una società islamica ed i cristiani dovrebbero andare via visto che sono della stessa religione degli occupanti” ha dichiarato Saad Al Jibouri, religioso della moschea sunnita di Al Rahma, aggiungendo però che “noi non li abbiamo forzati a partire, né li abbiamo uccisi.”
A Mosul quindi si sta affermando sempre più un sentimento anti-cristiano. Ai (pochi) fautori della convivenza islamo-cristiana, costretti a tener un basso profilo pena l’essere accomunati agli infedeli autoctoni e stranieri, si oppongono coloro come Al Jibouri che ufficialmente “invitano” i cristiani ad emigrare e che lasciano il lavoro sporco di rendere questo invito più pressante ed efficace ai gruppi armati che spadroneggiano in città, come le Brigate dei Leoni della Giustizia, responsabili, secondo il sacerdote caldeo Raghid Kanni, delle lettere minatorie.
Nonostante queste testimonianze, però, le parole di accusa dell’Arcivescovo di Canterbury sono state respinte dal Ministero degli Esteri britannico un cui portavoce ha dichiarato:
“Non siamo d’accordo con la sua visione del problema. Non pensiamo che sia la nostra politica in Iraq la causa della sofferenza dei cristiani”
La colpa è se mai, continua la dichiarazione del Ministero, degli estremisti che vogliono causare dolore, sofferenza e caos per imporre un tipo di società modellata sul loro stile di vita anche a coloro che hanno chiaramente espresso con il voto il proprio desiderio di democrazia. La violenza, inoltre, colpisce indiscriminatamente tutte le componenti etniche e religiose del paese, continua il portavoce, e l’unico modo per venirne fuori è sostenere il governo democraticamente eletto perché possa creare una società in cui i diritti dei cristiani siano garantiti, tutto l’opposto della società desiderata da coloro che invece impongono la legge della violenza.
Sebbene, se considerate le diverse posizioni, ambedue le affermazioni siano a loro modo giuste: la guerra e la dissennata gestione del periodo post-bellico da parte degli americani ha certamente suscitato rancore nella popolazione musulmana che ha trovato facile bersaglio della sua rabbia nella piccola ed inerme comunità cristiana; la gestione degli attacchi ai cristiani è interna e funzionale alla politica di chi vuole istituire uno stato islamico, sunnita o sciita che sia, e che vuole eliminare le componenti “altre,” il problema non è ormai trovare il colpevole di questa situazione, ma una soluzione ad essa.
Ovviamente anche questo è difficile. Se Williams promette di portare, attraverso le chiese britanniche, la situazione dei cristiani iracheni all’attenzione di chi ancora nel mondo non la conosce, i cristiani del paese, sono le parole del Reverendo White, non vogliono enfatizzare la propria situazione per timore di un aggravamento delle violenze.
In questo senso nulla per loro è cambiato dal periodo del regime di Saddam Hussein.
La situazione di allora, per quanto non idilliaca come invece molte fonti tendono ad affermare oggi, era senza dubbio migliore. In una società fortemente nazionalistica, più per il sistematico lavaggio del cervello e per la repressione operata dal regime che intendeva coagulare attorno a sé la popolazione per compattarla contro il nemico esterno, che per convinzione (l’essere iracheno ha, immediatamente dopo la caduta del regime, lasciato il posto all’essere sunnita, sciita, curdo, ecc) i cristiani non erano perseguitati come sono ora. Anche i decreti ad essi sfavorevoli, approvati dal regime nel tentativo di abbandonare la propria laicità a favore di una rinnovata religiosità in grado di unificare le due diverse componenti islamiche del paese, erano poco se paragonati alle chiese esplose. Nell’Iraq di Saddam non c’era posto per le lotte interne. Il regime non avrebbe potuto tollerare la persecuzione di una delle sue minoranze essendo esso stesso composto essenzialmente da quella sunnita.
Ciò che non è cambiato è che, allora come oggi, i cristiani sono costretti a subire le vessazioni cui sono sottoposti minimizzandole o negando la loro specificità dietro generiche parole di “violenze indiscriminate.” Certo a soffrire non sono solo i cristiani, ma chi, basandosi sui numeri, fa notare che sono più le moschee che le chiese attaccate, che muoiono per le strade più musulmani che cristiani, dovrebbe, proprio in virtù degli stessi numeri, ammettere che è solo la sproporzione esistente tra popolazione cristiana e musulmana (3 e 97% rispettivamente prima della guerra del 2003 e la successiva emigrazione di cristiani) a giustificare quella differenza. E dovrebbe inoltre ammettere che le violenze sui cristiani sono ingiustificate non rappresentando essi nessun pericolo né militare né politico, avendo essi l’unica chance di rimanere nel proprio paese come cittadini di seconda classe laddove si dovesse imporre un regime islamico sunnita o sciita che sia.
Come al solito, come prima, quindi, i cristiani tendono pubblicamente a negare le proprie sofferenze. Se, al tempo di Saddam, avessero pubblicizzato i decreti ad essi sfavorevoli la repressione del regime sarebbe arrivata molto prima e molto più efficacemente di ogni eventuale aiuto dall’esterno che, invece, ne avrebbe peggiorato la situazione. Se, adesso, alzassero il tiro delle accuse verso chi ne fa bersaglio della propria violenza nessuno, né le chiese britanniche tutte, né le truppe di occupazione, li salverebbe da una risposta ancora peggiore.
“Contenere i danni” sembra quindi la politica dei cristiani in Iraq, proporre – come sempre fa la più debole delle parti – il dialogo alle forze che, di volta in volta, sembrano garantire loro protezione: americani, sciiti, sunniti, curdi. Questa è la loro linea di azione. Che sia giusta o meno lo dirà la storia. Per adesso sembra essere l’unica possibile, ed è per questo che ieri sera, vigilia di Natale, le chiese di Baghdad sono rimaste buie e vuote ed una, o al massimo due funzioni, stamani ricorderanno ai fedeli che questo avrebbe dovuto essere il giorno più bello dell’anno.
Avrebbe dovuto.


http://www.timesonline.co.uk/article/0,,7374-2516916.html

http://www.timesonline.co.uk/article/0,,251-2516875,00.html

http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/middle_east/4293802.stm
http://www.telegraph.co.uk/news/main.jhtml?xml=/news/2006/12/24/wchrist24.xml
http://qn.quotidiano.net/art/2006/10/03/5438825

http://news.scotsman.com

http://www.missioniconsolataonlus.it/articoli/det.asp?id=276
http://www.missioniconsolataonlus.it/articoli/det.asp?id=166


22 dicembre 2006

Monsignor Shleimun Warduni, Patriarca Vicario dei Caldei: "Noi cristiani siamo in grande pericolo!"


Iraq, più che un Natale... un venerdì santo

DI DANIELE ROCCHI

Nella Terza Domenica d'Avvento, Benedetto XVI è tornato a parlare della situazione in Iraq rivolgendo il suo pensiero "alle centinaia di migliaia di profughi irakeni in Siria, costretti a lasciare il loro Paese a causa della drammatica situazione che vi si sta vivendo". "In loro favore - ha detto il Papa - si sta già impegnando a fondo la Caritas della Siria; mi rivolgo tuttavia alla sensibilità dei privati, delle Organizzazioni internazionali e dei Governi, perché si facciano ulteriori sforzi per venire incontro ai loro più urgenti bisogni". Il dramma dei profughi e dei rifugiati iracheni rischia, infatti, di aggravarsi. Secondo quanto riferito dall'assistente dell'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), Judy Cheng-Hopkins, Siria e Giordania starebbero pensando di chiudere le frontiere agli iracheni in fuga che al ritmo di 2.000 al giorno si muovono verso la Siria e 1.000 verso la Giordania. Sarebbero circa 700.000 i rifugiati iracheni in Siria, circa 500.000 in Giordania e circa 650.000 negli Emirati Arabi Uniti. Ad essi non viene garantito né il lavoro, né il diritto alla sanità o allo studio, ma solo quello di soggiorno in attesa di tornare in Iraq o emigrare altrove.
Ma quale Natale si appresta a vivere la popolazione cristiana irachena sempre più minacciata e in fuga?
Lo abbiamo chiesto al vescovo caldeo, ausiliare di Baghdad, mons. Shlemon Warduni.
Eccellenza, le giro la domanda che Benedetto XVI ha posto, domenica 17 dicembre, all'Angelus: "Pensiamo ai nostri fratelli e sorelle che, specie in Medio Oriente, in alcune zone dell'Africa ed in altre parti del mondo vivono il dramma della guerra: quale gioia possono vivere? Come sarà il loro Natale?"
"Quello che ci apprestiamo a vivere non è Natale ma un Venerdì Santo... Vogliamo vivere ma non possiamo. Tuttavia ci rivolgiamo a Dio con la preghiera e il digiuno per chiedere aiuto. Il 18 e 19 dicembre abbiamo fatto due giorni di digiuno, elevando la nostra preghiera perché ci troviamo in grande difficoltà. Vogliamo gridare al cielo affinché ci dia pace, sicurezza e stabilità. Vogliamo per Natale quella pace che gli angeli delle Scritture annunciavano".

Nel caos in cui versa l'Iraq, vi state preparando al Natale?
"Non possiamo organizzare nulla perché non sappiamo cosa succederà fra poco o più tardi. Forse, quando saremo in prossimità del 25 dicembre potremo organizzare qualche cosa. Adesso posso dire con certezza che non ci sarà la Messa di Mezzanotte, forse ce ne sarà qualcuna in orario diurno. Tutto dipenderà dal coprifuoco o dalle condizioni di sicurezza. Speriamo comunque di celebrare in qualche maniera".

Nelle famiglie, al sicuro nelle case, c'è qualche segno di festa?
"Presepe e albero natalizio non mancano nelle case dei nostri fedeli e nemmeno dei dolci tipici, segni di festa. Così come non manca il coraggio di radunarsi per festeggiare il Principe della pace. Tutti cercheranno di fare qualche cosa ma non si sa come e quando. La festa è nelle case, fuori non c'è nulla che faccia pensare al Natale. La preoccupazione principale, una volta in strada, è tornare a casa sani e salvi. Il pericolo di attentati, di autobomba e di rapimenti è elevatissimo. Quella dei sequestri, in particolare, è diventata una vera piaga. Limitiamo moltissimo le uscite, la conduzione degli affari, cerchiamo di essere prudenti. Tutti hanno paura e i cristiani per primi. Hanno rapito e ucciso anche sacerdoti in questi ultimi mesi".

Osservatori politici credono che la violenza contro i cristiani nasconda il progetto di allontanarli da alcune zone dell'Iraq per relegarli in una enclave cristiana...
"Se ciò accadesse significherebbe mettere i cristiani in gabbia. Non è giusto. Che fine farebbero le nostre chiese, le nostre case, le nostre tradizioni? Noi siamo sparsi in tutto l'Iraq".

Cosa chiede in questo Natale per il suo Paese?
"Non mi stancherò mai di ripeterlo: pace, stabilità e sicurezza. E poi che finiscano questi rapimenti. Che ne sarà dei nostri sacerdoti e dei nostri fedeli? Siamo in grande pericolo. Lo gridiamo al mondo: noi cristiani siamo in grande pericolo. Vogliono ucciderci o cacciarci via. E il mondo aspetta e conta i morti e i rapiti. Nessuno può più vivere qui! Natale è la festa dei bambini: chiediamo a tutti i bambini della terra di pregare per i loro piccoli amici iracheni. Fate sentire loro l'amicizia e il calore. Che almeno i nostri piccoli abbiamo un segno di festa e di gioia".

UNHCR
(United Nations High Commissione for Refugees - Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite)

21 dicembre 2006

I capi religiosi cristiani iracheni si riuniscono a Baghdad

Il 20 dicembre si è riunito a Baghdad il Consiglio dei capi religiosi cristiani in Iraq.
La riunione del consiglio, che ha a capo il Vescovo della Chiesa Armena Apostolica, Monsignor Avak Asadorian, svoltasi nella cattedrale latina di San Giuseppe, è stata presieduta dal Patriarca di Babilonia dei Caldei, Mar Emmanuel III Delly. Tra coloro che hanno partecipato c’erano Monsignor Jean Sleiman, Vescovo Latino, e Monsignor Mattia Shaba Matoka, Vescovo Siro Cattolico. Per i caldei, oltre al Patriarca, erano presenti i tre vescovi ausiliari, Monsignor Shleimun Warduni, Monsignor Jacques Isaac e Monsignor Andraous Abouna.

Tra i diversi punti discussi: la situazione dei cristiani in Iraq; la necessità per i cristiani del paese di parlare con una sola voce; la proposta di un giorno di ritiro spirituale per i sacerdoti di tutte le denominazioni cristiane presenti a Baghdad e di un giorno di preghiera dedicato all’unità dei cristiani.
Il Patriarca Caldeo ha chiesto di pregare perchè la pace e la sicurezza siano ristabilite nel mondo, specialmente in Medio Oriente – Libano e Palestina – ed in Iraq.

"Aiuto alla Chiesa che soffre" sostiene i cristiani iracheni in Siria

Fonte: ZENIT Codice: ZI06122106

La metà dei cristiani ha abbandonato l’Iraq

Rende noto il Vescovo Andraos Abouna

La violenza che ogni giorno flagella l’Iraq ha provocato l’emigrazione massiccia verso altri Paesi della metà dei cristiani iracheni, ha reso noto un rappresentante del patriarcato caldeo. Monsignor Andraos Abouna, Vescovo ausiliare di Baghdad, ha illustrato all’associazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre” l’opera che i leader ecclesiali stanno compiendo per accogliere gli oltre 35.000 cristiani che hanno cercato rifugio in Siria. La Chiesa sta aiutando questi e altri rifugiati a cercare alloggio, cibo e assistenza medica. Benedetto XVI ha chiesto aiuto per loro il 17 dicembre in occasione della recita dell’Angelus. “Aiuto alla Chiesa che Soffre” ha offerto aiuti d’emergenza ai cristiani disperati che fuggono dal conflitto religioso e dall’estrema povertà dell’Iraq. L’istituzione sta collaborando da vicino con il Vescovo di Aleppo, monsignor Antoine Audo, leader dei cristiani caldei in Siria, che ha lanciato un programma di aiuti umanitari per i rifugiati che si sviluppa soprattutto a Damasco. Il progetto include pacchi alimentari e finanziamento di operazioni chirurgiche urgenti. Monsignor Abouna ha spiegato che “questa gente ha urgente bisogno di aiuto, e noi facciamo tutto ciò che ci è possibile. Siamo molto riconoscenti ad Aiuto alla Chiesa che Soffre per il suo aiuto”. Il Vescovo ha sottolineato che i cristiani che ancora rimangono in Iraq si trovano ad affrontare un pericolo crescente. Inoltre, ha ancora riferito il presule, i rifugiati in Siria hanno reso noto che i cristiani – e altri – ricevono minacce di morte e che le donne e le bambine sono costrette a portare il velo. Per i credenti, la chiusura forzata di circa una dozzina di chiese, conventi e altri edifici ecclesiali nel quartire di Al Dora di Baghdad ha rappresentato un colpo durissimo. Gli islamisti che promuovono la pulizia etnica hanno espulso i cristiani da Al Dora, prima conosciuta come “il Vaticano dell’Iraq”, ha reso noto il presule. “La gente è chiaramente preoccupata. Ad ogni modo, c’è qualcosa di più forte della paura: la loro fede”, ha concluso.

Visita il sito internazionale di "Aiuto alla Chiesa che soffre"

Per chi devono pregare i cristiani iracheni?


Alcuni giorni fa i fedeli caldei di tutti il mondo sono stati invitati dal loro Patriarca, Mar Emmanuel III Delly, a
contenere il più possibile le celebrazioni del Natale, un invito che, come ha aggiunto il Vicario Patriarcale, Monsignor Shleimun Warduni, è anche "atto di solidarietà con i fedeli della altre religioni, specialmente i musulmani."

Le parole di Monsignor Warduni sono molto simili a quelle pronunciate da Ali Abdul Rahim, un religioso sciita di Najaf che il mese scorso ha partecipato ad una riunione di riconciliazione tra le fedi che si è tenuta nella città santa sciita e che è stata organizzata da alcune ONG di donne irachene laiche.

Clicca su leggi tutto per leggere l'articolo sulla conferenza di Najaf tradotto ed adattato da Baghdadhope
Le attiviste irachene sfidano gli estremisti e chiedono tolleranza

15 dicembre 2006
di Haider al-Musawi
In una tensione settaria che cresce di giorno in giorno l’organizzazione non governativa di donne Al-Khansa ha cercato di fare la propria parte per contrastare questa tendenza organizzando una conferenza sulla tolleranza religiosa ed il dialogo a Najaf.
Per tre giorni, lo scorso mese, un albergo della città santa dui Najaf ha sopitato circa 90 tra attivisti dei diritti umani e giornaliste, quasi tutte donne, così come religiosi e teologi.
L’occasione ha cercato di unire i musulmani ed i cristiani iracheni nello scopo comune dell’opposizione alla violenza settaria, ma a causa delle preoccupazioni legate alla sicurezza, è stato posposto numerose volte.
L’idea della conferenza è emersa successivamente alle violente reazioni suscitate dal controverso discorso di Papa Benedetto XVI che sembrava associare l’Islam alla violenza e che aveva causato l’ira di molti credenti musulmani nei paesi islamici del mondo.
In Iraq, il furore suscitato dalle osservazioni del Papa hanno peggiorato la già non buona situazione dei cristiani. Mentre a Najaf le proteste sono state pacifiche, a Bassora i dimostranti hanno bruciato l’effige del Papa. I cristiani si sono sentiti sempre più bersaglio degli estremisti islamici ed hanno spinto Al-Khansa – che si occupa di questioni delle donne e di diritti umani – ad organizzare la conferenza.

“Noi non reagiamo al discorso del Papa bruciando le chiese e costringendo alla fuga i nostri fratelli cristiani. Noi cerchiamo di aiutare gli iracheni a far fronte ad una situazione di sofferenza” ha dichiarato Layla Al-Rubai, a capo di Al-Khansa.
Alla conferenza hanno partecipato musulmani, cristiani e organizzazioni di donne laiche delle province di Najaf, Baghdad e Babil, ed a tutti è stato chiesto di pronunciarsi contro la violenza e di appellarsi all’unità tra cristiani e musulmani, così come tra sunniti e sciiti.
In nove incontri I partecipanti hanno discusso diversi aspetti della vita religiosa, della tolleranza e della coesistenza islamo-cristiana.
La situazione per I cristiani in Iraq è notevolmente peggiorata dalla caduta del vecchio regime. Mentre in passato essi vivevano pacificamente con la maggioranza musulmana, negli scorsi mesi essi sono stati oggetto di minacce ed attacchi da parte degli estremisti islamici.
Molti hanno lasciato la capitale per trasferirsi nel nord, in aree come il Kurdistan iracheno, dove, ad esempio ad Ankawa, cittadina cristiana vicina ad Erbil, la capitale della regione curda, sono state costruite molte nuove chiese e dove le croci dai loro tetti illuminano le strade, una visione impensabile in questi giorni a Baghdad.
Altri cristiani sono fuggiti verso i paesi vicini dove sono presenti loro comunità come la Siria, il Libano e l’Armenia; alcuni sono emigrati in Europa ed in America.
Nidhal Hanna, a capo della ONG Taqadum (Progresso) che si occupa dei diritti delle donne ha dichiarato di sentirsi al sicuro tra le sue colleghe musulmane ma di avere problemi al di fuori della sua organizzazione tanto da aver programmato di raggiungere la sua comunità ad Erbil.
C’era un tempo, ricorda, quando non c’erano problemi tra le diverse fedi del paese.
“I miei genitori hanno sempre vissuto in Iraq e non ricordo siano mai stati offesi dai musulmani. Studiavamo insieme e non c’era discriminazione, Io stessa ho frequentato i corsi di educazione islamica e di Corano.”
I religiosi islamici che hanno partecipato alla conferenza di Najaf che la sempre peggiore reputazione che l’Islam sta guadagnando nel mondo sia colpa dei radicali islamici. “L’Islam è la religione della tolleranza e non del terrore” ha dichiarato Ali Abdul-Rahim, un religioso sciita di Najaf.
“Noi non rappresentiamo coloro che uccidono i civili e si dichiarano musulmani.”
Abdul-Rahim crede che i religiosi di tutte le comunità irachene dovrebbero unirsi e lavorare insieme per l’unità per “costruire un nuovo Iraq libero dalla violenza.”
Un’altra partecipante alla conferenza, Nadin Boutros, una cristiana della provincia di Babil, è convinta che tali eventi possano avvicinare le religioni:
“Il ruolo delle ONG non è solo quello di educare la gente al voto o ai diritti delle donne. Esse possono fare di più perché interagiscono con le persone.”

Un’altra conferenza si terrà a gennaio. Per ora Ali Abdul-Rahim ha invitato i cristiani a "chiedere a Dio, durante le festività, di portare pace ed aiuto ai musulmani.”

Anche Monsignor Najim, Procuratore della chiesa caldea in Europa, chiede aiuto per i profughi in fuga dall'Iraq

Fonte Asia News

L’Occidente, ultima speranza (delusa) dei profughi iracheni. Mentre i Paesi arabi favoriscono entrate, ma solo temporanee, gli iracheni in fuga cercano “stabilità e sicurezza” in Europa e negli Stati Uniti. I governi occidentali, però, guardano con indolenza al problema. Procuratore dei caldei in Europa: “I cristiani i più frustrati, l’Occidente e le organizzazioni internazionali facciano di più”. Seconda parte del reportage sull’emigrazione irachena.

I Paesi arabi e del Medio Oriente non possono più garantire un futuro ai profughi iracheni e ai loro occhi è l’Occidente l’ultima speranza, il paradiso dove trovare sicurezza e stabilità. Naturalmente la piaga dell’emigrazione tocca in modo profondo tutto il Paese, dagli sciiti, ai sunniti, ai cristiani. Ma questi ultimi vivono una frustrazione maggiore laddove, come raccontano ad AsiaNews, arrivano in Europa “fiduciosi della sua umanità e della sua cristianità” e vengono invece respinti. Attraverso AsiaNews mons. Philippe Najim, procuratore dei caldei in Europa, lancia un appello: “L’Occidente e i governi europei in particolare possono e devono fare di più per tutti i profughi dall’Iraq”. E alle organizzazioni umanitarie internazionali: “Se non ve ne occuperete voi, gli emigrati iracheni rimarranno senza speranza”.

Europa

Siria, Turchia e Giordania garantiscono solo permessi temporanei e tendono a trasferire i rifugiati verso Paesi terzi. Così questa gente vive per anni con l’idea di trovarsi lì solo di passaggio, in attesa di un visto che permetta loro di raggiungere Australia, Europa, Canada e Stati Uniti. Mons. Najim, responsabile della comunità caldea in Europa aggiunge: “Cristiani e musulmani fuggono e soffrono nella stessa misura, ma i cristiani che arrivano in Occidente sono più frustrati. Partono credendo che l’Europa, cristiana, capirà meglio e avrà compassione delle loro sofferenze. Ma spesso vengono delusi”. Le condizioni di chi arriva sono disastrose. Viaggiare illegalmente fino al nord Europa, ad esempio, costa fino a 15 mila dollari a persona e non tutti riescono ad arrivare; molti muoiono durante il percorso a causa delle grandi difficoltà e pericoli che si incontrano.
Tranne i Paesi scandinavi, in particolare la Svezia, quasi tutti gli altri nell’ultimo anno hanno ristretto il numero dei permessi. “L’Italia, poi, non ha neppure un programma specifico per i profughi come quelli previsti in Germania , Olanda, Inghilterra e Norvegia. Lì, i richiedenti asilo, appena arrivano, vengono inseriti nella comunità attraverso corsi di lingua, ai bambini è garantita istruzione, hanno alloggi e un assegno mensile di mantenimento. In Italia non esiste nulla di tutto ciò”, denuncia mons. Najim.
“In questi anni abbiamo avuto migliaia e migliaia di cristiani emigrati in Europa e il Patriarcato caldeo – ammette il procuratore - non era assolutamente pronto a seguire i profughi della sua comunità”. Al momento sono circa 100 mila i caldei sparsi in Europa, dove per lo più ottengono il riconoscimento di asilo per motivi umanitari, che devono rinnovare ogni anno.
Mons. Najm, in vista del Natale, rivolge un appello ai governi: “Ci associamo alle parole del Papa (pronunciate all’Angelus del 17 dicembre) e invitiamo i governi europei a capire la situazione tragica che vive l’Iraq; i profughi continuano a soffrire e chiedono solo di vivere una vita normale. La Chiesa caldea chiede che l’Europa non chiuda gli occhi davanti al dolore di questa gente, cristiani e musulmani. E, dove possibile, faciliti la nostra attività pastorale, senza disperdere la comunità dei fedeli”. Infine alle organizzazioni umanitarie internazionali: “Prendete coscienza della vita che conducono queste migliaia di profughi in Siria, Turchia, Libano, Giordania ed Europa; non hanno uno specifico stato legale, e se non ve ne occuperete voi, continueranno a vivere bisognosi di tutto e ormai privi di ogni speranza”.

Stati Uniti
Organizzazioni umanitarie sottolineano che il forte flusso di profughi dall’Iraq verso gli Stati Uniti imporrà all’amministrazione Bush di riesaminare la sua politica che autorizza l’asilo solo a 500 iracheni l’anno. Gli Usa ritenevano che la condizione di rifugiati per questa gente fosse temporanea, ma l’aggravarsi della situazione in Iraq non fa pensare che gli immigrati torneranno a casa in tempi brevi. Ellen Sauerbrey, assistente segretario di Stato per i rifugiati, riferisce che il presidente Usa ha l’autorità di alzare gli ingressi anche a 20mila.
Finora sono pochi gli iracheni riusciti ad ottenere il soggiorno negli Stati Uniti, mentre Washington e Nazioni Uniti devono ancora accordarsi su chi e come gestire il problema. Sauerbrey sostiene che l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) “dovrebbe lavorare meglio”. Dal canto suo l’Unhcr risponde che per farlo ha bisogno di maggiori fondi dalla comunità internazionale.
Arthur E. “Gene” Dewey, ex assistente segretario di Stato per i rifugiati, spiega che fino all’anno scorso “per ragioni politiche” il governo Bush “scoraggiava” l’insediamento di profughi iracheni negli Usa “per il messaggio psicologico che questo comportava: in Iraq non andava bene”. Stime ufficiali parlano di 200 iracheni ammessi negli Usa nell’ultimo anno, ma quasi tutti avevano fatto richiesta prima della guerra del 2003. Sauerbrey ammette: “Anche se in futuro garantiremo asilo a 20mila iracheni, sarebbe un numero molto inferiore al problema generale”.
L’anno scorso l’amministrazione Bush ha chiesto fondi per 70mila rifugiati da tutto il mondo. Di questi ne sono stati ammessi solo 42mila per “mancanza di fondi e impossibilità di ottenere garanzie che i richiedenti non rappresentavano un rischio per la sicurezza nazionale”.
La Chaldean Federation of America, fa notare che dopo la Guerra del Golfo, Washington ha fatto entrare circa 12mila musulmani sciiti, fuggiti dalla persecuzione di Saddam. “Perché non si adotta la stessa politica per i profughi cristiani dall’Iraq?”, chiede il direttore della Federazione, Joseph Kassab. (MA)

19 dicembre 2006

Siria, Giordania, Turchia. Gli ultimi paradisi per i cristiani iracheni, ma per quanto ancora?

Sulla scia dell'appello rivolto da Papa Benedetto XVI affinchè vengano garantiti maggiori aiuti ai rifugiati iracheni all'estero, Asia News ha raccolto una serie di testimonianze rilasciate nei mesi passati da esponenti religiosi di Siria, Giordania e Turchia, i paesi che accolgono il maggior numero di loro.

Clicca su "leggi tutto" per l'articolo di Asia News

Siria

All’Angelus dello scorso 17 dicembre, il Papa ha in particolare ricordato i profughi iracheni in Siria, “costretti a lasciare il loro Paese a causa della drammatica situazione che stanno vivendo”. Dopo il nord Iraq la prima meta per chi scappa è proprio la Siria. Qui, secondo ultime stime del ministero siriano dell’Interno, in tutto dal 2003 sono stati ammessi 750 mila iracheni. Di questi circa 40 mila sono cristiani, divisi tra Damasco e Aleppo. Scelgono la Siria perché si entra senza bisogno di visto, i bambini sono accettati nella scuole e il governo ha ancora una politica di apertura, rispetto ad altri Stati.
Siriano di origini irachene, mons. Antoine Aoudo, si occupa dal 1991 dei cristiani in fuga dall’Iraq. Dalla sua diocesi di Aleppo promuove e coordina programmi di assistenza agli immigrati. Ad AsiaNews spiega che “la condizione dei cristiani iracheni qui è molto dura, prima di tutto dal punto di vista psicologico”. “La solitudine, il senso di abbandono – continua – li rendono molto fragili; se si aggiunge l’estrema difficoltà economica si capisce perché nella Chiesa queste persone trovano l’unico luogo dove si sentono sicuri e protetti”. Per questo il presule racconta che il primo aiuto che offrono è “l’ascolto e la comprensione”. Inoltre le famiglie profughe non hanno alcuna speranza nel futuro: “A loro non viene garantito né il lavoro, né il diritto alla sanità, ma solo quello di soggiorno in attesa di tornare in Iraq o emigrare altrove”. Se negli anni precedenti a lasciare l’Iraq erano soprattutto le classi più abbienti, ora a fuggire sono i più poveri, che partono con poco in tasca e che nel giro di poco tempo si trovano bisognosi di tutto. “Le donne – denuncia il vescovo –
sono quelle che soffrono di più: le vedove in particolare finiscono per prostituirsi nel tentativo di guadagnarsi da vivere per sé stesse e i figli. Ed è un fenomeno molto diffuso a Damasco”.
La Chiesa caldea ha istituito a Damasco un Comitato di sei persone – tre iracheni e tre siriani - che gestiscono i programmi di aiuto. “Ogni due o tre mesi variamo programmi per circa 1000 famiglie”. L’assistenza è di tipo alimentare, sanitario e pastorale con corsi di catechismo per i bambini. “Solo a Damasco, 600 bambini si stanno preparando alla Prima Comunione”.
Mons. Aoudo spiega che “non si possono aiutare in modo programmatico i musulmani iracheni perché il governo lo vieta”; ma poi aggiunge:
“Se ci viene chiesta, una mano non si rifiuta mai a nessuno”.
Anche la Caritas a Damasco fa qualcosa, dice il vescovo, ma ha molte difficoltà organizzative. I programmi della Chiesa caldea sono possibili grazie a donazioni dall’estero, privati e alcune organizzazioni cattoliche, come Aiuto alla Chiesa che soffre. “L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) – riferisce il vescovo – è impegnato principalmente nel facilitare gli spostamenti e le pratiche per ricevere asilo in un Paese terzo”. “Ma spesso prima di partire si aspettano anche 4 anni”.

Giordania

Sempre secondo l’Unhcr, i profughi iracheni in Giordania sono circa 500mila e negli ultimi mesi il flusso è di 1000 al giorno. Solo nel 2006 sono 45 mila i cristiani iracheni entrati nel Paese. Da Amman, dove guida la parrocchia di Saint Joseph, p. Raymond Mousalli ha di recente rivolto un appello alle organizzazioni internazionali ed umanitarie perchè aiutino la popolazione irachena cristiana in Giordania, in continuo aumento. Secondo il sacerdote, circa 8000 caldei attendono un visto per l’espatrio o il riconoscimento di asilo. L’appello è rivolto alla Croce Rossa e ad Amnesty International “perchè facciano pressioni per una maggiore celerità nelle concessioni del visto per chi vuole espatriare”. Amman ha iniziato a bloccare gli ingressi agli uomini iracheni tra i 18 e i 35 anni dando preferenza invece a donne, vecchi e bambini.

Gli stessi problemi affrontano i cristiani iracheni in Turchia. Dalle colonne del Turkish Daily News, quotidiano turco in lingua inglese, mons. François Yakan, vescovo caldeo a Istanbul, e mons. Yusuf Sağ, patriarca vicario della Chiesa siro-cattolica in Turchia, hanno descritto una situazione disastrosa. I due leader cristiani si sono appellati alla comunità europea, “perchè accolga le famiglie dei rifugiati cristiani iracheni”. Queste persone vivono in Turchia per anni in attesa di emigrare verso altri Paesi, ma non hanno nessun diritto a lavorare e sono costretti a risiedere dove decide il governo turco, spesso in luoghi dove non possono ricevere assistenza pastorale.
“Questi rifugiati - dichiara mons.Yakan -
rimangono qui da uno ad undici anni e non hanno assistenza sanitaria, permessi di lavoro e diritto allo studio. Gli europei non si interessano della sorte di questa gente, eppure parlano di diritti umani e del loro essere cristiani”.
In Turchia bisogna per legge registrarsi presso gli uffici della polizia entro 10 giorni dall’arrivo e richiedere agli uffici dell’Unhcr un documento che certifichi lo status di rifugiati. Fino al rilascio del documento i profughi sono considerati come “richiedenti asilo”, mentre coloro che non si registrano o non fanno domanda di asilo rimangono immigrati senza documenti. Da quando è iniziata la guerra nel 2003 l’Unhcr ha sospeso i normali procedimenti applicati ai richiedenti asilo iracheni. Ottenere il permesso di emigrare in un altro Paese non era facile per loro neanche prima del 2003, ma ora è ancora più improbabile tranne che nei casi più estremi, o in cui i programmi umanitari di Paesi come Usa, Australia e Canada prevedano il ricongiungimento familiare.
Mons. Yusuf Sağ, denuncia che in Turchia l’Onu dirige i rifugiati verso Isparta o Kastamonu, posti dove nessuno parla arabo e dove non ci sono comunità cristiane. E aggiunge: “Il governo turco non fa differenze tra rifugiati cristiani e musulmani, ed entrambi subiscono un trattamento inumano. Noi possiamo fare poco, ed è una tragedia umanitaria”. (MA)




18 dicembre 2006

Un altro Natale "nascosto" per i cristiani iracheni


Il Patriarca di Babilonia dei Caldei, Mar Emmanuel III Delly, ha invitato i cristiani iracheni a non celebrare pubblicamente il Natale per "la grave situazione di sicurezza nel paese" come ha riportato il Patriarca Vicario Monsignor Shleimun Warduni, aggiungendo che la rinuncia alle pubbliche celebrazioni è anche intesa come "atto di solidarietà con i fedeli della altre religioni, specialmente i musulmani."
Tra i molti articoli che hanno descritto le sofferenze e le festività "nascoste" dei cristiani iracheni ne ho tradotti ed adattati alcuni, uno per anno, a dimostrazione che le parole del Patriarca riflettono una situazione che purtroppo dura ormai da molto.

Clicca su "leggi tutto" per gli articoli su Natale 2005, 2004, 2003


23 dicembre 2005
di Omar al-Ibadi

Manca solo un giorno alla più importante celebrazione per i cristiani, eppure la chiesa della Vergine Maria a Baghdad ha un aspetto desolato.
Non ci sono le luci e le decorazioni scintillanti degli anni passati.
Un piccolo e sgraziato alberello decorato in argento e rosso è vicino al pulpito – un povero sostituto del gigantesco albero di Natale che nel passato veniva decorato al suono degli inni sacri intonati dai giovani della parrocchia.
Solo sei donne sono venute a pregare alla sera, qualche giorno prima di Natale, e file di banchi sono rimaste vuote nella chiesa debolmente illuminata.

Ma non è sempre stato così

“Di solito celebravamo l’occasione pregando, e centinaia di fedeli si riunivano e si facevano gli auguri” ha detto Padre Boutros Haddad, il parroco della chiesa situata in un quartiere a prevalenza cristiana.
“Ora non possiamo più farlo per la mancanza di sicurezza.”
Un altro triste natale si avvicina per i circa 600.000 cristiani iracheni che godevano di una relativa libertà sotto Saddam, ma che ora vivono nella paura degli attacchi da parte dei sempre più potenti gruppi islamismi e delle milizie.
Dalla caduta di Saddam chiese sono state fatte esplodere, i negozi di liquori gestiti dai cristiani sono stati attaccati, e molti appartenenti alla piccola comunità sono stati uccisi o rapiti.
Molti di loro hanno già abbandonato l’Iraq per pascoli meno pericolosi come la Giordania o la Siria. Altri non osano avventurarsi verso le chiese.
“Siamo andati a vivere in Siria l’anno scorso per quello che abbiamo passato, non ce la facevamo più” dice la ventiseienne Rana Noah, a Baghdad per un breve periodo per un funerale, prima di tornare in Siria
Per coloro che sono rimasti in Iraq il periodo festivo somiglia poco a quello degli anni passati. I negozi di Baghdad che vendono gli alberi di Natale ancora mostrano le loro merci, ma gli affari non vanno bene.
“Nessuno dei miei soliti clienti sono venuti quest’anno, molti sono partiti dopo le esplosioni delle chiese dello scorso anno” (1 agosto 2004) dice Sajid Rasool Shaker che ogni anno, per anni, ha venduto alberi di Natale.
Almeno 20 persone furono uccise durante gli attacchi alle chiese a Baghdad e Mosul nella seconda metà del 2004.

Il senso di gioia è scomparso.

“Negli anni passati i fedeli arrivavano in chiesa alle nove di sera per riversarsi nelle strade dopo mezzanotte, abbracciandosi e facendosi gli auguri”
ricorda Mohammad Hikmat, insegnante alla chiesa della Vergine Maria.
Per il terzo anno di fila il coprifuoco notturno a Baghdad renderà impossibile le celebrazioni
“Quest’anno preghiamo per la pace in Iraq, ma lo facciamo per dovere e non per piacere” dice Hikmat, “siamo incatenati alla tristezza, abbiamo bisogno di pace ora più che mai.”


Il Natale non è molto felice per i cristiani iracheni

20 dicembre 2004
di Edmund Sanders

Secondo alcuni esponenti della leadership cristiana irachena 50.000 dei circa 800.00 cristiani hanno lasciato il paese dallo scorso anno, principalmente verso la Giordania e la Siria. Dopo un anno di attacchi alle chiese, minacce di morte ed uccisioni i cristiani rimasti hanno annullato le celebrazioni natalizie.
“Quest’anno ufficialmente non celebreremo” ha detto Padre Peter Haddad, parroco della chiesa della Vergine Maria a Baghdad.
Per paura di altri attacchi i vescovi dell’Iraq a prevalenza musulmana hanno recentemente annunciato la cancellazione delle celebrazioni legate al Natale imminente. Alcune chiese hanno addirittura cancellato le messe della Vigilia, una cosa mai successa durante il regime di Saddam Hussein.
Una volta, infatti, più di 700 fedeli si riunivano nella chiesa di Padre Peter. Lo scorso sabato invece la chiesa ne ha accolto solo 27.
I cristiani hanno vissuto in Iraq per centinaia di anni, in pacifico rapporto con i musulmani per la maggior parte di essi, ma dopo l’invasione a guida americana gli insorti hanno cominciato a bersagliare la loro comunità, accusando i cristiani di cooperare con gli “infedeli” americani lavorando come traduttori, personale di pulizia e commercianti. Le vessazioni sono diventate così gravi che molte donne cristiane hanno cominciato ad indossare il velo.
“Non siamo gli agenti di nessuno e non accettiamo di essere equiparati agli occupanti a causa della religione comune” ha recentemente detto ai suoi parrocchiani Monsignor Luis Sako, Vescovo caldeo di Kirkuk, che ha cancellato tutte le celebrazioni natalizie.
“Fare esplodere le nostre chiese e terrorizzarci non servirà a risolvere i problemi dell’Iraq.”
In passato, George Goryal, padre di 4 figli, celebrava il Natale con un picnic in famiglia, quest’anno rimarranno a casa. La famiglia spera di poter almeno presenziare alla messa della Vigilia, ma Goryal dice di essere così terrorizzato da eventuali attacchi da avere escogitato una strategia per ridurre i rischi:“Andremo a messa due alla volta, è la cosa più sicura.”
Alcune chiese hanno fatto ricorso alle guardie armate. Alla chiesa Assira di Nostra Signora della Salvezza uomini armati con fucili d’assalto e pistole sono rimasti di guardia durante il funerale di un parrocchiano ucciso mentre andava ad aprire il bar che gestiva in un club di Baghdad.
Alcuni esponenti del clero cristiano hanno dichiarato che piuttosto che dover fare ricorso ai metal detectors, alle perquisizioni, o ai soldati americani di guardia, cancelleranno le celebrazioni.
"Le famiglie cristiane si dovrano accontentare di celebrare in casa con parenti ed amici” dice Sameer Khoori, vice direttore dell’Hindiya, un club privato cristiano. In genere i cristiani in Iraq usavano festeggiare con lussuose feste nei ristoranti, visite ai parchi di divertimento e grandi riunioni familiari. Come negli Stati Uniti, le famiglie usavano anche decorare le case con luci colorate e ghirlande di pino.
Ora, dicono i cristiani iracheni, non c’è ragione di appendere le luci colorate se l’energia elettrica dura solo quattro ore al giorno. Anche le visite ai parenti fuori città sono impossibili vista la mancanza di carburante per le auto.
Nonostante i problemi, però, molti iracheni dichiarano di voler mantenere lo spirito natalizio.
“La nostra fede non svanirà” dice Hazim Jameel, un tassista di 47 anni che nel suo giorno libero ha acquistato un albero di Natale. “E’ di vitale importanza che la gente viva in modo normale”. Sua moglie, Fadia Issa, aggiunge che la famiglia preparerà la cena tradizionale di Natale e farà i regali ai tre bambini perché: “per loro è importante.” “Sono giorni molto brutti, ma passeranno” conclude il marito.


Cristiani iracheni nervosi all’approssimarsi del Natale

10 Dicembre 2003
di Luke Baker

Possono non aver decorato le entrate con rami di agrifoglio, ma per tutti gli altri aspetti i cristiani iracheni si stanno preparando al Natale.Yasmeen Yuaw ha comprato i regali per la sua bimba di tre anni, Natalie, e mercoledì scorso cercava di decidere quale albero di Natale comprare – uno grande per 80.000 dinari (circa 40 dollari) o uno più piccolo per 50.000. Rafid Najib, il proprietario del negozio Virgin Mary, a Garraj Amana, un quartiere quasi interamente cristiano nel centro di Baghdad, sta vendendo i suoi alberi di Natale di plastica fatti in Cina.
Eppure, piuttosto che con gioia, è soprattutto con paura che i cristiani di Baghdad attendono il momento magico del loro calendario.
“Il problema è la sicurezza” dice Elishwa Sadiq, procedendo a fatica con l’aiuto di un bastone mentre fa accomodare i giornalisti in casa sua, decorata con dipinti di Gesù.
C’erano timori, prima, ma ora abbiamo più paura. Non possiamo andare a far spese a causa delle esplosioni e dei rapimenti. Eravamo all sicuro sotto Saddam non ora.”
I cristiani iracheni, la maggior parte dei quali, sono assiri cattolici anche conosciuti come caldei, raramente erano discriminati sotto Saddam che guidava il laico Iraq, almeno fino agli ultimi anni del suo governo.
Uno dei suoi più fidati consiglieri, Tareq Aziz, era un caldeo. Come musulmano sunnita lo scopo principale di Saddam Hussein era di tenere a bada la maggioranza sciita che costituiva il 60% della popolazione di 26.000.000 di persone.
Prima della Guerra a guida Americana per spodestare Saddam, la comunità cristiana, stimata in un milione di persone, temeva che i musulmani l’avrebbero perseguitata nel corso della lotta per il predominio in un Iraq islamico.
Ci sono stati isolati incidenti, con volantini distribuiti nelle comunità cristiane che avvertivano le donne di indossare il velo e gli uomini di non bere alcolici. I rapitori hanno spesso avuto come vittime i cristiani che, senza una rete tribale di protezione, sono considerati non in grado di vendicarsi.
Eppure, sempre, i cristiani – come tutti gli iracheni – affermano che la sicurezza è il loro problema principale, un problema ancora più sentito con l’avvicinarsi del Natale.
Molti civili iracheni sono stati uccisi nel conflitto che oppone le forze a guida Americana ed i guerriglieri che lottano contro l’occupazione, ed il crimine aumenta vertiginosamente nel caos che ha seguito la caduta di Saddam ad aprile.
“Quest’anno sarà diverso” dice Mazin Poutros, una guardia di sicurezza che vive di fronte una chiesa caldea frequentata attivamente da circa 500 fedeli, nel centro di Baghdad.
“Il grosso problema è la sicurezza. Nessuno vuole uscire per strada o andare a trovare qualcuno con i bombardamenti e le uccisioni. E’ troppo pericoloso” aggiunge con una scrollata di spalle.
Putros, che ha dovuto chiudere il negozio che aveva in una strada popolare di Baghdad dopo che gli americani lo avevano isolato con barriere di cemento, dice inoltre di non poter più permettersi alcune tradizioni di Natale. “Di solito compravamo i regali di Natale ai bambini, ma quest’anno sarà difficile, non possiamo neanche permetterci la spesa dell’albero.”
In ogni caso però, aggiunge Putros, i suoi familiari più intimi si riuniranno dopo essere andati in chiesa per una cena, il 25, bere un bicchiere di vino e cercare di dimenticare i tempi difficili.
Altri, invece, a dispetto delle preoccupazioni, festeggeranno Natale.
“Non ci saranno le luci sull’albero perché manca l’elettricità” dice Yuaw “ma ci saranno dei regali e diremo ai bambini di comportarsi bene se vogliono i loro.”








17 dicembre 2006

Monsignor Philippe Najim, Procuratore della Chiesa Caldea presso la Santa Sede: "Il digiuno per chiedere a Dio la grazia della pace"


Il patriarca di Babilonia dei Caldei, Emmanuel III Delly, ha chiesto a tutti i cristiani di osservare domani e dopodomani un digiuno per la pace, la sicurezza e la stabilità in Iraq.

Sul significato di questo invito al raccoglimento e al sacrificio per il martoriato Paese del Golfo, Giancarlo La Vella ha raccolto il commento di Monsignor Philip Najim, procuratore apostolico per i caldei in Italia.
"Questa è una cosa che noi ripetiamo ogni anno secondo il calendario liturgico. Quest’anno sua Beatitudine, il patriarca Delly, ha preso questa iniziativa di invitare tutti i cristiani, specialmente quelli che sono di rito caldeo, in tutto il mondo, a dedicare questi giorni di digiuno e di preghiera all’Iraq e a tutto il popolo iracheno, musulmani, cristiani e altre denominazioni, per poter costruire la pace, per poter difendere i diritti umani in Iraq. Chiediamo a Dio Onnipotente, attraverso questa preghiera e questo digiuno, di darci la grazia di poter realizzare la pace."
La Chiesa caldea è particolarmente vicina alla gente irachena in questi momenti di estrema difficoltà. Qual è la situazione dei civili?
"E’ una situazione molto difficile, soffrono ogni giorno perché manca la sicurezza per tutta la popolazione irachena. Il governo iracheno non ha la possibilità di proteggere i cittadini, perciò la Chiesa caldea partecipa a questa sofferenza, come tutti gli altri soffre ogni giorno e attraverso questa sofferenza condivide, proprio con gli altri, questo sangue, che sprizza dagli iracheni."
Come sarà il Natale dei cristiani iracheni?
"Sarà un Natale molto semplice, non sarà un Natale libero, non sarà un Natale che avrà segni di festa, di luce, di fiori e di colori ma sarà un Natale veramente di preghiera, di attesa del Salvatore di cui, specialmente in questi momenti difficili in Iraq, abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di questa salvezza, abbiamo bisogno del nostro Signore Gesù Cristo che viene a salvarci. Perciò tutti i cristiani in Iraq celebreranno questo Natale in modo particolare, in un modo molto significativo, con un cuore sincero e aperto per poter ricevere il suo Salvatore e vivere e mettere in pratica il significato vero della salvezza."
Digiuno e preghiera sono anche un modo per richiamare i cristiani di tutto il mondo per un Natale più sobrio, più attento alle esigenze di chi soffre...
"Certamente, noi come cristiani ci associamo con tutti i cristiani del mondo perché abbiamo questo legame, tutti apparteniamo alla Chiesa cattolica e attraverso questa Chiesa noi dobbiamo unirci con le nostre preghiere per prepararci a ricevere il nostro Salvatore e realizzare il significato vero e autentico della salvezza del mondo e della salvezza dei principi che proteggono l’uomo."

Il Papa: "Aiutiamo i profughi iracheni in Siria"

Papa Benedetto XVI ha ricordato, durante l'Angelus domenicale, la difficile situazione dei profughi iracheni rifugiati in Siria: “costretti a lasciare il loro paese a causa della drammatica situazione che stanno vivendo.”
Per quelle persone il pontefice ha lanciato un appello “ai privati, alle organizzazioni internazionali e ai governi" perché si impegnino maggiormente ad andare incontro ai loro più urgenti bisogni”.
L'appello del pontefice è quanto mai tempestivo vista la prevista chiusura delle frontiere siriane ai profughi iracheni che potrebbero perdere una delle ultime speranze di sfuggire alla violenza.
Per la situazione in Siria ed in Giordania vedi post: Anche Siria e Giordania minacciano di non accogliere più gli iracheni.

16 dicembre 2006

I caldei celebrano il "Digiuno di Ninive"

Il patriarca di Babilonia dei caldei, Emmanuel III Delly, ha invitato i fedeli in Iraq e nel mondo ad osservare, nei giorni 18 e 19 dicembre, il digiuno di Ninive “Perché il Signore conceda il dono della pace al nostro Iraq, della sicurezza e della stabilità, e perchè si realizzi un clima di fratellanza e carità tra i figli dell’Iraq”.

Ma cos’è il “Digiuno di Ninive?” Per capirlo dobbiamo partire da molto lontano, esattamente dalla Bibbia:

Dal libro di Giona.
3:1 Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: 2 «Alzati, va' a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò». 3 Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. 4 Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». 5 I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. 6 Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. 7 Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: «Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. 8 Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. 9 Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?». 10 Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

In memoria di quando, spronati dal profeta Giona, gli abitanti di Ninive si convertirono alla fede in Dio, la chiesa caldea celebra ogni anno il Ba-oota d' Ninevayee, o Digiuno di Ninive. Il periodo di digiuno e preghiera, lontano dai 40 giorni biblici, si celebra il lunedì, il martedì ed il mercoledì della quinta settimana dell’anno solare, due settimane prima dell’inizio della Quaresima. L’offerta dei fedeli varia, è può andare da un digiuno completo per i tre giorni, da un digiuno dall’alba al tramonto o dall’astenersi nel mangiare pesce, carne e derivati del latte.
“A paragone di quel pentimento il nostro è un sogno,
a paragone di quella supplica la nostra non è che un’ombra”
Con queste parole Mar Aprim il Grande descriveva, nel IV secolo, il digiuno dei fedeli della sua epoca paragonato a quello dei tempi biblici.
Dimenticata per un lungo periodo, la tradizione del Digiuno di Ninive fu rinnovata nel VI secolo quando i vescovi di Ninive e Beth Garmee decisero di riprenderla nella speranza che ciò potesse aiutare la popolazione piagata da una pestilenza. Ad essi si unì il Patriarca Ezechiele che dichiarando un digiuno di tre giorni ordinò che esso fosse osservato per sempre.

Dal punto di vista liturgico il Digiuno di Ninive nella tradizione caldea viene celebrato durante la Santa Messa con la III Anafora di Nestorio, usata nell’anno liturgico solo altre quattro volte: il Giovedì Santo, l’Epifania, il giorno della festa del Corpo dei Maestri Greci e di San Giovani Battista.

Fonti:

La Sacra Bibbia:

La nascita della Chiesa Caldea. Padre Fadi Philippe Habib.

Leggi anche su 30 giorni le parole dell'allora Prefetto per la Congregazione della Fede, Cardinale Joseph Ratzinger, sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive.

15 dicembre 2006

I cristiani di Mosul saranno costretti a fuggire?

Fonte: ASIA NEWS

Natale a Mosul sotto la minaccia della sharia

Nella città irachena è in atto una campagna contro il “costume non islamico”, di cui obiettivi principali sono donne e cristiani. Volantini impongono di indossare il velo, a uomini e donne di non sedersi vicini e vietano l’uso del sapone, perché “non esisteva all’epoca di Maometto”. Il dolore dei cristiani, l’appello del Patriarca Delly per un digiuno di preghiera.

Leggi il resto dell'articolo su Asia News:

14 dicembre 2006

Vescovo caldeo di Kirkuk: "Basta uccidere in nome di Dio!"

Diritti umani in Iraq
In questi giorni una piccola delegazione di Pax Christi Italia è ospite dell'Arcivescovo Caldeo di Kirkuk, in Iraq, mons. Louis Sako, amico da lungo tempo, fino dai tempi dell'embargo, poi incontrato più volte in questi anni, in Iraq e in Italia. Con lui abbiamo fatto qualche considerazione alla luce dell'anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell'uomo, 10 dicembre.

Diritti umani? Verrebbe quasi da dire che qui non esistono. Ci dice mons Sako, quasi come una provocazione. Poi, continua.... Basta uccidere in nome di Dio. Gli scontri religiosi sono un'offesa a Dio perché prima sono una offesa all'uomo. La violenza non risolve i problemi, ma fa crescere la cultura della morte. Abbiamo bisogno della cultura della vita e della convivialità. Riconoscere l'altro, aiutare l'altro a vivere liberamente è un dovere umano e divino. La storia ci mostra, e dobbiamo imparare dalla storia, che le guerre non hanno mai risolto i problemi, ma hanno sempre aumentato il solco della divisione. Dopo ogni guerra si arriva sempre a dei negoziati per ristabilire la pace. Perché allora non partire subito con il dialogo e il negoziato, invece della guerra? Noi tutti qui abbiamo una grande esperienza negativa della guerra. E non solo noi in Iraq. Bisogna allora lavorare per la riconciliazione. Tutti gli uomini e le donne sono fratelli e sorelle, figli di un solo Dio. Vivere nella pace e nella gioia è il Regno di Dio che Gesù ha proclamato. Cristiani, musulmani, Sciiti, Sanniti, Cattolici e Ortodossi... queste diversità devono fare l'armonia e la ricchezza, invece che fare divisioni e problemi.Dio ci dirà un giorno, come ha detto a Caino, ' dov'è tuo fratello?' L'altro, chiunque esso sia, è mio fratello e sono responsabile di lui perché viva in felicità. Siamo creati per vivere non per morire con atti abominevoli.

La delegazione di Pax Christi Italia
Iraq, Kirkuk, 10 dicembre 2006

10 dicembre 2006

Anche Siria e Giordania minacciano di non accogliere più gli iracheni


L’Assistente dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, Judy Cheng-Hopkins, ha confermato che i governi di Siria e Giordania stanno pensando di chiudere le frontiere ai rifugiati iracheni che al ritmo – sempre secondo le stime dell’UNHCR – di 2000 al giorno verso la Siria e 1000 verso la Giordania, abbandonano il loro paese impossibilitati a restarvi a causa dell’escalation di violenze quotidiane.
Già adesso la situazione di questi profughi nei due paesi è tragica, ad essi infatti non viene garantito nè il lavoro, nè il diritto alla sanità o allo studio, ma solo quello di soggiorno in attesa di tornare in Iraq o emigrare altrove. Se, poi, negli anni precedenti a lasciare l’Iraq erano soprattutto le classi più abbienti, ora a fuggire sono i più poveri, che partono senza nulla e che nulla ricevono, a parte qualche aiuto dallo stesso UNHCR o da organizzazioni umanitarie che non riecono però a far fronte ai loro bisogni.
Secondo l’UNHCR ci sarebbero dai 600.000 ai 700.000 rifugiati iracheni in Siria, circa 500.000 in Giordania e circa 650.000 negli Emirati Arabi Uniti. Senza contare i rifugiati interni, coloro cioè che a causa delle violenze legate all’appartenenza religiosa, sono costretti a lasciare le proprie case ed a cercare la salvezza in zone o città diverse. “Sono circa un milione ottocentomila persone” dice Judy Cheng-Hopkins. Persone per le quali, però, anche questa migrazione interna sta diventando sempre più difficile se è vero che, sempre secondo quanto afferma l’UNHCR, città sciite come Kerbala, stanno rifiutando ulteriori ingressi perchè oermai sovraffollate.

Padre Sami Al Rais è libero

Si attendono i particolari, ma da Baghdad giunge la notizia della liberazione di Padre Sami Al-Rais, sacerdote caldeo sequestrato lo scorso 4 di dicembre.

8 dicembre 2006

Organizzazione Conferenza Islamica richiama all'ordine i capi religiosi iracheni ricordando loro di essersi impegnati a fermare le lotte settarie

Il 22 ottobre scorso, con il patrocinio della Organization of the Islamic Conference, era stato firmato alla Mecca un documento di riconciliazione per mettere fine alle violenze settarie che insanguinano l’Iraq.

Il documento era stato sottoscritto da 29 rappresentanti religiosi iracheni, sunniti e sciiti, ma non era stato sottoscritto dal Grand Hayatollah Ali Al Sistani e da Muqtada Al Sadr, una cosa che ne aveva decisamente ridimensionato l’importanza visto il peso politico dei due capi sciiti.
Che quel documento sarebbe rimasto lettera morta era prevedibile, ora se ne ha la conferma dallo stesso Segretario Generale della Organization of the Islamic Conference, Ekmeleddin Ihsanoglu che, visto il continuare delle violenze, ha invitato i capi religiosi musulmani iracheni a rispettare gli impegni presi alla Mecca:

“Perchè non chiedete ai vostri fedeli di mettere fine a questo carnaio così come avevate giurato di fare di fonte a Dio? Perchè non cercate di risparmiare il sangue musulmano come vostro primo dovere secondo la legge di Dio, la vostra coscienza e la vostra umanità?
La situazione presente richiede che voi facciate tutto ciò che è nelle vostre possibilità per onorare il vostro dovere."

7 dicembre 2006

Poca attenzione alle minoranze irachene nelle proposte dei "saggi" americani

Nelle 84 pagine dell'Iraq Study Group Report, il documento che i "saggi" americani hanno reso pubblico ieri, 6 dicembre, e che dovrebbe guidare la linea politica dell'amministrazione americana in Iraq, i riferimenti alla minoranza cristiana sono solo 2:

Raccomandazione 27: De-Baathificazione. La riconciliazione politica necessita della reintegrazione dei baathisti e dei nazionalisti arabi nella vita nazionale, con l'esclusione delle figure di spicco del regime di Saddam Hussein. Gli Stati Uniti dovrebbero incoraggiare il ritorno nel governo delle figure professionali qualificate: sunniti o sciiti, nazionalisti o ex baathisti, curdi o turcomanni, cristiani o arabi.

Raccomandazione 32: Minoranze. I diritti delle donne e di tutte le comunità minoritarie in Iraq, compresi i turcomanni, i caldei, gli assiri, gli yazidi, i sabei e gli armeni, devono essere rispettati.

Leggi tutto il rapporto ( in inglese) dal sito ufficiale: Iraq Study Group Report

6 dicembre 2006

Lutto per la comunità protestante irachena: ucciso un diacono


Il diacono della National Protestant Evangelical Church di Mosul, il sessantanovenne Monther Saqa, è stato rapito ed ucciso a Mosul.
Malgrado fosse stato chiesto un riscatto, il corpo di Monther Saqa è stato infatti ritrovato il giorno seguente al suo sequestro. Il diacono è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco sparato alla testa.
La drammatica soluzione del sequestro ricorda quella di Padre Paul Iskandar, sacerdote siro-ortodosso, rapito ed ucciso sempre a Mosul lo scorso ottobre, anch’egli prima che il riscatto richiesto fosse pagato.
Non ci sono informazioni aggiornate su quante siano le chiese protestanti in Iraq, ma nel 2004 erano cinque:
National Protestant Evangelical Church a Mosul, la più antica chiesa presbiteriana del paese, fondata nel 1840
National Presbyterian Church a Baghdad (ArabPresbyterian Church), fondata nel 1952
Assyrian Evangelical Presbyterian Church a Baghdad, fondata nel 1921
Kirkuk's National Evangelical Church, fondata nel 1958
National Presbyterian Church a Bassora, fondata nel 1940

5 dicembre 2006

Le parole del Vescovo Ausiliare di Baghdad confermano il peggioramento della situazione dei cristiani a Baghdad Jadida

Fonte: SIR

A proposito del rapimento di Padre Sami Al Rais, Monsignor Shleimun Warduni, Vescovo Ausiliare di Baghdad ha dichiarato ieri all’agenzia Sir: “Lo hanno preso questa mattina verso le 9.30 a pochi passi dalla chiesa di Mar Khorkhis, a Baghdad Jadida.” Le parole del presule confermano come la situazione della zona di Baghdad Jadida stia peggiorando di giorno in giorno per la comunità cristiana che ci vive o che la frequenta per lavoro e studio.

Baghdad Jadida: la nuova Dora dei cristiani di Baghdad
, è infatti il titolo di un precedente post che esamina come il processo di espulsione della comunità cristiana stia seguendo uno schema che prevede la “pulizia” di quartiere per quartiere, proprio come succede per i sunniti che vivono nei quartieri che gli sciiti vogliono egemonizzare, e viceversa. L’unica differenza è che i cristiani non hanno a Baghdad un’area di sicurezza dove potersi rifugiare.
Se Baghdad Jadida diventasse per loro invivibile, come è già Dora, dove potrebbero andare?
A Karrada? A Mansour? E chi assicurerà loro protezione da chi, sarebbe ora di ammetterlo, li vuole “fuori” da Baghdad? Per quanto ancora riusciranno a resistere migrando di zona in zona? E quanto dovranno pagare in termini di vite e di dolore? Ma soprattutto, hanno la minima possibilità di sopravvivere in una città che si sta stringendo attorno a loro e che finirà per stritolarli?

Il Patriarcato Caldeo di Baghdad conferma il rapimento di un altro sacerdote.

Fonte: Asia News

Un altro sacerdote caldeo è stato rapito ieri a Baghdad. Padre Samy Al Raiys, la cui scomparsa è stata annunciata ieri sera, è nelle mani di alcuni sconosciuti che lo hanno prelevato insieme alla sua auto vicino casa. A parlare di “rapimento” è il Patriarcato caldeo di Baghdad, che sul suo sito internet lancia un appello ai sequestratori: “Vi preghiamo di non fargli del male e di trattarlo bene”. “Consegniamo p. Samy - si legge sempre sul sito - nella mani del Signore e della Provvidenza, chiedendoGli di aiutarci a salvare l'Iraq da questi rapimenti che terrorizzano tutti, grandi e bambini”. “Invochiamo la Madonna - conclude il testo - perché lo salvi e lo faccia ritornare presto alla sua chiesa e al servizio dei fedeli”.
Padre Samy era a pochi metri da casa, in via Sinaa, a Baghdad, quando alcuni sconosciuti lo hanno rapito. Da allora non si hanno notizie di lui, né è stata ritrovata la sua auto. Il sacerdote, rettore del Seminario maggiore del Patriarcato caldeo, si stava recando alla sua chiesa di Mar Khorkhis (San Giorgio), dove di recente era stato trasferito in seguito alla chiusura del seminario stesso per questioni di sicurezza. Padre Samy è anche docente di Morale al Babel College, la facoltà di teologia nella capitale irachena. Tra pochi giorni – raccontano membri della comunità cristiana locale – il rettore doveva presenziare all’apertura del nuovo anno accademico del seminario, che ora non si terrà. Domani il seminario “Simon Pietro”, chiuso per la crescente insicurezza a Baghdad, avrebbe ripreso le lezioni “per una settimana di prova”. “Ora – dicono alcuni dei pochi studenti rimasti – il seminario avrà altri problemi, perché oltre alla mancanza di sicurezza e alle minacce deve sostenere l’assenza del suo rettore”.
Il rapimento di p. Samy arriva ad appena una settimana dal rilascio di p. Doglas Yousef Al Bazi, parroco caldeo di S. Elia a Baghdad, ancora in convalescenza dopo 9 giorni di sequestro.

4 dicembre 2006

Scomparso un altro sacerdote caldeo a Baghdad: Padre Sami Al-Rais

Fonti di Baghdad hanno confermato stamani la scomparsa di Padre Sami Al-Rais lungo il tragitto che stava percorrendo dalla zona di Camp Sarah alla chiesa di Mar Khorkhis, a Baghdad Jadida.
Padre Sami Al-Rais, Rettore del Seminario Maggiore Caldeo a Dora e parroco della Chiesa di San Pietro e Paolo ad esso annessa, avrebbe dovuto presenziare tra due giorni all'inaugurazione dell'Anno Accademico del Babel College, l'unica facoltà teologica cristiana in Iraq, che proprio da Dora, a causa della situazione di insicurezza, è stato trasferito presso la chiesa di Mar Khorhis.
La cerimonia di inaugurazione del Babel College è stata ovviamente rimandata a data da destinarsi.
Se si trattasse di un rapimento - ancora ufficialmente non lo è - seguirebbe di soli 7 giorni il rilascio di un altro sacerdote caldeo rapito a Baghdad il 19 di novembre, Padre Douglas Al Bazi. Si tratterebbe quindi del quinto sacerdote caldeo sequestrato a Baghdad a partire dal luglio del 2006. La comunità caldea aveva già dovuto sopportare il sequestro di due monaci nel 2005, e quella siro-cattolica il rapimento del Vescovo di Mosul, Monsignor George Qas Musa, sempre nel 2005. Tutti questi sequestri si sono risolti con il rilascio degli ostaggi mentre destino peggiore è toccato a Padre Paul Iskandar, sequestrato ed ucciso a Mosul lo scorso ottobre.

3 dicembre 2006

"Ci siamo e ci resteremo"


Mentre il Papa cerca di costruire ponti con la Turchia la precaria situazione dei cristiani iracheni peggiora.

Jonathan Steele, Mosul
Giovedì 30 Novembre 2006

Qualsiasi ripercussione abbiano avuto gli incendiari commenti di Benedetto XVI nei confronti dell’Islam e del profeta Maometto per la sua immagine in Turchia, essi sono stati devastanti in Iraq.
La piccola comunità cristiana ora vive nella paura dopo le minacce degli estremisti di uccidere tutti i cristiani a meno che il Papa non avesse porto le sue scuse. Le chiese hanno cancellato le funzioni e le riunioni dei fedeli si sono ridotte perché la gente non esce di casa.
Secondo l’ultimo rapporto bimestrale sui diritti umani della missione delle Nazioni Unite in Iraq, alcune chiese a Baghdad hanno affisso dei cartelli per dissociarsi dalla citazione fatta dal Papa a settembre di un imperatore bizantino medioevale che aveva affermato che l’Islam non aveva portato alcun bene al mondo.

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Le più antiche chiese cristiane irachene si trovano a Mosul, costruite vicine l’una all’altra nella città vecchia su una collina sul Tigri. Esse hanno sopportato le reazioni più violente. Alcuni razzi sono stati sparati verso la chiesa caldea dello Spirito Santo ed una bomba è stata piazzata presso la sua porta principale. Spari sono stati diretti verso un convento di suore domenicane e la chiesa di Al-Safena.
Paolos Eskander, un sacerdote siro ortodosso, è stato sequestrato all’inizio di ottobre, ed alla sua chiesa è stato chiesto di affiggere dei cartelli di dissociazione dalle parole del Papa, così come un riscatto.
Sebbene la chiesa abbia prontamente acconsentito alla prima richiesta, due giorni dopo il sequestro è stato ritrovato il corpo decapitato del sacerdote con evidenti segni di tortura, e prima che il riscatto fosse pagato.
I cristiani del nord dell’Iraq erano sotto pressione già prima dei mal interpretati commenti papali. Migliaia di loro sono fuggiti negli ultimi mesi verso la Siria o verso la regione autonoma del Kurdistan, a nord. Ogni città o villaggio cristiano nella Piana di Ninive ad est di Mosul ora ha guardie armate.
“Rispondono a me” ha dichiarato Sarkis Aghajan, assiro e maggior leader politico cristiano nel nord. Da Irbil, Aghajan lavora anche come uno dei due ministri delle finanze del governo regionale curdo. “Nessuno, né curdo né arabo, può vietarci di creare una tale forza, neanche gli americani. Quando ci uccidevano e decapitavano nessuno ci ha protetto.”

Gli assiri si considerano come gli abitanti originari dell’Iraq. I loro avi costruirono Ninive, Babilonia e le altre grandi città della Mesopotamia. Essi furono anche i primi dell’area a convertirsi alla cristianità e la loro lingua, anche oggi, è l’aramaico.
L’ultima ondata di persecuzione segue un percorso già noto. “Siamo stati massacrati per duemila anni. Ci hanno sempre accusati di essere agenti dell’occidente” afferma Aghajan. L’attuale tentativo di espellerli da Mosul non è altro che il quinto in meno di un secolo, aggiunge.
Le forze armate irachene distrussero molti villaggi cristiani nel Kurdistan nel 1933, costringendo migliaia di persone a fuggire verso la Siria. La guerra di Baghdad contro i curdi significò tre ondate di violenza culminate nella famosa campagna di Anfal per la quale Saddam Hussein è ora sotto processo a Baghdad.
Questa volta, dice Aghajan, i cristiani non si faranno cacciare. Riferendosi alle guardie armate che le sue chiese hanno reclutato – Aghajan non ama il termine milizie – egli dice: “Ci siamo e ci resteremo.”
Le sue coraggiose parole arrivano però tardi. La comunità cristiana irachena contava 1.800.000 persone nel 1980, all’inizio della guerra contro l’Iran. Nell’aprile del 2003, quando l’invasione a guida USA ha rovesciato Saddam Hussein era scesa, secondo Aghajan, a 800.000 persone. Da allora la mancanza di leggi, le autobomba, ed il conflitto settario l’hanno ridotta a 500.000 persone delle quali 250.000 vivono a Baghdad.
I cristiani gestivano di solito le rivendite di alcolici, ma a Bassora ed in altre città sciite del sud, così come nei sobborghi sciiti della capitale dove i partiti islamici sono forti, sono stati costretti a chiudere i negozi. Molti cristiani lavoravano nelle basi americane come personale addetto alle pulizie o alle lavanderie perché gli americani percepivano i non musulmani come meno rischiosi, ma questo ne fece bersagli degli insorti che li consideravano “collaboratori.”
Come i cristiani di Mosul molti di quelli di Baghdad sono fuggiti nel Kurdistan. Nella chiesa di Saint Joseph ad Irbil, piena di fedeli alla funzione settimanale del venerdì pomeriggio, poche famiglie hanno voglia di parlare e si defilano quando ci si presenta come giornalisti. Un venditore di auto di Mosul che ora gestisce un piccolo negozio di abbigliamento vicino alla chiesa ha accettato di parlare mantenendo l’anonimato. “Abbiamo lasciato la nostra casa di corsa e non abbiamo portato via neanche un mobile. Una bomba era esplosa proprio fuori di casa.” Un fatto successo poco prima dei famosi commenti del Papa. Ora l’uomo è felice di avere lasciato Mosul in tempo

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Cambierà qualcosa per i cristiani iracheni in Turchia dopo il viaggio del Papa?


La situazione dei cristiani iracheni in Turchia è ancora difficile, lo testimoniano le parole di due vescovi e dei rappresentanti della Caritas ad Istanbul. Monsignor François Yakan vescovo caldeo, e Monsignor Yusuf Sağ, vescovo siro cattolico, descrivono una situazione disastrosa e si appellano alla comunità europea perchè accolga le famiglie dei rifugiati cristiani iracheni.

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I richiedenti asilo cristiani iracheni in Turchia soffrono dimenticati e poveri.
Domenica 3 dicembre 2006

MICHAEL KUSER
ISTANBUL – Turkish Daily News
I rifugiati iracheni vivono in Turchia per anni in attesa di emigrare verso altri paesi, eppure non hanno nessun diritto a lavorare e soffrono dal punto di vista psicologico dall’essere costretti a vivere dove il governo turco decide, spesso in luoghi dove non possono godere del supporto della propria comunità.
“Nessuna porta si apre per loro” ha dichiarato Monsignor François Yakan, 48 anni, che dirige la Chiesa Cattolica Caldea in Turchia dal suo ufficio di Istanbul. “Il vecchio regime in Iraq non andava bene, ma ora la situazione è peggiorata, ogni giorno veniamo a sapere di 5 o 6 persone, parenti di qualcuno della nostra comunità di Istanbul, uccise nel paese.”
Il vescovo è nato nella regione di Hakkari, ha studiato e frequentato il seminario in Francia, ed è tornato in Turchia sette anni fa come Vicario Patriarcale dei Caldei. Guida il suo piccolo gregge di fedeli da un ufficio ad Istanbul dove celebra la Santa Messa in una piccola chiesa che prima apparteneva ai cattolici bizantini e che si trova di fronte al consolato britannico. Una parte della comunità caldea frequenta invece una cappella più grande nei sotterranei della Chiesa di Sant’Antonio nella zona di Istiklal Caddesi.
“Questi rifugiati soffrono di molti problemi psicologici” dichiara Monsignor Yakan, “rimangono qui da uno fino ad undici anni e non hanno assistenza sanitaria, permessi di lavoro e diritto allo studio. Gli europei non si interessano della sorte di questa gente, eppure parlano di diritti umani e del loro essere cristiani.”

I numeri
L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) che opera su incarico del governo turco nell’assistenza dei rifugiati e di coloro che chiedono asilo, stima che almeno un milione di iracheni sono fuggiti dalla guerra in Iraq.
Mentre la maggior parte dei rifugiati iracheni vive in Siria o in Giordania, coloro che arrivano in Turchia sono obbligati per legge a registrarsi presso gli uffici della polizia entro 10 giorni dal loro arrivo ed a richiedere agli uffici dell’UNHCR un documento che certifichi lo status di rifugiati. Fino al rilascio eventuale del documento essi sono considerati come richiedenti asilo, mentre coloro che non si registrano o non fanno domanda di asilo rimangono immigrati senza documenti
Sfortunatamente, da quando è iniziata la guerra nel 2003 l’UNHCR ha sospeso i normali procedimenti applicati ai richiedenti asilo iracheni. Ottenere il permesso di emigrare in un paese terzo non era facile per loro neanche prima del 2003, ma ora è praticamente impossibile tranne che nei casi più estremi, o nei casi in cui i programmi umanitari di paesi come gli Stati Uniti, l’Australia ed il Canada prevedano il ricongiungimento familiare.
Il Ministero degli Interni turco stima che circa 90.000 persone sono entrate illegalmente nel paese lo scorso anno, ma non fornisce dati sulla loro nazionalità. A settembre del 2006 407 iracheni hanno chiesto asilo presso gli uffici dell’UNHCR in Turchia.
“Ogni categoria di persone presenta domanda di asilo, ma noi non consideriamo la loro religione” ha dichiarato Metin Corabatir, portavoce dell’UNHCR ad Ankara. In questo modo nessuno sa quanti iracheni sono entrati in Turchia senza permesso, o in che percentuale essi siano cristiani i musulmani.

Il sostegno della propria comunità
I rifugiati iracheni cristiani ad Istanbul sono per la maggior parte cattolici caldei. Come altri rifugiati, i richiedenti asilo e gli immigrati senza documenti, essi sono stati sradicati dalle loro case e devono cavarsela in un paese straniero. Coloro costretti a vivere fuori Istanbul devono vivere senza il sostegno della propria comunità che è di importanza fondamentale per il benessere delle persone.
L’agenzia vaticana Caritas gestisce alcuni programmi di sostegno tra cui quello di una scuola per bambini iracheni ad Istanbul, vicina alla sua sede ad Harbive.
“Ci concentriamo sui richiedenti asilio iracheni che cercano il nostro aiuto” ha dichiarato il portavoce della Caritas Tülin Türkcan. “E’ un piccolo aiuto e le nostre possibilità sono limitate. Io posso parlare degli Assiri e dei Caldei, perché sono cristiani iracheni che vengono da noi, non dei Curdi o dei Turcomanni. A volte anche degli africani vengono a cercare abiti o assistenza medica. L’ignoranza è un problema perché di solito una persona del Bangladesh non sa cosa sia l’asilo, ed è un problema farlo capire.”
Papa Giovani Paolo II nel 1991 ordinò alla Caritas di Istanbul di coordinare gli aiuti per il mezzo milione di rifugiati iracheni che avevano oltrepassato la frontiera turca per fuggire dalla Guerra del Golfo.
“La Caritas ha notizie solo delle 500 persone che si sono registrate presso i suoi uffici” ha detto Monsignor Yakan. “Fino al mese scorso qui c’erano 3800 persone. Man mano che la guerra in Iraq aumenta di intensità il numero sale..”

I casi estremi
La Caritas non ha uno status ufficiale, ma l’organizzazione che Monsignor Yakan ha creato sei mesi fa – la Chaldean Assyrian Refugee Aid Association (associazione di aiuto per i rifugiati assiro caldei) ha l’identità legale per aiutare la comunità di rifugiati cristiani iracheni anche se non riceve finanziamenti né dal governo turco né dal Vaticano.
“Ciò di cui abbiamo bisogno è un’agenzia statale responsabile per la comunità dei rifugiati ad Istanbul, cristiani, musulmani o buddisti che siano” ha aggiunto Monsignor Yakan. “Ho compiuto delle visite pastorali a Konya, Kayseri, Burdur ed Isparta, dovunque queste persone siano state mandate, ma io sono solo in Turchia. Attraverso la fondazione della chiesa aiutiamo le vedove e le persone in gravi difficoltà, ma per quanto riguarda il loro ritorno in Iraq è impossibile pensarci.”
I cristiani non hanno un’area propria in Iraq, come invece hano i sunniti, gli sciiti o i curdi, ha aggiunto il vescovo. Molte di queste persone hanno lasciato il paese molti anni fa e se tornassero troverebbero altre persone che vivono nelle loro case, che coltivano i loro orti.
“Se ognuno dei 25 paesi dell’Unione Europea accettasse 10 famiglie il problema sarebbe risolto e non ci sarebbero più rifugiati cristiani iracheni” ha precisato il vescovo, “se 10 fossero troppe, potrebbero accoglierne 5, anche questo aiuterebbe.”
In Turchia le Nazioni Unite dirigono i rifugiati verso Isparta o Kastamonu, posti dove nessuno parla arabo, dove non ci sono cristiani, ha affermato Monsignor Yusuf Sağ, il sessantottenne patriarca vicario della Chiesa Siro Cattolica in Turchia.
“Una donna mi ha detto di aver dovuto mimare l’atto della deposizione di un uovo da parte di una gallina per riuscire ad averne uno. A Burdur, per esempio, non c'e nessuno che parli arabo e meno che mai assiro. E’ già dura per un uomo da solo, figuriamoci per chi ha famiglia.” L’assiro è una variante moderna dell’aramaico, la stessa lingua parlata da Gesù Cristo.


A braccia aperte
Sağ ha 174 famiglie nella sua congregazione della Chiesa del Sacro Cuore a Gumussuyu, tutti cittadini turchi, anche se rifugiati dall’Iraq e da altri paesi di lingua araba arrivano da lui che parla la loro stessa lingua. Nativo di Mardin, Sağ parla infatti un arabo fluente.
“Iracheni musulmani vengono da me, ed io li aiuto, così come i somali, i sudanesi ed i palestinesi” ha dichiarato il vescovo. “Tre egiziani sono arrivati la scorsa settimana. Conosco i loro problemi e facciamo del nostro meglio per dar loro dei vestiti invernali, del cibo come olio, riso e fagioli, ma non è abbastanza. Alcune di queste famiglie sono qui da 6 o addirittura 9 anni.”

Dimenticare la religione, è una questione di diritti umani, secondo Monsignor Sağ.
“I bambini non vanno a scuola, lo fanno solo ad Istanbul grazie alla Caritas. Io ringrazio gli Stati Uniti e le Nazioni Unite, ma i rifugiati iracheni in Turchia soffrono molto più di quelli in Giordania o in Siria, dove almeno la popolazione parla la stessa lingua e dove ci sono più chiese. Qui non li inviano a Mardin, che sarebbe più logico, ma in posti come Burdur o Isparta.”
Le chiese trovano alle donne un impiego come domestiche nelle case di Istanbul per 50 lire turche al giorno, forse 100 nei casi di datori di lavoro generosi, ma è molto difficile vivere senza nessun diritto al lavoro.
“Che cosa pensa il governo turco? Sono persone che soffrono” ha aggiunto Monsignor Sağ. “I bambini si mettono nei guai con la droga o con le bande. Non vogliamo nulla per noi ma questa gente ha bisogno di aiuto. Io dico loro di continuare a pregare, forse sono stanchi di farlo ma Dio provvederà. Parliamo di fede, di Gesù, della Bibbia, ma la fede degli uomini ha un limite. Non tutti sono capaci di avere la fede di Giobbe, e persino lui aveva avuto dei dubbi.”
Permettere a questa gente di rimanere ad Istanbul vorrebbe dire aiutarli, secondo molti degli intervistati. In città possono avere una comunità di riferimento, aiuto dalla chiesa, assistenza medica. In questo modo Monsignor Sağ pronuncia parole opposte a quello pronunciate da Mosè: Lasciate che la mia gente rimanga!
“Non lo voglio come sacerdote ma come essere umano, e non voglio soldi dallo stato, ma qui questi rifugiati possono imparare l’arabo e l’inglese, mentre fuori Istanbul non c’è sostegno materiale e morale. Questi sono i principi dell’Islam, ma sono solo parole, in pratica il governo turco non fa differenze tra rifugiati cristiani e musulmani, ed entrambi subiscono un trattamento inumano. Noi possiamo fare poco, ed è una tragedia umanitaria.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

2 dicembre 2006

Ambasciatore iracheno presso la Santa Sede non critica gli USA, due vescovi lo fanno.


L’Ambasciatore iracheno presso la Santa Sede ha riconosciuto la situazione di violenza crescente nel suo paese, ed ha rivolto un appello perchè la comunità internazionale dia un aiuto alla sua stabilizzazione.

"Siamo molto preoccupati" circa il crescente numero di vittime civile, ha dichiarato Albert Yelda in un’intervista rilasciata il 30 di novembre al Catholic News Service. "Arrivare alla democrazia ed alla stabilità nel paese è un processo lungo, ed abbiamo bisogno dell’aiuto delle forze multinazionali che stanno svolgendo un ottimo lavoro."
Yelda ha anche ammesso l’esistenza di un processo di pulizia etnica in atto nel paese: "I cristiani hanno paura per le proprie vite così come le altre minoranze intrappolate in questo processo."
"Gli elementi di destabilizzazione sono persone che hanno perso la propria influenza quando Saddam Hussein fu rovesciato nell’invasione a guida USA del 2003" ha aggiunto "ed il regime delle fosse comuni è ancora all’opera, forse con una dimensione religiosa" intendendo che la violenza, le uccisioni e le minacce sono ora basate sulle divisioni religiose piuttosto che sul capriccio personale di un dittatore.
"E’ molto importante perseguire un progetto di riconciliazione nazionale e che tutte le fazioni ed i partiti diventino parte del processo politico" ma "la costituzione di un governo democratico, federale e laico richiederà molto tempo e molte idee diverse" ha aggiunto Yelda facendo riferimento anche alla questione degli sfollati interni. (Secondo le statistiche delle Nazioni Unite alemno 2500 famiglie risultano dislocate in 13 delle 18 province irachene) "Durante i 35 anni di regime di Saddam Hussein 4 milioni di iracheni sono fuggiti, ora, a causa della guerra e della instabilità le forze del male sono di nuovo al lavoro 24 ore su 24, per destabilizzare (il paese) e fare altrettanto danno per cercare di recuperare il potere."
"La presenza di una forza militare non è la causa della violenza in Iraq" ha dichiarato Yelda, "sicuramente nessun iracheno vuole che il suo paese sia occupato da una potenza straniera, e credo che siano stati commessi molti errori quando l’Iraq fu liberato, ma criticando questi errori non otterremo nulla."

Due vescovi caldei residenti negli Stati Uniti hanno però una visione più cupa della situazione irachena.

"La situazione è sotto tutti gli aspetti terribile. E’ una guerra civile o è il suo inizio" ha dichiarato Monsignor Ibrahim Ibrahim dell’Eparchia Caldea di San Tommaso Apostolo, Southfield, Michigan, un sobborgo di Detroit. "L’intero paese è in difficoltà – musulmani, cristiani, curdi."
Monsignor Ibrahim ha confermato che i cristiani stanno lasciando i loro quartieri e le città in cui vivono per trasferirsi nel Kurdistan – la regione irachena settentrionale – o nella Piana di Ninive. "Non possono lasciare il paese perchè non hanno i mezzi per trasferirsi nei paesi limitrofi." Monsignor Ibrahim ha anche aggiunto, nel corso di un’intervista telefonica del 30 novembre, che il governo USA ha "la maggiore responsabilità per il deterioramento della situazione."
"Ad esso (il governo USA) spetta il compito di garantire la sicurezza, della ricostruzione, delle riforme." Secondo il diritto internazionale, ha ricordato il vescovo, "il paese occupante è responsabile di quello occupato" ma "gli iracheni non sono in grado di decidere da soli, e se anche potessero non sarebbero liberi di farlo. Gli americani devono dare la loro approvazione. Che cosa significa ciò? Che gli americani hanno l’ultima parola su qualsiasi decisione."

"E’ tragico e doloroso" ha dichiarato Monsignor Sarhad Y. Jammo, della Eparchia Caldea di San Pietro Apostolo, in El Cajon, California, al Catholic News Service il 30 novembre.
"I cristiani iracheni non hanno mezzi per sopravvivere, persino a Baghdad o in altre città. Non possono andare al lavoro o a scuola. Sono minacciati nei loro quartieri, nelle loro case. Vengono rapiti per il riscatto, per essere torturati, perchè si convertano all’Islam. Vengono uccisi. A volte vengono minacciati di morte se non si convertono, o devono pagare i loro vicini per il solo fatto di essre cristiani."
"Sebbene penso che nessuno avrebbe obiettato al cambio di regime" ha aggiunto Monsignor Jammo "il suo collasso non è stato un successo. Non so se la pianificazione sia stata completamente inadeguata o mal disegnata."

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

1 dicembre 2006

Baghdad Jadida: la nuova Dora dei cristiani di Baghdad

Nella Baghdad pre-bellica non esisteva una zona dove i cristiani fossero obbligati o scegliessero di vivere. Vero è che, per tradizione, essi tendevano a concentrarsi in alcuni quartieri perché, ad esempio, vi erano i loro luoghi di culto, perché famiglie da più tempo in città potevano assicurare una sorta di “rete di accoglienza” per gli immigrati dal resto del paese, perché è nella tradizione del paese che i figli sposati scelgano di vivere non lontano dai genitori, perché i quartieri delle grandi città tendono generalmente ad essere omogenei per quanto riguarda il ceto sociale dei suoi abitanti ed i cristiani, molti commercianti, impiegati e liberi professionisti, non facevano eccezione a questa regola, o perché era più facile in un quartiere di forte presenza cristiana mantenere tradizioni che altrove avrebbero potuto creare problemi come, ad esempio, quella che all’epoca non vedeva nessuna donna cristiana con il velo.
Uno di questi quartieri era Dora, a sud est della città. A Dora c’erano chiese di diverse confessioni, il seminario maggiore caldeo e l’unica facoltà teologica cristiana del paese: il Babel College.
C’erano. Ora non ci sono più.
O meglio, gli edifici ci sono ancora, ma...

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ciò che manca sono i cristiani ormai rimasti in pochissimi ad affrontare la vita quotidiana in una delle zone più pericolose della città per la violenza che impera incontrollata e che fa della comunità cristiana la prima vittima, la più debole.
Dora è ormai off limits per i cristiani impossibilitati a far valere i propri diritti ed a mantenere i propri spazi, presi come sono dal fuoco incrociato delle milizie sunnite e sciite che si contendono il territorio casa per casa, metro per metro, e delle bande criminali che nessuno vuole o può fermare.
Se di Dora, quartiere un tempo anche cristiano, si deve parlare al passato, per altre zone non è così, ma per quanto ancora?
Nella zona est di Baghdad c’è un altro quartiere dove per ora vivono molti cristiani che forse a breve dovranno lasciarlo: Baghdad Jadida, Nuova Baghdad.
Proprio a Baghdad Jadida sono stati trasferiti da Dora il seminario maggiore ed il Babel College, e proprio questa zona sta diventando ogni giorno più “calda.”
Agli innumerevoli atti di violenza che vi si svolgono quotidianamente è necessario aggiungere la denuncia di un sacerdote (il cui nome viene taciuto per ragioni di sicurezza dalla fonte che ha riportato la notizia: http://www.aina.org/news/20061130101108.htm) che ha riferito di una fatwa emessa dal leader sciita Muqtada Al Sadr (che in quella zona controlla molte moschee) e che obbliga tutte le donne, anche le cristiane, ad indossare il velo fuori casa.
La fatwa è il pronunciamento da parte di un rappresentante del clero musulmano, sunnita o sciita che sia, su un determinato argomento, e molto spesso si è tradotta in Iraq nell’uccisione del colpevole di avere trasgredito all’ordine impartito. Per questa ragione una fatwa viene presa sul serio, e per questa ragione la preoccupazione a Baghdad Jadida sta aumentando.
La fatwa sul velo, infatti, per adesso riguarda solo quel quartiere, dichiara il sacerdote, e coinvolge quindi direttamente le ormai poche donne cristiane che si rifiutano di indossarlo per poter immaginare ancora una parvenza di normalità che, forse, sta per sparire da Baghdad Jadida.
La nuova Dora.