"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

5 dicembre 2006

Le parole del Vescovo Ausiliare di Baghdad confermano il peggioramento della situazione dei cristiani a Baghdad Jadida

Fonte: SIR

A proposito del rapimento di Padre Sami Al Rais, Monsignor Shleimun Warduni, Vescovo Ausiliare di Baghdad ha dichiarato ieri all’agenzia Sir: “Lo hanno preso questa mattina verso le 9.30 a pochi passi dalla chiesa di Mar Khorkhis, a Baghdad Jadida.” Le parole del presule confermano come la situazione della zona di Baghdad Jadida stia peggiorando di giorno in giorno per la comunità cristiana che ci vive o che la frequenta per lavoro e studio.

Baghdad Jadida: la nuova Dora dei cristiani di Baghdad
, è infatti il titolo di un precedente post che esamina come il processo di espulsione della comunità cristiana stia seguendo uno schema che prevede la “pulizia” di quartiere per quartiere, proprio come succede per i sunniti che vivono nei quartieri che gli sciiti vogliono egemonizzare, e viceversa. L’unica differenza è che i cristiani non hanno a Baghdad un’area di sicurezza dove potersi rifugiare.
Se Baghdad Jadida diventasse per loro invivibile, come è già Dora, dove potrebbero andare?
A Karrada? A Mansour? E chi assicurerà loro protezione da chi, sarebbe ora di ammetterlo, li vuole “fuori” da Baghdad? Per quanto ancora riusciranno a resistere migrando di zona in zona? E quanto dovranno pagare in termini di vite e di dolore? Ma soprattutto, hanno la minima possibilità di sopravvivere in una città che si sta stringendo attorno a loro e che finirà per stritolarli?

Il Patriarcato Caldeo di Baghdad conferma il rapimento di un altro sacerdote.

Fonte: Asia News

Un altro sacerdote caldeo è stato rapito ieri a Baghdad. Padre Samy Al Raiys, la cui scomparsa è stata annunciata ieri sera, è nelle mani di alcuni sconosciuti che lo hanno prelevato insieme alla sua auto vicino casa. A parlare di “rapimento” è il Patriarcato caldeo di Baghdad, che sul suo sito internet lancia un appello ai sequestratori: “Vi preghiamo di non fargli del male e di trattarlo bene”. “Consegniamo p. Samy - si legge sempre sul sito - nella mani del Signore e della Provvidenza, chiedendoGli di aiutarci a salvare l'Iraq da questi rapimenti che terrorizzano tutti, grandi e bambini”. “Invochiamo la Madonna - conclude il testo - perché lo salvi e lo faccia ritornare presto alla sua chiesa e al servizio dei fedeli”.
Padre Samy era a pochi metri da casa, in via Sinaa, a Baghdad, quando alcuni sconosciuti lo hanno rapito. Da allora non si hanno notizie di lui, né è stata ritrovata la sua auto. Il sacerdote, rettore del Seminario maggiore del Patriarcato caldeo, si stava recando alla sua chiesa di Mar Khorkhis (San Giorgio), dove di recente era stato trasferito in seguito alla chiusura del seminario stesso per questioni di sicurezza. Padre Samy è anche docente di Morale al Babel College, la facoltà di teologia nella capitale irachena. Tra pochi giorni – raccontano membri della comunità cristiana locale – il rettore doveva presenziare all’apertura del nuovo anno accademico del seminario, che ora non si terrà. Domani il seminario “Simon Pietro”, chiuso per la crescente insicurezza a Baghdad, avrebbe ripreso le lezioni “per una settimana di prova”. “Ora – dicono alcuni dei pochi studenti rimasti – il seminario avrà altri problemi, perché oltre alla mancanza di sicurezza e alle minacce deve sostenere l’assenza del suo rettore”.
Il rapimento di p. Samy arriva ad appena una settimana dal rilascio di p. Doglas Yousef Al Bazi, parroco caldeo di S. Elia a Baghdad, ancora in convalescenza dopo 9 giorni di sequestro.

4 dicembre 2006

Scomparso un altro sacerdote caldeo a Baghdad: Padre Sami Al-Rais

Fonti di Baghdad hanno confermato stamani la scomparsa di Padre Sami Al-Rais lungo il tragitto che stava percorrendo dalla zona di Camp Sarah alla chiesa di Mar Khorkhis, a Baghdad Jadida.
Padre Sami Al-Rais, Rettore del Seminario Maggiore Caldeo a Dora e parroco della Chiesa di San Pietro e Paolo ad esso annessa, avrebbe dovuto presenziare tra due giorni all'inaugurazione dell'Anno Accademico del Babel College, l'unica facoltà teologica cristiana in Iraq, che proprio da Dora, a causa della situazione di insicurezza, è stato trasferito presso la chiesa di Mar Khorhis.
La cerimonia di inaugurazione del Babel College è stata ovviamente rimandata a data da destinarsi.
Se si trattasse di un rapimento - ancora ufficialmente non lo è - seguirebbe di soli 7 giorni il rilascio di un altro sacerdote caldeo rapito a Baghdad il 19 di novembre, Padre Douglas Al Bazi. Si tratterebbe quindi del quinto sacerdote caldeo sequestrato a Baghdad a partire dal luglio del 2006. La comunità caldea aveva già dovuto sopportare il sequestro di due monaci nel 2005, e quella siro-cattolica il rapimento del Vescovo di Mosul, Monsignor George Qas Musa, sempre nel 2005. Tutti questi sequestri si sono risolti con il rilascio degli ostaggi mentre destino peggiore è toccato a Padre Paul Iskandar, sequestrato ed ucciso a Mosul lo scorso ottobre.

3 dicembre 2006

"Ci siamo e ci resteremo"


Mentre il Papa cerca di costruire ponti con la Turchia la precaria situazione dei cristiani iracheni peggiora.

Jonathan Steele, Mosul
Giovedì 30 Novembre 2006

Qualsiasi ripercussione abbiano avuto gli incendiari commenti di Benedetto XVI nei confronti dell’Islam e del profeta Maometto per la sua immagine in Turchia, essi sono stati devastanti in Iraq.
La piccola comunità cristiana ora vive nella paura dopo le minacce degli estremisti di uccidere tutti i cristiani a meno che il Papa non avesse porto le sue scuse. Le chiese hanno cancellato le funzioni e le riunioni dei fedeli si sono ridotte perché la gente non esce di casa.
Secondo l’ultimo rapporto bimestrale sui diritti umani della missione delle Nazioni Unite in Iraq, alcune chiese a Baghdad hanno affisso dei cartelli per dissociarsi dalla citazione fatta dal Papa a settembre di un imperatore bizantino medioevale che aveva affermato che l’Islam non aveva portato alcun bene al mondo.

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Le più antiche chiese cristiane irachene si trovano a Mosul, costruite vicine l’una all’altra nella città vecchia su una collina sul Tigri. Esse hanno sopportato le reazioni più violente. Alcuni razzi sono stati sparati verso la chiesa caldea dello Spirito Santo ed una bomba è stata piazzata presso la sua porta principale. Spari sono stati diretti verso un convento di suore domenicane e la chiesa di Al-Safena.
Paolos Eskander, un sacerdote siro ortodosso, è stato sequestrato all’inizio di ottobre, ed alla sua chiesa è stato chiesto di affiggere dei cartelli di dissociazione dalle parole del Papa, così come un riscatto.
Sebbene la chiesa abbia prontamente acconsentito alla prima richiesta, due giorni dopo il sequestro è stato ritrovato il corpo decapitato del sacerdote con evidenti segni di tortura, e prima che il riscatto fosse pagato.
I cristiani del nord dell’Iraq erano sotto pressione già prima dei mal interpretati commenti papali. Migliaia di loro sono fuggiti negli ultimi mesi verso la Siria o verso la regione autonoma del Kurdistan, a nord. Ogni città o villaggio cristiano nella Piana di Ninive ad est di Mosul ora ha guardie armate.
“Rispondono a me” ha dichiarato Sarkis Aghajan, assiro e maggior leader politico cristiano nel nord. Da Irbil, Aghajan lavora anche come uno dei due ministri delle finanze del governo regionale curdo. “Nessuno, né curdo né arabo, può vietarci di creare una tale forza, neanche gli americani. Quando ci uccidevano e decapitavano nessuno ci ha protetto.”

Gli assiri si considerano come gli abitanti originari dell’Iraq. I loro avi costruirono Ninive, Babilonia e le altre grandi città della Mesopotamia. Essi furono anche i primi dell’area a convertirsi alla cristianità e la loro lingua, anche oggi, è l’aramaico.
L’ultima ondata di persecuzione segue un percorso già noto. “Siamo stati massacrati per duemila anni. Ci hanno sempre accusati di essere agenti dell’occidente” afferma Aghajan. L’attuale tentativo di espellerli da Mosul non è altro che il quinto in meno di un secolo, aggiunge.
Le forze armate irachene distrussero molti villaggi cristiani nel Kurdistan nel 1933, costringendo migliaia di persone a fuggire verso la Siria. La guerra di Baghdad contro i curdi significò tre ondate di violenza culminate nella famosa campagna di Anfal per la quale Saddam Hussein è ora sotto processo a Baghdad.
Questa volta, dice Aghajan, i cristiani non si faranno cacciare. Riferendosi alle guardie armate che le sue chiese hanno reclutato – Aghajan non ama il termine milizie – egli dice: “Ci siamo e ci resteremo.”
Le sue coraggiose parole arrivano però tardi. La comunità cristiana irachena contava 1.800.000 persone nel 1980, all’inizio della guerra contro l’Iran. Nell’aprile del 2003, quando l’invasione a guida USA ha rovesciato Saddam Hussein era scesa, secondo Aghajan, a 800.000 persone. Da allora la mancanza di leggi, le autobomba, ed il conflitto settario l’hanno ridotta a 500.000 persone delle quali 250.000 vivono a Baghdad.
I cristiani gestivano di solito le rivendite di alcolici, ma a Bassora ed in altre città sciite del sud, così come nei sobborghi sciiti della capitale dove i partiti islamici sono forti, sono stati costretti a chiudere i negozi. Molti cristiani lavoravano nelle basi americane come personale addetto alle pulizie o alle lavanderie perché gli americani percepivano i non musulmani come meno rischiosi, ma questo ne fece bersagli degli insorti che li consideravano “collaboratori.”
Come i cristiani di Mosul molti di quelli di Baghdad sono fuggiti nel Kurdistan. Nella chiesa di Saint Joseph ad Irbil, piena di fedeli alla funzione settimanale del venerdì pomeriggio, poche famiglie hanno voglia di parlare e si defilano quando ci si presenta come giornalisti. Un venditore di auto di Mosul che ora gestisce un piccolo negozio di abbigliamento vicino alla chiesa ha accettato di parlare mantenendo l’anonimato. “Abbiamo lasciato la nostra casa di corsa e non abbiamo portato via neanche un mobile. Una bomba era esplosa proprio fuori di casa.” Un fatto successo poco prima dei famosi commenti del Papa. Ora l’uomo è felice di avere lasciato Mosul in tempo

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

Cambierà qualcosa per i cristiani iracheni in Turchia dopo il viaggio del Papa?


La situazione dei cristiani iracheni in Turchia è ancora difficile, lo testimoniano le parole di due vescovi e dei rappresentanti della Caritas ad Istanbul. Monsignor François Yakan vescovo caldeo, e Monsignor Yusuf Sağ, vescovo siro cattolico, descrivono una situazione disastrosa e si appellano alla comunità europea perchè accolga le famiglie dei rifugiati cristiani iracheni.

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I richiedenti asilo cristiani iracheni in Turchia soffrono dimenticati e poveri.
Domenica 3 dicembre 2006

MICHAEL KUSER
ISTANBUL – Turkish Daily News
I rifugiati iracheni vivono in Turchia per anni in attesa di emigrare verso altri paesi, eppure non hanno nessun diritto a lavorare e soffrono dal punto di vista psicologico dall’essere costretti a vivere dove il governo turco decide, spesso in luoghi dove non possono godere del supporto della propria comunità.
“Nessuna porta si apre per loro” ha dichiarato Monsignor François Yakan, 48 anni, che dirige la Chiesa Cattolica Caldea in Turchia dal suo ufficio di Istanbul. “Il vecchio regime in Iraq non andava bene, ma ora la situazione è peggiorata, ogni giorno veniamo a sapere di 5 o 6 persone, parenti di qualcuno della nostra comunità di Istanbul, uccise nel paese.”
Il vescovo è nato nella regione di Hakkari, ha studiato e frequentato il seminario in Francia, ed è tornato in Turchia sette anni fa come Vicario Patriarcale dei Caldei. Guida il suo piccolo gregge di fedeli da un ufficio ad Istanbul dove celebra la Santa Messa in una piccola chiesa che prima apparteneva ai cattolici bizantini e che si trova di fronte al consolato britannico. Una parte della comunità caldea frequenta invece una cappella più grande nei sotterranei della Chiesa di Sant’Antonio nella zona di Istiklal Caddesi.
“Questi rifugiati soffrono di molti problemi psicologici” dichiara Monsignor Yakan, “rimangono qui da uno fino ad undici anni e non hanno assistenza sanitaria, permessi di lavoro e diritto allo studio. Gli europei non si interessano della sorte di questa gente, eppure parlano di diritti umani e del loro essere cristiani.”

I numeri
L’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) che opera su incarico del governo turco nell’assistenza dei rifugiati e di coloro che chiedono asilo, stima che almeno un milione di iracheni sono fuggiti dalla guerra in Iraq.
Mentre la maggior parte dei rifugiati iracheni vive in Siria o in Giordania, coloro che arrivano in Turchia sono obbligati per legge a registrarsi presso gli uffici della polizia entro 10 giorni dal loro arrivo ed a richiedere agli uffici dell’UNHCR un documento che certifichi lo status di rifugiati. Fino al rilascio eventuale del documento essi sono considerati come richiedenti asilo, mentre coloro che non si registrano o non fanno domanda di asilo rimangono immigrati senza documenti
Sfortunatamente, da quando è iniziata la guerra nel 2003 l’UNHCR ha sospeso i normali procedimenti applicati ai richiedenti asilo iracheni. Ottenere il permesso di emigrare in un paese terzo non era facile per loro neanche prima del 2003, ma ora è praticamente impossibile tranne che nei casi più estremi, o nei casi in cui i programmi umanitari di paesi come gli Stati Uniti, l’Australia ed il Canada prevedano il ricongiungimento familiare.
Il Ministero degli Interni turco stima che circa 90.000 persone sono entrate illegalmente nel paese lo scorso anno, ma non fornisce dati sulla loro nazionalità. A settembre del 2006 407 iracheni hanno chiesto asilo presso gli uffici dell’UNHCR in Turchia.
“Ogni categoria di persone presenta domanda di asilo, ma noi non consideriamo la loro religione” ha dichiarato Metin Corabatir, portavoce dell’UNHCR ad Ankara. In questo modo nessuno sa quanti iracheni sono entrati in Turchia senza permesso, o in che percentuale essi siano cristiani i musulmani.

Il sostegno della propria comunità
I rifugiati iracheni cristiani ad Istanbul sono per la maggior parte cattolici caldei. Come altri rifugiati, i richiedenti asilo e gli immigrati senza documenti, essi sono stati sradicati dalle loro case e devono cavarsela in un paese straniero. Coloro costretti a vivere fuori Istanbul devono vivere senza il sostegno della propria comunità che è di importanza fondamentale per il benessere delle persone.
L’agenzia vaticana Caritas gestisce alcuni programmi di sostegno tra cui quello di una scuola per bambini iracheni ad Istanbul, vicina alla sua sede ad Harbive.
“Ci concentriamo sui richiedenti asilio iracheni che cercano il nostro aiuto” ha dichiarato il portavoce della Caritas Tülin Türkcan. “E’ un piccolo aiuto e le nostre possibilità sono limitate. Io posso parlare degli Assiri e dei Caldei, perché sono cristiani iracheni che vengono da noi, non dei Curdi o dei Turcomanni. A volte anche degli africani vengono a cercare abiti o assistenza medica. L’ignoranza è un problema perché di solito una persona del Bangladesh non sa cosa sia l’asilo, ed è un problema farlo capire.”
Papa Giovani Paolo II nel 1991 ordinò alla Caritas di Istanbul di coordinare gli aiuti per il mezzo milione di rifugiati iracheni che avevano oltrepassato la frontiera turca per fuggire dalla Guerra del Golfo.
“La Caritas ha notizie solo delle 500 persone che si sono registrate presso i suoi uffici” ha detto Monsignor Yakan. “Fino al mese scorso qui c’erano 3800 persone. Man mano che la guerra in Iraq aumenta di intensità il numero sale..”

I casi estremi
La Caritas non ha uno status ufficiale, ma l’organizzazione che Monsignor Yakan ha creato sei mesi fa – la Chaldean Assyrian Refugee Aid Association (associazione di aiuto per i rifugiati assiro caldei) ha l’identità legale per aiutare la comunità di rifugiati cristiani iracheni anche se non riceve finanziamenti né dal governo turco né dal Vaticano.
“Ciò di cui abbiamo bisogno è un’agenzia statale responsabile per la comunità dei rifugiati ad Istanbul, cristiani, musulmani o buddisti che siano” ha aggiunto Monsignor Yakan. “Ho compiuto delle visite pastorali a Konya, Kayseri, Burdur ed Isparta, dovunque queste persone siano state mandate, ma io sono solo in Turchia. Attraverso la fondazione della chiesa aiutiamo le vedove e le persone in gravi difficoltà, ma per quanto riguarda il loro ritorno in Iraq è impossibile pensarci.”
I cristiani non hanno un’area propria in Iraq, come invece hano i sunniti, gli sciiti o i curdi, ha aggiunto il vescovo. Molte di queste persone hanno lasciato il paese molti anni fa e se tornassero troverebbero altre persone che vivono nelle loro case, che coltivano i loro orti.
“Se ognuno dei 25 paesi dell’Unione Europea accettasse 10 famiglie il problema sarebbe risolto e non ci sarebbero più rifugiati cristiani iracheni” ha precisato il vescovo, “se 10 fossero troppe, potrebbero accoglierne 5, anche questo aiuterebbe.”
In Turchia le Nazioni Unite dirigono i rifugiati verso Isparta o Kastamonu, posti dove nessuno parla arabo, dove non ci sono cristiani, ha affermato Monsignor Yusuf Sağ, il sessantottenne patriarca vicario della Chiesa Siro Cattolica in Turchia.
“Una donna mi ha detto di aver dovuto mimare l’atto della deposizione di un uovo da parte di una gallina per riuscire ad averne uno. A Burdur, per esempio, non c'e nessuno che parli arabo e meno che mai assiro. E’ già dura per un uomo da solo, figuriamoci per chi ha famiglia.” L’assiro è una variante moderna dell’aramaico, la stessa lingua parlata da Gesù Cristo.


A braccia aperte
Sağ ha 174 famiglie nella sua congregazione della Chiesa del Sacro Cuore a Gumussuyu, tutti cittadini turchi, anche se rifugiati dall’Iraq e da altri paesi di lingua araba arrivano da lui che parla la loro stessa lingua. Nativo di Mardin, Sağ parla infatti un arabo fluente.
“Iracheni musulmani vengono da me, ed io li aiuto, così come i somali, i sudanesi ed i palestinesi” ha dichiarato il vescovo. “Tre egiziani sono arrivati la scorsa settimana. Conosco i loro problemi e facciamo del nostro meglio per dar loro dei vestiti invernali, del cibo come olio, riso e fagioli, ma non è abbastanza. Alcune di queste famiglie sono qui da 6 o addirittura 9 anni.”

Dimenticare la religione, è una questione di diritti umani, secondo Monsignor Sağ.
“I bambini non vanno a scuola, lo fanno solo ad Istanbul grazie alla Caritas. Io ringrazio gli Stati Uniti e le Nazioni Unite, ma i rifugiati iracheni in Turchia soffrono molto più di quelli in Giordania o in Siria, dove almeno la popolazione parla la stessa lingua e dove ci sono più chiese. Qui non li inviano a Mardin, che sarebbe più logico, ma in posti come Burdur o Isparta.”
Le chiese trovano alle donne un impiego come domestiche nelle case di Istanbul per 50 lire turche al giorno, forse 100 nei casi di datori di lavoro generosi, ma è molto difficile vivere senza nessun diritto al lavoro.
“Che cosa pensa il governo turco? Sono persone che soffrono” ha aggiunto Monsignor Sağ. “I bambini si mettono nei guai con la droga o con le bande. Non vogliamo nulla per noi ma questa gente ha bisogno di aiuto. Io dico loro di continuare a pregare, forse sono stanchi di farlo ma Dio provvederà. Parliamo di fede, di Gesù, della Bibbia, ma la fede degli uomini ha un limite. Non tutti sono capaci di avere la fede di Giobbe, e persino lui aveva avuto dei dubbi.”
Permettere a questa gente di rimanere ad Istanbul vorrebbe dire aiutarli, secondo molti degli intervistati. In città possono avere una comunità di riferimento, aiuto dalla chiesa, assistenza medica. In questo modo Monsignor Sağ pronuncia parole opposte a quello pronunciate da Mosè: Lasciate che la mia gente rimanga!
“Non lo voglio come sacerdote ma come essere umano, e non voglio soldi dallo stato, ma qui questi rifugiati possono imparare l’arabo e l’inglese, mentre fuori Istanbul non c’è sostegno materiale e morale. Questi sono i principi dell’Islam, ma sono solo parole, in pratica il governo turco non fa differenze tra rifugiati cristiani e musulmani, ed entrambi subiscono un trattamento inumano. Noi possiamo fare poco, ed è una tragedia umanitaria.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

2 dicembre 2006

Ambasciatore iracheno presso la Santa Sede non critica gli USA, due vescovi lo fanno.


L’Ambasciatore iracheno presso la Santa Sede ha riconosciuto la situazione di violenza crescente nel suo paese, ed ha rivolto un appello perchè la comunità internazionale dia un aiuto alla sua stabilizzazione.

"Siamo molto preoccupati" circa il crescente numero di vittime civile, ha dichiarato Albert Yelda in un’intervista rilasciata il 30 di novembre al Catholic News Service. "Arrivare alla democrazia ed alla stabilità nel paese è un processo lungo, ed abbiamo bisogno dell’aiuto delle forze multinazionali che stanno svolgendo un ottimo lavoro."
Yelda ha anche ammesso l’esistenza di un processo di pulizia etnica in atto nel paese: "I cristiani hanno paura per le proprie vite così come le altre minoranze intrappolate in questo processo."
"Gli elementi di destabilizzazione sono persone che hanno perso la propria influenza quando Saddam Hussein fu rovesciato nell’invasione a guida USA del 2003" ha aggiunto "ed il regime delle fosse comuni è ancora all’opera, forse con una dimensione religiosa" intendendo che la violenza, le uccisioni e le minacce sono ora basate sulle divisioni religiose piuttosto che sul capriccio personale di un dittatore.
"E’ molto importante perseguire un progetto di riconciliazione nazionale e che tutte le fazioni ed i partiti diventino parte del processo politico" ma "la costituzione di un governo democratico, federale e laico richiederà molto tempo e molte idee diverse" ha aggiunto Yelda facendo riferimento anche alla questione degli sfollati interni. (Secondo le statistiche delle Nazioni Unite alemno 2500 famiglie risultano dislocate in 13 delle 18 province irachene) "Durante i 35 anni di regime di Saddam Hussein 4 milioni di iracheni sono fuggiti, ora, a causa della guerra e della instabilità le forze del male sono di nuovo al lavoro 24 ore su 24, per destabilizzare (il paese) e fare altrettanto danno per cercare di recuperare il potere."
"La presenza di una forza militare non è la causa della violenza in Iraq" ha dichiarato Yelda, "sicuramente nessun iracheno vuole che il suo paese sia occupato da una potenza straniera, e credo che siano stati commessi molti errori quando l’Iraq fu liberato, ma criticando questi errori non otterremo nulla."

Due vescovi caldei residenti negli Stati Uniti hanno però una visione più cupa della situazione irachena.

"La situazione è sotto tutti gli aspetti terribile. E’ una guerra civile o è il suo inizio" ha dichiarato Monsignor Ibrahim Ibrahim dell’Eparchia Caldea di San Tommaso Apostolo, Southfield, Michigan, un sobborgo di Detroit. "L’intero paese è in difficoltà – musulmani, cristiani, curdi."
Monsignor Ibrahim ha confermato che i cristiani stanno lasciando i loro quartieri e le città in cui vivono per trasferirsi nel Kurdistan – la regione irachena settentrionale – o nella Piana di Ninive. "Non possono lasciare il paese perchè non hanno i mezzi per trasferirsi nei paesi limitrofi." Monsignor Ibrahim ha anche aggiunto, nel corso di un’intervista telefonica del 30 novembre, che il governo USA ha "la maggiore responsabilità per il deterioramento della situazione."
"Ad esso (il governo USA) spetta il compito di garantire la sicurezza, della ricostruzione, delle riforme." Secondo il diritto internazionale, ha ricordato il vescovo, "il paese occupante è responsabile di quello occupato" ma "gli iracheni non sono in grado di decidere da soli, e se anche potessero non sarebbero liberi di farlo. Gli americani devono dare la loro approvazione. Che cosa significa ciò? Che gli americani hanno l’ultima parola su qualsiasi decisione."

"E’ tragico e doloroso" ha dichiarato Monsignor Sarhad Y. Jammo, della Eparchia Caldea di San Pietro Apostolo, in El Cajon, California, al Catholic News Service il 30 novembre.
"I cristiani iracheni non hanno mezzi per sopravvivere, persino a Baghdad o in altre città. Non possono andare al lavoro o a scuola. Sono minacciati nei loro quartieri, nelle loro case. Vengono rapiti per il riscatto, per essere torturati, perchè si convertano all’Islam. Vengono uccisi. A volte vengono minacciati di morte se non si convertono, o devono pagare i loro vicini per il solo fatto di essre cristiani."
"Sebbene penso che nessuno avrebbe obiettato al cambio di regime" ha aggiunto Monsignor Jammo "il suo collasso non è stato un successo. Non so se la pianificazione sia stata completamente inadeguata o mal disegnata."

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

1 dicembre 2006

Baghdad Jadida: la nuova Dora dei cristiani di Baghdad

Nella Baghdad pre-bellica non esisteva una zona dove i cristiani fossero obbligati o scegliessero di vivere. Vero è che, per tradizione, essi tendevano a concentrarsi in alcuni quartieri perché, ad esempio, vi erano i loro luoghi di culto, perché famiglie da più tempo in città potevano assicurare una sorta di “rete di accoglienza” per gli immigrati dal resto del paese, perché è nella tradizione del paese che i figli sposati scelgano di vivere non lontano dai genitori, perché i quartieri delle grandi città tendono generalmente ad essere omogenei per quanto riguarda il ceto sociale dei suoi abitanti ed i cristiani, molti commercianti, impiegati e liberi professionisti, non facevano eccezione a questa regola, o perché era più facile in un quartiere di forte presenza cristiana mantenere tradizioni che altrove avrebbero potuto creare problemi come, ad esempio, quella che all’epoca non vedeva nessuna donna cristiana con il velo.
Uno di questi quartieri era Dora, a sud est della città. A Dora c’erano chiese di diverse confessioni, il seminario maggiore caldeo e l’unica facoltà teologica cristiana del paese: il Babel College.
C’erano. Ora non ci sono più.
O meglio, gli edifici ci sono ancora, ma...

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ciò che manca sono i cristiani ormai rimasti in pochissimi ad affrontare la vita quotidiana in una delle zone più pericolose della città per la violenza che impera incontrollata e che fa della comunità cristiana la prima vittima, la più debole.
Dora è ormai off limits per i cristiani impossibilitati a far valere i propri diritti ed a mantenere i propri spazi, presi come sono dal fuoco incrociato delle milizie sunnite e sciite che si contendono il territorio casa per casa, metro per metro, e delle bande criminali che nessuno vuole o può fermare.
Se di Dora, quartiere un tempo anche cristiano, si deve parlare al passato, per altre zone non è così, ma per quanto ancora?
Nella zona est di Baghdad c’è un altro quartiere dove per ora vivono molti cristiani che forse a breve dovranno lasciarlo: Baghdad Jadida, Nuova Baghdad.
Proprio a Baghdad Jadida sono stati trasferiti da Dora il seminario maggiore ed il Babel College, e proprio questa zona sta diventando ogni giorno più “calda.”
Agli innumerevoli atti di violenza che vi si svolgono quotidianamente è necessario aggiungere la denuncia di un sacerdote (il cui nome viene taciuto per ragioni di sicurezza dalla fonte che ha riportato la notizia: http://www.aina.org/news/20061130101108.htm) che ha riferito di una fatwa emessa dal leader sciita Muqtada Al Sadr (che in quella zona controlla molte moschee) e che obbliga tutte le donne, anche le cristiane, ad indossare il velo fuori casa.
La fatwa è il pronunciamento da parte di un rappresentante del clero musulmano, sunnita o sciita che sia, su un determinato argomento, e molto spesso si è tradotta in Iraq nell’uccisione del colpevole di avere trasgredito all’ordine impartito. Per questa ragione una fatwa viene presa sul serio, e per questa ragione la preoccupazione a Baghdad Jadida sta aumentando.
La fatwa sul velo, infatti, per adesso riguarda solo quel quartiere, dichiara il sacerdote, e coinvolge quindi direttamente le ormai poche donne cristiane che si rifiutano di indossarlo per poter immaginare ancora una parvenza di normalità che, forse, sta per sparire da Baghdad Jadida.
La nuova Dora.


29 novembre 2006

Bentornato Padre Douglas!

La Chiesa Caldea ed il suo rito nel Viaggio Apostolico di Sua Santità Benedetto XVI in Turchia (28 novembre - 1 dicembre 2006)

Fonte: Sito Ufficiale del Vaticano

Il viaggio del Santo Padre Benedetto XVI in Turchia è un viaggio pastorale, ecumenico ed all’insegna del dialogo con il mondo islamico. In quanto pastorale esso prevede l'incontro con le diverse comunità cattoliche del paese tra le quali è quella caldea:
Un viaggio pastorale
La Chiesa cattolica di Turchia, nelle sue espressioni rituali diverse (latina, armena cattolica, siro cattolica, caldea) costituisce una piccola minoranza all’interno di un mondo musulmano prevalentemente sunnita. In continuità con l’apostolo Pietro che da Roma indirizzò una lettera (1 Pietro) alle comunità cristiane in diaspora dell’attuale Turchia, anche il suo successore s’indirizza alle stesse comunità facendo ad esse dono, non solo della sua parola, anche della sua presenza. Pietro invitava i cristiani di queste terre “a dare ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15). Nel presente momento storico, che ha visto il sorgere e l’affermarsi di forme d’intolleranza religiosa, Papa Benedetto XVI, mediante l’annuncio della Parola e la celebrazione dei Sacramenti, viene a confermare la comunità cattolica di Turchia nella fedeltà a Cristo e nella speranza in Lui.
Le celebrazioni dell’Eucaristia con i fedeli cattolici di Turchia sono due. La prima ha luogo presso il santuario mariano nazionale di Meryen Aria Evi (Casa della Madre Maria), ad Efeso, città in cui il concilio del 431 proclamò la sua divina maternità, ma anche dove ‑ secondo una pia tradizione ‑ Maria sarebbe vissuta per un certo tempo insieme con San Giovanni. Il santuario è punto d’incontro e di preghiera per cristiani e per musulmani che in Maria riconoscono la madre sempre vergine di Gesù eletta da Dio per il bene dell’umanità.
La seconda celebrazione Eucaristica ha luogo il 1° dicembre ad Istanbul nella Chiesa cattedrale dello Spirito Santo. La partecipazione alla Santa Messa in rito latino di una rappresentanza delle comunità cattoliche di Turchia appartenenti ai diversi riti orientali è sottolineata dalla presenza di espressioni rituali proprie di ciascun Rito.
Il libro liturgico del viaggio
La celebrazione nella Cattedrale dello Spirito Santo (1 dicembre 2006)
La celebrazione nella Cattedrale di Istanbul ha una dimensione pneumatologica esplicitata dalla celebrazione della Messa votiva dello Spirito Santo. Tale dimensione è legata non solo al titolo dello “Spirito Santo” della Cattedrale ma anche dalla particolare configurazione dell’assemblea, convocata per la celebrazione, formata da vari gruppi di persone, di diverse lingue e di diversi riti, ma uniti dalla stessa fede, dalla stessa carità e dallo stesso Spirito.
La celebrazione, sia nell’uso delle lingue che di alcune sequenze rituali, vuole essere l’espressione delle varie componenti della comunità cattolica.
Il formulario della Messa è proprio dello Spirito Santo. Vengono usate le seguenti lingue: il latino, il turco, il francese, il tedesco, il siriaco, l’arabo e lo spagnolo.
Alcune sequenze rituali sottolineano la presenza dei vari riti orientali: l’armeno, il caldeo, il siro. Agli armeni è riservato: il canto d’ingresso e il Sanctus; ai caldei: il Salmo responsoriale e il canto di offertorio eseguito in lingua aramaica; ai siri: la proclamazione del Vangelo secondo le modalità del proprio rito.

Leggi sul sito del Vaticano il programma del Viaggio Apostolico del Santo Padre:

La Chiesa Caldea in Turchia

Fonte: Osservatore Romano su Korazim.org

Una breve storia della presenza della Chiesa Cattolica Caldea in Turchia

Le vicende storiche dell’antica comunità caldea
sempre in comunione con il Successore di Pietro
di
François Yakan
Vicario Patriarcale di Diarbekir, Amida dei Caldei


Gli storici fanno risalire a 4.760 anni prima della nostra era la presenza del popolo assiro-caldeo in questa terra d’Oriente. In questa terra in continuo cambiamento gli assiro-caldei hanno conservato attraverso i secoli, anche negli anni turbolenti, le loro tradizioni e la loro lingua, l’aramaico-siriaco.
La storia della Chiesa caldea in Turchia comincia con la storia del cristianesimo. Non è dunque esagerato dire che è stata la prima Chiesa missionaria, dunque la prima Chiesa cattolica, sempre in comunione con il Successore di San Pietro, anche se in passato le sono stati attribuiti altri titoli e nomi. È stata la Chiesa che, fin dai primi secoli, ha istituito una liturgia propria per la festa di San Pietro e san Paolo.
In passato, vi sono state diverse Diocesi in Turchia, soprattutto nell’Est, e Diarbekir è stata Sede patriarcale. L’Arcidiocesi, fino al 1966, è stata presente nella Turchia orientale, a Diarbekir. A partire da quell’anno, l’Arcivescovado, a seguito degli eventi politici succedutisi nella regione, ha trasferito la sua sede a Istanbul.
La comunità caldea della Turchia ha conosciuto alti e bassi dal 1966 al 1980, e la maggior parte dei caldei dell’Est è andata in esilio all’estero. Negli otto ultimi villaggi nell’Est non è restato un solo cristiano. Attualmente la comunità nazionale consta di 1.000 fedeli, ai quali bisogna aggiungere i numerosi rifugiati provenienti da tutto il Medio Oriente, soprattutto dall’Iraq. È impossibile aggiornare queste cifre in quanto ogni settimana riceviamo decine di nuovi rifugiati spesso traumatizzati, malati, disabili, o vedove con molti figli e senza risorse. Il numero oscilla fra 3.400 e 5.600 persone, a seconda della situazione vissuta in Medio Oriente...

La situazione religiosa
Il lavoro pastorale consiste nei tre campi descritti di seguito. La catechesi dei bambini occupa il primo posto. Per i bambini di nazionalità turca da qualche anno prevediamo un percorso catechetico dalla durata di 4 anni, inter-rituale, e più specificatamente con i siro-cattolici, con la formazione di catechisti (risveglio alla fede, primo, secondo e terzo anno: preparazione alla comunione, studio biblico e formazione di animatori e animatrici). È prevista inoltre la produzione di strumenti catechetici in lingua turca.
Per i bambini dei rifugiati, sono previsti corsi per i catechisti rifugiati in lingua araba e caldea, con l’aiuto dei Padri salesiani. Ogni anno, da 30 a 40 bambini vengono preparati alla prima Comunione. Si tratta di una pastorale adattata alla situazione dei rifugiati che sono sul punto di perdere la speranza poiché si sentono dimenticati da tutti. È veramente urgente trovare soluzioni durature per i cristiani in Iraq.
Nell’insieme, i parrocchiani, che vivono in diverse zone di questa grande città di Istanbul e nella sua periferia, partecipano regolarmente in famiglia alla Messa domenicale.
Celebriamo decine di battesimi e proponiamo ai genitori e alle giovani coppie una preparazione al battesimo della durata di tre mesi, al fine di approfondire il significato del nostro battesimo e della nostra identità di cristiani oggi, in un contesto non cristiano.
Proponiamo anche ai futuri sposi una preparazione al matrimonio, per approfondire il significato di questo sacramento. Purtroppo da qualche anno si sono verificati diversi casi di divorzio. I matrimoni inter-rituali non pongono problemi enormi come in passato.
L’Associazione delle donne, che si riunisce ogni quindici giorni per pregare e ricevere un insegnamento religioso tematico (2000-2001: approfondimento del Vangelo e studio degli evangelisti; 2001-2002: Lettere di san Paolo; 2002-2003: come pregare con il Nuovo Testamento; 2004-2005: Eucaristia; 2006-2007: la carità e la vita cristiana). Abbiamo osservato una vera sete di conoscenza della cultura cristiana da parte dei nostri fedeli in Turchia.
Un anno fa l’Associazione di Aiuto ai Rifugiati è stata riconosciuta dalle autorità turche e aperta a fedeli di diversi riti al fine di soccorrere e difendere le migliaia di rifugiati dimenticati lungo le vie dell’esilio. Per ciò che concerne la collaborazione con i Vescovi di altri riti cattolici, questa avviene secondo i bisogni e in particolare nel corso delle riunioni della Conferenza Episcopale. È naturale e urgente rimettersi in discussione in tutti gli ambiti e vedere come ampliare e portare avanti la Chiesa cattolica in Turchia e adattare i modi di trasmissione della fede ai bisogni e alle mentalità dei nostri giorni, pur restando fedeli alla Sacra Scrittura in questi tempi difficili.

La situazione economica
L’edificio dell’Arcivescovado, del 1874, è stato piano piano ristrutturato. Purtroppo è stato danneggiato dal terremoto del 1999. Abbiamo nuovamente provveduto al restauro, in particolare della copertura del tetto, del sesto piano, dei canali di scolo dell’acqua e anche degli affreschi della cappella, danneggiati dalle inondazioni. Grazie ai doni dei benefattori abbiamo potuto porre rimedio ai danni provocati dal terremoto. Tuttavia nel 2003 l’attentato contro il Consolato britannico ha recato enormi danni alla nostra chiesa e al nostro edificio, e due persone sono state leggermente ferite. L’edificio è stato evacuato ed è rimasto vuoto per diverse settimane. Sono restato da solo a sorvegliare la chiesa demolita, con le sue vetrate rotte e senza protezioni e per un mese ho lavorato alla luce delle candele. Abbiamo lanciato un appello alla solidarietà e i benefattori sono venuti subito in nostro aiuto. La comunità ha preso a prestito la somma mancante per concludere il restauro della chiesa e dell’edificio.
Attualmente noi abbiamo due luoghi di culto a Istanbul: nella cripta della chiesa di sant’Antonio e nella cappella dell’Arcivescovado.
Nell’Est della Turchia la Diocesi comprende diverse antiche chiese storiche, a Diarbarik e a Mardin in particolare, con i loro titoli di proprietà. Le chiese sono però in cattivo stato e hanno bisogno di riparazioni per la salvaguardia di questo patrimonio culturale e religioso. Per tutta la Chiesa cattolica si tratta di una vera posta in gioco per il futuro.
La Diocesi non ha entrate, a parte la questua e le offerte del culto provenienti da un centinaio di famiglie. Ciò non permette neppure di pagare le spese dei due luoghi di culto, il loro mantenimento, il riscaldamento e le piccole riparazioni. Il clero fa fatica a soddisfare le proprie necessità quotidiane e non vi è neppure una previdenza sociale, un sostegno da parte di altri organismi. I parrocchiani fanno il possibile e si organizzano fra loro per soddisfare i bisogni più urgenti e ogni mese attribuiscono una somma simbolica al loro clero. L’intera gestione della Diocesi è affidata all’associazione dei parrocchiani. I conti sono gestiti da un gruppo composto da 12 persone.

La Liturgia
La vita dei nostri fedeli è scandita dalla liturgia, che rivela l’identità dei nostri popoli. Celebriamo sempre nella lingua aramaica, secondo la liturgia assiro-caldea di Addaï e Mari. Ci sforziamo di celebrare una parte della liturgia nella lingua nazionale turca. I santi e i martiri sono venerati e festeggiati come in passato. Il sacramento della penitenza è ancora praticato, ma è in diminuzione. Il sacramento dell’Eucaristia è molto seguito e la festa della Croce riveste grande importanza. Il sacramento del matrimonio è sempre più inter-rituale, il che comporta una preparazione più approfondita. Nelle Chiese orientali è raro amministrare il sacramento del matrimonio a una persona non battezzata.
La mancanza di sacerdoti non può essere colmata dai laici. Fino al 1986 la Diocesi aveva diversi sacerdoti. Con l’esodo dei fedeli, questi sacerdoti si sono recati tutti all’estero e più in particolare in Francia. Forse non è stato fatto tutto il possibile per trattenere questi cristiani a Istanbul. Non si è potuto forse aiutarli dal punto di visto sociale e finanziario.
Dal 2004 sono il solo sacerdote caldeo per tutta la Turchia e per le migliaia di rifugiati disperati che meritano più di tutti protezione e di sentirsi degni. Non riesco ad affrontare, le giornate non sono abbastanza lunghe, la pesante mole di lavoro da svolgere e sempre con urgenza. La Diocesi non ha religiosi ed è urgente che altri sacerdoti vengano qui per recare aiuto.

Una Chiesa missionaria
Si tratta di una Chiesa profondamente missionaria fin dalla sua creazione. Prima di tutto di una Chiesa profondamente cattolica, in quanto è questa Chiesa ad avere annunciato il Vangelo in Medio Oriente, in Armenia, nel Caucaso, in India e persino in Cina. Quest’anima missionaria è sempre viva, continua a donare testimonianze di fede, continua a vivere la "Via Crucis" di Nostro Signore nel tempo presente come è stato in passato. Nella liturgia le preghiere per la missione sono molto importanti.
In Turchia non abbiamo seminari, pertanto ci troviamo a volte di fronte a vocazioni che non sappiamo dove orientare. Per questo è urgente trovare un luogo di studio per queste vocazioni. Nel programma di Educazione nazionale vi è posto solo per l’insegnamento dell’islam e ai nostri bambini cristiani l’insegnamento religioso può essere impartito solo nelle parrocchie nei giorni in cui non vanno a scuola. La cultura cristiana ci manca veramente!
I laici sono particolarmente legati al loro clero. Ci mettono tanta buona volontà per collaborare con noi in tutti gli ambiti: spirituali e materiali. Danno quello che possono e servono ugualmente secondo le loro possibilità. Si è potuto costituire un comitato molto attivo composto da 12 persone. Ci riuniamo una volta al mese o di più se necessario al fine di risolvere alcuni problemi che riguardano l’insieme della Diocesi.
Con i salesiani abbiamo istituito una pastorale rivolta ai rifugiati, agli adolescenti, ai giovani. Si riuniscono ogni settimana. Noi assicuriamo loro una formazione umana e spirituale adatta alla loro età e ai loro bisogni di esiliati. Il nostro fine è di proteggerli, anima e corpo, affinché restino fedeli al loro battesimo. Una riunione di condivisione della Parola e di preparazione alla liturgia e alle celebrazioni si tiene nel centro socio-culturale dell’Arcivescovado, tutti i sabati e le domeniche. S’impartono anche corsi di lingua aramaica.

Ecumenismo
I nostri rapporti con i non cattolici sono buoni. Gli incontri e le riunioni hanno un valore simbolico e non portano a risultati significativi per avvicinare i fedeli di entrambi i credi. Se gli uomini metteranno da parte il loro orgoglio e la loro ideologia, allora l’auspicio del Nostro Salvatore "che tutti siano uno" sarà realizzato. Non è forse questo un compito urgente per i Pastori e per tutti i battezzati del terzo millennio? Di fatto è attraverso l’unità che la pace germina nei cuori degli uomini. Laddove vi è l’unità, vi sarà la pace.

Che cosa fare in futuro?
È difficile parlare del futuro, ma non bisogna incrociare le braccia. In effetti abbiamo una grande responsabilità nel vivere e lavorare in questa regione in cui il cristianesimo è nato, e nel conservare la lingua di Cristo e annunciare le Sue lodi e le Sue meraviglie.
Per questo prima di tutto occorrerebbe creare strutture in loco adatte al popolo e alla sua mentalità per salvaguardare l’identità culturale e religiosa della comunità assiro-caldea. Bisognerebbe creare un centro di accoglienza per i giovani esiliati e per quanti sono nel bisogno e un centro di irradiamento spirituale, per suscitare le vocazioni. Una volta realizzate queste opere, nascerebbe un nuovo slancio per la Chiesa assiro-caldea e per tutta la Chiesa cattolica in Turchia.
"Sia fatta la tua volontà", Signore, donaci al più presto la Tua Pace.

Vescovo caldeo di Baghdad: "Dalle parole del Papa un aiuto per le nostre comunità minacciate"

Fonte: Agensir

Gli inviti al dialogo tra le religioni, alla effettiva libertà religiosa e al rispetto delle minoranze: gli echi della visita di Benedetto XVI giungono anche in Iraq dove le comunità cristiane sono da tempo oggetto di violenze ed attacchi. “Stiamo seguendo il Papa in questo viaggio con le nostre preghiere – afferma al Sir il vescovo ausiliare di Baghdad, monsignor Shlemon Warduni – siamo colpiti dal coraggio dei suoi gesti e della sua testimonianza. Il dialogo ha bisogno di persone come Benedetto XVI i cui richiami possono aiutare a svelenire il clima intorno alle minoranze cristiane e non solo in Iraq. Abbiamo bisogno di gesti e parole di pace. Quelli visti ieri ad Ankara vanno nella giusta direzione: tolleranza, rispetto, bontà e giustizia. Esse offrono un aiuto per le nostre comunità minacciate. Di fronte a questi segni del Papa i veri credenti musulmani non potranno che essere felici e rispondere positivamente. Insieme, cristiani e musulmani possono contribuire alla costruzione di un mondo più giusto e di pace perché solo Dio può fare il bene del mondo”.

26 novembre 2006

Era ora! Ufficialmente in Iraq è "guerra civile." Lo dicono gli studiosi...

Fonte: International Herald Tribune

Ci sono voluti anni, e l'opinione espressa da diversi studiosi, per sapere che l'Iraq non è in un "clima" "sull'orlo" o in "una quasi" guerra civile, ma "è" in guerra civile!
“Se questa non è guerra civile solo Dio sa cos’è una guerra civile” disse l'ex primo ministro iracheno Ayad Allawi ad un mese dai sanguinosissimi scontri che seguirono la distruzione del santuario sciita di Samarra, esprimendo ciò che tutti gli iracheni dicevano ormai già da tempo. Se, infatti, quella che si sta svolgendo in Iraq non è una guerra civile è allora necessario trovare un'altra definizione che esprima l'orrore quotidiano che nessuno sa più come chiamare per non dispiacere il governo iracheno/americano che si rifiuta di adoperarlo per non dovere ammettere il completo fallimento della democratizzazione forzata del paese.
Sarebbe meglio però chiamare le cose con il proprio nome. Gli iracheni lo sanno, lo vivono, ne muiono: è guerra civile! E se qualcuno nel mondo ancora ne dubita ecco accorrere in suo aiuto studiosi americani che lo mettono nero su bianco...
Leggi l'articolo di Edward Wong del New York Times riportato dall'International Herald Tribune...
Sebbene l’amministrazione Bush continui a negarlo, un numero sempre maggiore di studiosi americani ed iracheni, personalità politiche ed analisti, affermano che gli scontri in Iraq soddisfano gli standards di ciò che è definita guerra civile.
La definizione comune di guerra civile segue due principali criteri. Il primo è che i gruppi in lotta devono appartenere alla stessa nazione e devono lottare per il suo controllo politico, per quello di uno stato separatista o per un radicale cambiamento politico. Il secondo è che almeno 1000 persone devono essere morte a causa degli scontri, e di queste almeno 100 di ogni parte in causa.
La maggior parte degli studiosi americani specializzati nello studio delle guerre civili afferma che il conflitto in Iraq è una guerra civile.
“Penso che in questo momento, e per l’immediato futuro almeno, il livello di violenza in Iraq soddisfi i criteri di definizione di guerra civile così come concepiti da ogni essere ragionevole” ha dichiarato James Fearon, studioso di politica della Stanford University che a settembre ha testimoniato al Congresso proprio sulla guerra in Iraq.
Sebbene i termini “guerra civile” abbiano un significato ampio abbastanza da includere molti tipi diversi di conflitti, una delle due parti coinvolte è quasi sempre il governo in carica. Alcuni studiosi affermano quindi che la guerra civile in Iraq è iniziata quando gli americani hanno trasferito la sovranità del paese ad un governo iracheno nominato nel giugno 2004. Quel passo trasformò la guerra anti-USA in una tra gruppi di insorti alla ricerca del recupero del potere per gli arabi sunniti ormai fuori dai giochi politici che si opposero ad un governo guidato dal Primo Ministro Ayad Allawi e sempre più dominato dagli sciiti.
Altri studiosi affermano invece che la guerra civile è iniziata quest’anno, dopo che la distruzione di un venerato santuario sciita a Samarra diede il via ad una catena di assassini per vendetta che in cinque giorni fece centinaia di morti e che continua tuttora. Dopo un mese dalla distruzione Allawi dichiarò che l’Iraq era affogato in una guerra civile: “Se questa non è guerra civile solo Dio sa cos’è una guerra civile.”
Secondo gli studiosi la guerra civile in Iraq contiene elementi sia dell’insorgenza – un gruppo lotta per rovesciare quello che considera un governo nazionale illegittimo – e della guerra settaria – il governo attaccato è guidato dagli sciiti ed opposto dagli arabi sunniti.
In Iraq la violenza settaria e le vendette sunnite-sciite sono diventate il marchio della lotta, ma i cicli della violenza hanno inizio a causa dei capi delle milizie che hanno dei fini politici. L’ex presidente yugoslavo, Slobodan Milosevic, agì in questo modo durante le guerre nei Balcani.
Il conflitto civile in Iraq in molti casi si svolge in aree a popolazione mista sunnita- sciita, incluse le città di Baghdad e Mosul e la provincia di Diyala. Vasta parte del territorio iracheno ha poco a che fare con questa violenza, ma si tratta di aree relativamente omogenee e poco abitate.
I governi coinvolti in guerre civili speso non intendono definirle come tali, in Colombia, ad esempio, si sostenne per anni che i ribelli fossero solo dei banditi.
Alcuni esponenti dell’amministrazione Bush hanno affermato che non avendo – i gruppi di insorti a guida sunnita – una visione politica la definizione di “guerra civile” non è applicabile.
Molti studiosi, al contrario, affermano che lo spargimento di sangue in Iraq ha già messo il paese nella lista dei paesi colpiti da guerra civile nell’ultimo mezzo secolo. Fearon ed il suo collega David Laitin affermano che il numero dei morti per anno in Iraq, con almeno 50.000 uccisi dal marzo 2003, pongono questo conflitto tra le 20 peggiori guerre civili degli ultimi 60 anni, al pari di quelle del Burundi e della Bosnia.
Il presidente ed il primo ministro iracheni evitano di usare i termini “guerra civile,” ma molti iracheni affermano che gli estremisti hanno portato il paese proprio in questa situazione, sebbene i moderati hanno lottato per farlo allontanare dall’abisso.
“Il mondo deve sapere che in Iraq c’è una guerra civile” dice Adel Ibrahim, uno sceicco della tribù a maggioranza sciita dei Subiah, “E’ una guerra civile devastante. I mortai uccidono i bambini nei nostri quartieri. Abbiamo paura di andare ovunque perché se prendiamo l’autobus potremmo essere uccisi. Non sappiamo chi è il nemico e chi è l’amico.”
La carneficina sempre in aumento conferma che si tratta di una guerra civile. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso mercoledì 3709 iracheni sono stati uccisi ad ottobre, il mese peggiore dall’invasione a guida americana, e più di 100.000 fuggono ogni mese verso la Siria o la Giordania.
“E’ stupefacente. Avrebbe dovuto essere definita guerra civile già molto tempo fa, ma ora non so come qualcuno possa ancora non definirla tale “ dice Nicholas Sambanis, professore a Yale e co-editore di “Capire la guerra civile: prove ed analisi”pubblicato nel 2005 dalla Banca Mondiale. “Il livello di violenza è tale da superare la maggior parte della guerre civili avvenute dal 1945 in poi.”
Sempre secondo Sambanis il consenso tra gli studiosi è unanime: “non conosco nessuno che affermi il contrario.”
Gli studiosi americani sono d’accordo sul fatto che ci sono state almeno 100 guerre civili a partire dal 1945. Ai piedi della scala immaginaria di queste guerre c’è quella dell’Irlanda del Nord, e se si calcola il numero dei morti le peggiori sono state quelle in Angola, Afghanistan, Nigeria, Cina e Ruanda.
Gli storici però dissentono sulla definizione di “guerra civile” e se essa possa essere applicata all’Iraq. John Keegan autore britannico di storie di guerra applica la definizione in soli cinque casi, a partire dalla guerra civile inglese del XVII secolo fino a quella libanese dl XX. Il criterio applicato da Keegan include il fatto che i gruppi stanno lottando per ottenere l’autorità nazionale, che hanno capi che pubblicamente denunciano i loro fini e che lottano indossando delle uniformi. L’Iraq, secondo Keegan, quindi, non è in uno stato di guerra civile.
All’opinione di Keegan però si oppone quella di altri studiosi che affermano sia cruciale per i politici e per i media riconoscere il conflitto in Iraq come guerra civile.
“Perché dovrebbe importarci di come essa è definita se tutti siamo d’accordo nel dire che la violenza è inaccettabile?” chiede Laitin, “La mia risposta è che c’è una comunità scientifica che studia le guerre civili, ne comprende le dinamiche e come esse, in genere, vanno a finire. Questo tipo di ricerche ha valore per la nostra sicurezza nazionale.”

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

22 novembre 2006

Minacce ed estorsioni, chiude la Caritas di Mosul

Fonte: Asia News

Il racconto di una delle operatrici: volevano che versassimo soldi per la resistenza all’occupazione Usa; la Chiesa e i cristiani sono il bersaglio preferito di chi vuole arricchirsi in modo facile. Resiste un corso di teologia per laici, che da Mosul verrà trasferito in una zona più sicura...

Leggi il resto dell'articolo su Asia News:
http://www.asianews.it/view.php?l=it&art=7815

Continue intimidazioni e insistenti richieste di versare denaro per finanziare le attività di un gruppo islamico locale, hanno costretto la Caritas di Mosul a chiudere i battenti. A raccontarlo ad AsiaNews è una delle operatrici, ora costrette a lasciare la città per paura di ritorsioni. La donna, che ha chiesto l’anonimato, ha lavorato come ricercatrice sociale presso l’organismo della Chiesa cattolica dal 1995 fino a settembre scorso, quando è cominciata “l’agonia” della Caritas.
“I primi del mese – ricorda – il nostro responsabile ha ricevuto una telefonata a casa da un gruppo islamico, il quale sapeva bene che il telefono del Centro non funziona per un guasto”. La giovane spiega: “Il gruppo non si è identificato con un nome, prima hanno cominciato a recitare un brano dal Corano, dopo ci hanno chiesto di dare loro del denaro per sostenere la resistenza all’occupazione americana dell’Iraq”. Chi parlava ha tenuto a sottolineare che “conosceva perfettamente tutte le attività del Centro, il numero degli impiegati, la loro precisa identità e non voleva sentire storie”. “Noi – continua la donna - abbiamo cercato di spiegare che come Caritas non abbiamo fondi per le nostre attività, se non le donazioni dei fedeli, che ci aiutano a sostenere solo i più bisognosi”. Ma non c’è stato niente da fare: “Ci hanno detto che quello che raccontavamo era falso e che la Chiesa può dare dei soldi, perché la Chiesa è ricca”.
Alla fine dopo numerose telefonate il gruppo islamico ha fissato una scadenza per la consegna di una “somma di denaro più alta possibile”.
Nella settimana in cui si svolgevano le trattative, però, c'è stato il discorso di Benedetto XVI all’Università di Regensburg e le polemiche strumentalizzate sulla sua presunta offesa all’Islam. “Si sono molto arrabbiati - racconta l’operatrice - e ci hanno chiamato chiedendo di parlare con i vescovi della città e dir loro che dovevano disapprovare le parole del Papa in Germania”.
Mentre le minacce si facevano più insistenti il direttore ha detto loro che la Caritas poteva dare solo 1.000.000 di denari iracheni, ma non di più. “Naturalmente non era sufficiente e ci hanno chiesto di aumentare la somma, ma dopo l’ennesimo rifiuto da parte nostra si sono convinti e hanno accettato l’offerta; non abbiamo avuto scelta, ma da allora il Centro ha dovuto chiudere, in queste condizioni era impossibile continuare”.
La Caritas di Mosul, che dall’inizio della guerra non aveva mai interrotto le sue attività neppure un giorno, si occupava soprattutto dei senza tetto e il 90 per cento del suo lavoro interessava la popolazione musulmana. Il lavoro della Caritas continua comunque a Baghdad, nei villaggi cristiani della provincia di Niniveh e nel Kurdistan.
Anche se sempre più provata, la Chiesa irachena non perde la speranza di portare avanti la sua missione. L’insicurezza che regna nella zona ha costretto la diocesi di Mosul a sospendere il corso di teologia per laici che si svolgeva in città. Ma fonti della comunità caldea riferiscono che si tratta solo di un fatto temporaneo, in quanto il corso verrà trasferito in un villaggio vicino e più sicuro.


20 novembre 2006

Baghdad: sacerdote scomparso, si teme il rapimento

Fonte: Asia News

Da ieri mattina non si hanno notizie di p. Doglas, parroco caldeo di S. Elia. Il vescovo ausiliare di Baghdad: “Molto probabile il sequestro”. Si fa concreto il timore che queste iniziative criminali vogliano colpire le personalità religiose più attive, per scoraggiare i cristiani a rimanere in Iraq.
Baghdad (AsiaNews) – A Baghdad i cristiani temono si sia verificato l’ennesimo rapimento di un sacerdote. Padre Doglas Yousef Al Bazy - 34 anni, caldeo - è uscito dalla sua parrocchia ieri mattina e non è ancora tornato a casa...
L’allarme si è rapidamente diffuso in Iraq e nella diaspora tramite Internet ed Sms: i fedeli del giovane prete e i responsabili della Chiesa caldea irachena ritengono “molto probabile” che si tratti di un sequestro. Se così fosse, sarebbe l’ultimo caso di una lunga lista di rapimenti a danni di religiosi cristiani, dettati da moventi non solo di criminalità comune.
Il vescovo ausiliare dei caldei di Baghdad, mons. Shleman Warduni, riferisce ad AsiaNews: “Il patriarca Delly ed io abbiamo attivato i nostri contatti, sperando potessero darci qualche speranza, ma finora non abbiamo avuto risposte. Il rapimento è l’ipotesi più probabile, ma non ci sono conferme”.
Padre Doglas è stato ordinato circa 10 anni fa; mons. Warduni lo definisce come una figura “molto attiva nella diocesi, impegnato soprattutto a fianco dei giovani”. È segretario dell’Istituto per l’insegnamento religioso e anche del Consiglio dei capi delle Chiese a Baghdad. Da pochi mesi gli è stata affidata la parrocchia di S. Elia.
Secondo il vescovo ausiliare, “vi sono tante interpretazioni dietro il rapimento di un cristiano: criminalità, fanatismo religioso, denaro, l’intenzione di creare divisone tra la popolazione”. “Speriamo che chi lo ha preso abbia coscienza - sottolinea il presule - e capisca che noi sacerdoti desideriamo solo portare la Buona novella alla gente e lavorare per il bene di tutti gli iracheni. Siamo per l’unità dell’Iraq e chiediamo di poter operare insieme ai nostri connazionali per ricostruire il nostro Paese e ottenere pace e sicurezza”. Tra la comunità caldea, però, si fa sempre più strada l’idea che minacce e rapimenti non siano condotti in modo indististino, ma “mirino alle personalità più impegnate nella comunità cristiana, le più giovani e le più coraggiose, quasi a monito di chi continua a sperare di poter continuare a vivere in questo Paese”.
Fonti di AsiaNews riferiscono che ormai la situazione nel Paese è “insopportabile”: i cristiani escono raramente di casa, ma non sono gli unici a soffrire. “Nessun luogo è più sicuro - dicono - ormai non si è tranquilli nemmeno sul posto di lavoro: nei mesi scorsi sono stati uccisi dei panettieri a Baghdad solo perché sfornavano un pane tipico romboidale, col vago aspetto di una croce”. In conclusione mons. Warduni lancia un appello ai possibili rapitori di p. Doglas: “Se avete coscienza e credete in Dio, non fategli del male e liberatelo il prima possibile, sano e salvo”.


19 novembre 2006

Rapito un altro sacerdote in Iraq

Padre Douglas Al Bazi è il parroco della chiesa cattolica caldea di Mar Eliya a Baghdad e dalle 10.00 di domenica 19 novembre non ci sono più sue notizie. I suoi cellulari sono staccati e nessuno, neanche al Patriarcato Caldeo, sa niente di lui, che a quell'ora ha lasciato la chiesa in macchina e senza scorta. La notizia, confermata la stessa sera della sua sparizione da una fonte certa, ha gettato nello sconforto la comunità cristiana irachena. Padre Douglas è il quarto sacerdote caldeo rapito a Baghdad nel giro di cinque mesi e, sebbene gli altri rapimenti si siano risolti con il rilascio degli ostaggi, è ancora fresco il ricordo della barbara uccisione di Padre Paul Iskandar, sacerdote siro ortodosso rapito a Mosul lo scorso ottobre ed ucciso il giorno dopo il suo sequestro. Un rapimento, quello di Padre Paul, apparentemente inspiegabile se non alla luce della ondata di violenza che sta sempre più avendo come vittime i cristiani e specialmente i loro simboli: i sacerdoti. Le richieste fatte dai rapitori di Padre Paul erano state due: che la chiesa siro ortodossa dichiarasse pubblicamente il suo disaccordo con le parole che Papa Benedetto XVI aveva pronunciato a settembre nell'ormai famoso "discorso di Ratisbona" considerato da molti offensivo verso l'Islam, ed un ingente somma di denaro come riscatto.
La prima richiesta fu esaudita subito e più di 30 cartelli di "sconfessione "delle parole papali furono affissi all'esterno delle chiese ortodosse, mentre per la richiesta del riscatto non fu dato neanche il tempo di racogliere il denaro. Il corpo di Padre Paul fu infatti ritrovato il giorno dopo con la testa e gli arti spiccati dal tronco.
In una tale atmosfera la notizia della sparizione di Padre Douglas è quindi particolarmente preoccupante. Padre Douglas, giovane e molto attivo, era già stato toccato dalla violenza che insanguina Baghdad. Il 29 gennaio scorso era scampato ad un attentato alla chiesa di cui era allora parroco, Mar Mari, nella zona settentrionale di Baghdad, (http://baghdadhope.blogspot.com/2006_01_01_baghdadhope_archive.html) ed il 23 febbraio era rimasto ferito da una pallottola vagante esplosa da uomini armati che in alcune auto in corsa avevano preso di mira la stessa chiesa. (http://baghdadhope.blogspot.com/2006/02/violenze-in-iraq-colpito-sacerdote.html)
Viva preoccupazione è stata espressa da Don Fredo Olivero, direttore dell'Ufficio Pastorale Migranti dell'Arcidiocesi di Torino, subito informato telefonicamente dell'accaduto. Padre Douglas Al Bazi, infatti, è stato più volte ospite a Torino ed è il referente iracheno del progetto di sostegno a dieci sacerdoti caldei di Baghdad promosso dall'UPM.
A Baghdad, oltre ad essere parroco della chiesa di Mar Eliya, Padre Douglas è Direttore dell'Istituto di Catechesi annesso al Babel College, l'unica facoltà teologica cristiana in Iraq.

18 novembre 2006

Nunzio Apostolico in Iraq presenta le credenziali al Presidente Jalal Talabani

Nunzio Apostolico in Iraq e Giordania dal 2001 al 2006, Monsignor Fernando Filoni, è stato sostituito nell’aprile dello stesso anno dall’indiano Monsignor Francis Chullikat che l’altro ieri ha finalmente presentato le sue credenziali al presidente iracheno Jalal Talabani.
Monsignor Chullikat ha riferito a Talabani il sostegno della Santa Sede agli sforzi di unificazione delle differenti visioni politiche in un momento così delicato per la storia dell’Iraq, e da parte sua Jalal Talabani si è impegnato a sostenere i cristiani iracheni al pari dei loro connazionali musulmani aggiungendo che gli attacchi degli insorti colpiscono ambedue le parti indifferentemente, ma che gli iracheni si opporranno ad ogni tentativo di rottura dei rapporti tra esse.

L'8 novembre Monsignor Chullikat ha rilasciato un’intervista a REPUBBLICA sulla sentenza di condanna a morte per Saddam Hussein pronunciata dal tribunale iracheno….


Repubblica 8 novembre 2006
di Orazio La Rocca
“La vita di Saddam Hussein va salvata”. Lo chiederanno "con forza” all'Onu, ai governanti Usa e alle attuali autorità dell'Iraq, i venti vescovi cattolici della Conferenza episcopale irachena. L'intervento anticipa a Repubblica l'arcivescovo Francis Assisi Chullikat, nunzio apostolico a Bagdad dal marzo scorso sarà fatto “a nome della sacralità della vita, dei diritti inviolabili dell'uomo e come gesto di pacificazione nei confronti di un paese, l'Iraq, che di tutto ha bisogno fuorché di condanne a morte”. Il tutto con la tacita "benedizione” delle autorità vaticane. L'appello sarà diffuso nei prossimi giorni, dopo una riunione collegiale che i presuli dell'Iraq terranno per analizzare il provvedimento capitale emesso lunedì scorso a carico dell'ex leader iracheno e studiare il da farsi.
Monsignor Chullikat, come rappresentante del Papa in Iraq che disposizioni ha avuto dalla Santa Sede dopo la condanna a morte di Saddam Hussein?
"Come è noto, la Chiesa cattolica da sempre è impegnata in prima persona indifesa della vita ed è totalmente contraria alla pena capitale per qualsiasi persona, al di là delle colpe commesse. Questo, perché, la vita è il dono supremo di Dio e va sempre difesa e salvaguardata. Su questa materia, quindi, la nostra posizione è nota e non si tratta di avere disposizioni per questo o quel caso. Condannare a morte un individuo e peccato, sempre. Nella Chiesa tutti lo devono sapere. Compresi, ovviamente, anche i nunzi. Ma già il cardinale Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio di Giustizia e pace, subito dopo la sentenza ha chiesto che la condanna a morte non venga eseguita. E' la nostra posizione".
Ma ci sarà, allora, qualche suo intervento diretto sulle autorità irachene per far almeno tramutare la pena capitale di Saddam in una pena più accettabile dalpunto di vista dei diritti dell'uomo?
"Su questo aspetto il riserbo, per ora, è comprensibile. Posso solo anticipare che, comunque, i cristiani di Bagdad non staranno fermi, a partire dai venti vescovi cattolici iracheni ai quali è stato demandato il compito di studiare tempi e modi per un intervento presso le autorità competenti in difesa della vita di Saddam. Nei prossimi giorni, saranno i vescovi iracheni a farlo sapere e a compiere i passi dovuti".
Eccellenza, si aspettava che una condanna così dura l'ex dittatore iracheno?
"Purtroppo, un provvedimento così drastico era nell'aria. Ma non voglio entrare nel merito della sentenza perché, mi preme sottolineare, noi rispettiamo la decisione del tribunale di Bagdad, però nello stesso tempo chiediamo il rispetto per la vita. Quello che non posso accettare come uomo e come vescovo è la pena di morte. E' un provvedimento che viola la sacralità della vita e che va contro la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, una carta, e bene ricordarlo, sottoscritta anche dagli Usa e dall'Iraq. Diritti contenuti anche nella Dichiarazione dei diritti islamici, dove è sancito che la vita appartiene solo a Dio, non agli uomini e, per questo, va sempre rispettata".
Se Saddam Hussein salirà sul patibolo cosa succederà all'lraq?"
"Va tutto visto nel contesto nazional-iracheno. E temo che non sarà un bel momento. L'Iraq non ha bisogno di altro sangue, ma di segni di pace, di distensione, di dialogo. E' bene che tutto venga ponderato con oculatezza perché non credo che l'esecuzione della condanna potrà contribuire alla ricostruzione del tessuto sociale di questo martoriato paese. Ma, al di là di qualsiasi calcolo socio-politico, non va mai dimenticato che la vita umana e sacra, sempre, e che va sempre salvaguardata. E' questa la nostra posizione".



17 novembre 2006

Chi salverà i cristiani iracheni?

Che Sarkis Aghajan Mamendu, Ministro delle Finanze del Governo Regionale del Kurdistan, sia stato di grande aiuto ai cristiani iracheni – lui stesso è un fedele della Chiesa Assira dell’Est – è dimostrato dalle onorificenze religiose a lui concesse nello spazio di soli tre mesi.
In una sorta di corsa contro il tempo le tre chiese più rappresentative dell’Iraq gli hanno infatti riconosciuto il merito di avere aiutato i cristiani come nessun altro aveva fatto prima.
Nuovi villaggi costruiti per loro nella zona curda – e pazienza se molte voci accusano lo stesso governo curdo di aver nello stesso tempo “pulito” altri villaggi dalla presenza cristiana - e nuove chiese – e pazienza se sempre le stesse voci fanno notare che di ben altro aiuto, meno spirituale, avrebbero bisogno i cristiani costretti a lasciare le proprie case – sono stati i motivi che hanno giustificato queste “investiture” ufficiali....
by Baghdadhope
A cominciare, ad agosto, è stata la Chiesa Cattolica Caldea, seguita ad ottobre da quella Siro Ortodossa e da quella Assira dell’Est. Ben tre patriarchi, rispettivamente Mar Emmanuel III Delly, Moran Mor Ignatius Zakka I Iwas e Mar Dinkha IV, hanno sancito la definitiva affermazione di Aghajan a guida politica della intera comunità cristiana con parole altisonanti: “Le generazioni future, i nostri testi, i nostri luoghi di culto, e le nostre associazioni ricorderanno la sua generosità ed il suo nome, che rimarrà scolpito nei cuori della comunità cristiana” (Mar Delly) “Tutti, da est ad ovest, lodano la sua infinità generosità nel servire la cristianità. Come disse San Paolo 'Colui che dona con gioia è benedetto da Dio' Lei è un esempio di qualità bibliche ed umane e noi invitiamo tutti a seguire le sue orme” (Mor Zakka) “La onoriamo con la Croce di Gesù Cristo che la proteggerà da tutti i mali… per la sua fede ed il suo amore verso la chiesa, il paese e la gente” (Mar Dinkha)
Eppure c’è chi, magari riconoscendo alcuni meriti ad Aghajan, ritiene che queste investiture abbiamo creato e creeranno non pochi problemi. La costruzione di nuove chiese, ad esempio, secondo l’opinione di alcuni fedeli, ma anche di alcuni sacerdoti, non ha fatto altro che attirare l’attenzione di chi, politicamente o religiosamente motivato o meno, ha visto in essa una disponibilità finanziaria da sfruttare.
In un paese dove i rapimenti arrivano a coinvolgere centinaia di vittime nello stesso episodio la minaccia del crimine è efficace quanto il crimine stesso. Così un sacerdote della Chiesa Assira dell’Est è stato costretto la scorsa settimana ad abbandonare Mosul ed a rifugiarsi nel nord dell’Iraq per porre fine alle vessazioni cui era sottoposto da tempo: donare “volontariamente” ingenti somme di denaro alle forze dei Mujahideen islamici per proteggere i fedeli della sua chiesa da rapimenti ed uccisioni. Le stesse ragioni che hanno obbligato un sacerdote dell’Antica Chiesa Assira dell’Est a lasciare la cittadina di Telkaif ed a trasferirsi nell’estrema provincia settentrionale di Dohuk.
Questi episodi, come quello riportato da ASIA NEWS, di un ordigno che ha danneggiato l’ottocentesca Dominican Clock Church di Mosul il primo di novembre,
(http://www.asianews.it/view.php?l=it&art=7767) dimostrano come la violenza verso la comunità cristiana irachena sia mirata a diffondere il terrore al suo interno per spingerla a “lasciare” il territorio.
Così è già stato ad esempio per il quartiere di Dora, nella parte meridionale di Baghdad, dove due terzi delle famiglie cristiane che vi abitavano sono fuggite, e dove cinque chiese, un monastero, un seminario e l’unica facoltà teologica in Iraq, il Babel College, hanno interrotto le proprie attività, (http://baghdadhope.blogspot.com/2006/10/milizie-irachene-stanno-conducendo-una.html) e così pare stia accadendo a Mosul, le cui istituzioni cristiane sono state oggetto di violenza già in passato, ma che sta assistendo ad un incremento della stessa che difficilmente si può pensare sia occasionale, e che ha avuto la sua massima espressione nella barbara uccisione di Padre Paul Iskandar, sacerdote della Chiesa Siro Ortodossa rapito il 10 ottobre scorso e ritrovato cadavere il giorno dopo, la testa e gli arti spiccati dal tronco. Un rapimento che ha scosso l’intera comunità cristiana.
Padre Paul Iskandar non è stato il primo sacerdote rapito, un vescovo siro-cattolico, due monaci e tre sacerdoti cattolici caldei erano stati infatti già sequestrati, ma è stato il primo ad essere ucciso, e senza motivazioni apparenti visto che delle due richieste fatte dai rapitori: che la chiesa siro-ortodossa si dichiarasse pubblicamente contro le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI a Ratisbona a settembre e considerate offensive per l’Islam, e che venisse pagato un riscatto per la sua liberazione, la prima fu subito soddisfatta, mentre non fu neanche dato il tempo di farlo per la seconda.
Mosul quindi è ora diventata una zona “che scotta” per i cristiani che vi abitano o che vi si sono rifugiati per sfuggire alle violenze incontrollate di Baghdad. Una zona da cui - è prevedibile se la situazione non dovesse migliorare - essi fuggiranno verso l’estero o verso l’estremo nord, quel Kurdistan dove Sarkis Aghajan Mamendu li sta aspettando a braccia aperte ma che niente assicura possa davvero rappresentare per loro un porto sicuro.
Il Kurdistan pacificato di oggi, che l’America presenta come prova, seppur parziale, del successo della “democratizzazione forzata” del paese, altro non è che il prodotto della realpolitik della classe politica curda che ha deciso di capitalizzare gli eventi degli ultimi anni ad essa favorevoli, che l’hanno di fatto resa semi-indipendente dal governo di Baghdad, cancellando anni di lotte intestine che hanno fatto migliaia di morti e che hanno diviso in due la regione curda solo apparentemente unificata a maggio del 2006. (Fino a maggio 2007 i quattro ministeri chiave delle Finanze, dei Peshmerga, della Giustizia e degli Interni, saranno ancora doppi)
Una riunificazione che però potrebbe vacillare e trasformare di nuovo il “pacificato” Kurdistan in una regione pericolosa se gli antichi contrasti dovessero riaffiorare e se, per ipotesi, l’obiettivo di “riportare Kirkuk nella regione del Kurdistan” (Kurdistan Regional Government Unification Agreement, 21 gennaio 2006) venisse avversato con la forza dal governo centrale desideroso di non rinunciare ai ricchissimi giacimenti petroliferi della zona, il cui presidente, è bene ricordare, è quel Jalal Talabani, leader del Patriotic Union of Kurdistan (PUK) che per decenni fu nemico giurato di Masoud Barzani, presidente del Kurdistan Democratic Party (KDP) nonchè zio dell’attuale primo ministro del Kurdistan Regional Government (KRG) Nechirvan Idris Barzani. Se ciò dovesse accadere i cristiani della regione o quelli che vi avessero trovato rifugio si troverebbero di nuovo tra due fuochi, ed in quel caso neanche il pluridecorato Sarkis Aghajan potrebbe salvarli.


15 novembre 2006

Antoine Audo, Vescovo Caldeo di Aleppo prega per la pace in Terra Santa ed in Iraq

Fonte: ZENIT

“Preghiamo insieme per i 25.000 rifugiati dell’Iraq ora fra noi”, ha affermato il Vescovo cattolico Antoine Audo di Aleppo, in Siria, nel corso di una Messa nel quartier generale di “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS) a Königstein. L’assistente ecclesiastico internazionale, Fr Joaquín Alliende-Luco, ha dato il benvenuto al Vescovo nel corso di una preghiera congiunta per la pace in Terra Santa, in Iraq e in altri Paesi arabi, così come per le intenzioni del Papa, alla vigilia del suo viaggio in Turchia.
“Dopo aver letto alcuni estratti del libro del vostro fondatore ‘Fighter for Peace’, ho notato l’importanza che padre Werenfried ha dato alla preghiera e alla comunione come parti integranti della vostra carità, che hanno la precedenza sulla raccolta di fondi”, ha detto il Vescovo. Chiedendo una nuova politica in tutto il Medio Oriente, il presule sessantenne ha sottolineato: “Abbiamo bisogno di pace a Gerusalemme, in Libano e in tutto il Medio Oriente. La guerra e la violenza distruggono il futuro di tutte le persone coinvolte”.
“Anche i cristiani hanno molta paura per il loro futuro. Molti dei 25.000 cattolici caldei, che si sono spostati dall’Iraq alla Siria si sono stabiliti lì temporaneamente sperando di potersi poi recare in un altro Paese”, ha poi aggiunto.
In Siria, su 19 milioni di abitanti islamici, 160.000 sono cristiani, 40.000 dei quali cattolici di vari riti, inclusi i rifugiati

12 novembre 2006

"Nella trappola irachena"

Fonte: Famiglia Cristiana

Il settimanale cattolico pubblica oggi un'intervista a Monsignor Jean Benjamin Sleiman, Arcivescovo cattolico di Baghdad di cui l'anno prossimo verrà pubblicato in italiano il libro edito per ora in Francia Dans le piège irakien. (Nella trappola irachena)

Leggi l'intervista collegandoti al sito di Famiglia Cristiana: http://www.stpauls.it/fc/0646fc/0646fc64.htm

Inaugurato seminario siro cattolico nel nord dell'Iraq

Fonte e foto Ankawa.com

Nella cittadina di Bakhdida (Qaraqosh) è stato inuagurato il seminario siro-cattolico di Mar Ephrem che sarà diretto da Padre Faris Tamas ed avrà come padre spirituale Padre Boutrous Moshe. Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti Mor Gregorius Saliba Shamoun, (a destra nella foto) Vescovo Siro Ortodosso di Mosul, Monsignor Faraji P. Rahho, (a sinistra) Vescovo Cattolico Caldeo di Mosul e, naturalmente Monsignor George Qas Musa, (al centro) Vescovo Siro Cattolico di Mosul.

11 novembre 2006

Ai Caldei, agli Assiri ed ai Siriaci iracheni devono essere garantiti i pieni diritti civili.

Il Medio Oriente, ed in particolare l’Iraq, sta vivendo un tragico periodo di fermento. In Iraq i musulmani uccidono altri musulmani in un deplorevole ciclo di vendette, ma i cristiani, sebbene non abbiano mai ucciso dei musulmani, ogni giorno ed in ogni città vengono uccisi, derubati e fatti oggetto di violenza da parte di alcuni dei loro vicini e compatrioti arabi musulmani.
Eppure alcune considerazioni storiche dovrebbero imporre il rispetto per i cristiani dell’Iraq:
a: Etnicamente e culturalmente la Terra tra i Due Fiumi fu patria degli Assiri e dei Caldei già migliaia di anni prima che gli arabi musulmani conquistassero la Mesopotamia.
b: Dal punto di vista religioso la cristianità penetrò in Mesopotamia dai suoi albori conquistando il cuore della maggior parte dei suoi abitanti, sei secoli prima dell’invasione islamica.
c: A dispetto delle difficoltà che i cristiani sopportarono durante il dominio musulmano in Iraq essi furono sempre leali verso il loro paese e verso lo stato.
Nonostante tutto ciò i cristiani iracheni, così come quelli di altri paesi a maggioranza musulmana furono e sono trattati come cittadini di seconda classe, e solo in casi eccezionali alcuni di loro sono arrivati a ricoprire cariche di rilevanza nazionale per il bisogno del governante di turno dei loro servigi. Una tale situazione di degrado civile può continuare sotto gli occhi del mondo civilizzato?
Se l’Iraq diventerà uno stato islamico, magari diviso in una regione sunnita ed una sciita entrambe regolate da una costituzione islamica, è nostro dovere, come società civile, appellarci ad ogni istituzione perché prenda una posizione ed agisca per dare giustizia ed un futuro sicuro ai cristiani in Iraq. Se i musulmani iracheni non saranno disposti a riconoscere l’uguaglianza di diritti civili ai loro compatrioti cristiani la questione dovrà superare i confini del paese ed interessare la coscienza umana nella sua interezza, e l’intervento delle istituzioni internazionali dovrà essere necessario.
Considerando gli eventi presenti gli Stati Uniti sono particolarmente responsabili a questo riguardo e dovrebbero affrontare seriamente la questione nei termini seguenti:
1: I cristiani iracheni hanno diritto, come ogni altro gruppo etnico, culturale e religioso in Iraq, ad una regione autonoma auto-amministrata nella Piana di Ninive, la loro terra ancestrale, che oggi ospita una considerevole parte della popolazione.
2: Negli antichi villaggi cristiani della Piana di Ninive e del Kurdistan sottoposti a politiche di arabizzazione ed islamizzazione il carattere etnico, culturale e religioso originario dovrebbe essere ripristinato ed ad essi dovrebbero essere garantite le risorse necessarie per rifiorire.
3: Alle città e le istituzioni cristiane in Iraq dovrebbe essere assicurata una giusta parte della ricchezza naturale della terra dei loro padri.
4: Gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere lo status dei rifugiati e garantire visti di ingresso, in giusto numero e velocemente, ai cristiani iracheni che sono stati costretti a lasciare l’Iraq negli ultimi anni.
5: L’amministrazione americana dovrebbe assicurarsi che una giusta parte dei fondi provenienti dall’Economic Reconstruction Aid Program sia destinata al sostegno delle città e delle istituzioni cristiane in Iraq.

Monsignor Sarhad Y. Jammo
Eparchia caldea di San Pietro Apostolo (San Diego) USA

Tradotto ed adattato dall'inglese da Baghdahope.

8 novembre 2006

Appello del Vescovo Caldeo di Kirkuk: "Cristiani d'Iraq, uniamoci!"

Fonte: Asia News

Vescovo iracheno chiama a raccolta i cristiani: uniti per contare di più ed avere sicurezza

Appello ai leader religiosi e politici iracheni: incontrarsi per tracciare una posizione comune sulla condizione dell’Iraq, affrontare la piaga dell’emigrazione e giocare un ruolo più attivo nella ricostruzione del Paese. Il testo dell’appello di Monsignor Luis
Sako, Vescovo di Kirkuk.

Tracciare una “linea comune” sulla condizione e le problematiche dei cristiani in Iraq, “unire le richieste” su diritti e doveri politici e civili, studiare “progetti di sviluppo” per i villaggi in modo da contenere la crescente emigrazione. Sono i punti all’ordine del giorno di una riunione di tutti i leader politici e religiosi della comunità cristiana irachena chiamata dall’arcivescovo di Kirkuk, Mons. Louis Sako.
Il presule spiega ad AsiaNews l’urgenza di un tale incontro soprattutto alla luce della “difficile e rischiosa” ipotesti di creare una “zona sicura per i cristiani” in Iraq. È infatti sempre più discussa - e di recente ha trovato il sostegno anche della Chiesa statunitense - la possibilità di creare una nuova “regione amministrativa”, intorno alla provincia settentrionale di Ninive e direttamente collegata al governo centrale di Baghdad, per offrire ai cristiani maggiore sicurezza e controllo delle proprie attività.
Mons. Sako ha lanciato il suo appello dalle colonne del sito web in lingua araba ankawa.com.
Ad AsiaNews lo stesso presule ha inviato la traduzione del testo che riportiamo di seguito.

Appello per un Convegno sullo stato dei cristiani in Iraq!

L’attuale situazione drammatica dei cristiani iracheni esige organizzare un Convegno generale in cui partecipino tutte le parti: i leader dei partiti cristiani (almeno 8), i capi religiosi (il loro ruolo consiste nell’orientare e nel conservare i valori umani, cristiani e nazionali e non fare la politica), gli intellettuali ed esperti. Alcuni esperti possono essere musulmani, per poter studiare la situazione irachena in generale e quella cristiana in modo particolare. Al termine dell’incontro è necessario stilare un documento ufficiale sulla situazione irachena e la posizione dei cristiani a riguardo.

Il raduno deve essere preparato in modo serio, prudente, globale e col consenso di tutti i partecipanti. Punti da discutere:

1. Scegliere un nome che unisca tutti i cristiani iracheni. Per esempio: assiro-caldei, caldei, siri, assiri, armeni. Oppure cristiani, comprendente tutti. La loro forza sta nella loro unità e nel loro peso culturale ed economico: la divisione conduce alla perdita dei loro diritti e del loro ruolo nazionale nella costruzione del Paese.
2. Chiarire una visione oggettiva ed integrale dell’avvenire dei cristiani in Iraq. Essi, infatti, si dimostrano emarginati e deboli. Ma la colpa è loro, perché sono divisi.
3. Unire le richieste per quanto riguarda i loro diritti e doveri in quanto cittadini, sia rispetto alla Costituzione irachena che a quella del Kurdistan, in modo che entrambi i testi soddisfino tutti.
4. Accordarsi su un piano per sviluppare i villaggi cristiani, dove la maggioranza della popolazione si trova senza lavoro e con cari affitti. Il progetto deve valutare aspetti quali: alloggi, agricoltura, scuole, università private, centri culturali e sociali. Così si può risolvere il problema dell’emigrazione con tutte quelle perdite delle capacita delle persone che esso richiede. Gli istituti religiosi europei possono aiutare ed aprire missioni almeno nella zona sicura.
5. Formare un comitato (una sorta di Lega) che unisca le diverse attività cristiane e che possa diventare il porta voce dei cristiani iracheni pur rispettando le peculiarità di ciascun partito e chiesa, senza intervenire nei dettagli.

Lo scopo è redigere un documento ufficiale chiaro, in cui si sottolinea la storia dei cristiani in Iraq e il loro contributo alla cultura: araba, curda, islamica e in cui si dimostra loro posizione verso l’ attuale situazione .
+ Louis Sako
Arcivescovo di Kirkuk

"Monsignor Najim, gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?"

Lunedi 6 novembre è andata in onda su Rai Uno una puntata di Porta a Porta dedicata alla sentenza di condanna emessa il giorno prima contro Saddam Hussein, accusato di aver ordinato nel 1982 la distruzione del villaggio di Dujail, nel sud Iraq, come ritorsione per un attentato alla sua persona ivi compiuto, e di aver causato così la morte violenta di 148 cittadini iracheni di fede sciita.

Gli invitati a discutere il tema erano: dalla parte dei sostenitori di un’eventuale condanna a morte dell’ex raiss, Carlo Panella, giornalista de “Il Foglio” ed autore de “Il libro nero dei paesi islamici,” Roberto Castelli della Lega Nord e Margherita Boniver di Forza Italia, rispettivamente Ministro della Giustizia e Sottosegretario agli Esteri durante il governo Berlusconi, ed Edward Luttwak del Centro di studi strategici di Washington; dalla parte di chi, invece, ricusa la sentenza emessa a Baghdad, Lilli Gruber, eurodeputato dell’Ulivo, Marco Rizzo, eurodeputato Comunisti Italiani e Monsignor Philippe Najim, Procuratore della Chiesa Caldea in Vaticano.

Il titolo del post “Monsignor Najim, gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?”si riferisce ad una delle domande che sono state poste al prelato iracheno. Per leggere la trascrizione dei suoi interventi clicca qui sotto “Leggi tutto.”

Per motivi di spazio il contesto in cui sono state poste le domande e date le risposte è stato riassunto, così per motivi di scorrevolezza nella lettura le risposte sono state adattate nella forma [], l’intera puntata originale è però visionabile sul sito di RaiClick indicato nel campo link.

Bruno Vespa: “Cosa pensa, [Monsignor Najim] come cittadino iracheno, del processo, della condanna e della possibilità che Saddam venga impiccato?
Philippe Najim: “[Rispondo] come cittadino iracheno e come sacerdote. Un sacerdote cattolico rifiuta sempre la pena di morte perché i principi della chiesa cattolica rispettano l’essere umano. La vita è un dono di Dio ed [in quanto tale] va rispettata [per] la sua sacralità; [in questo senso quindi] la condanna è criticata e rifiutata dalla chiesa.”

Bruno Vespa: “Ma la condanna, indipendentemente dalla pena di morte, alla quale quasi tutti sono contrari, secondo Lei è giusta?”
Philippe Najim: “La condanna deve per prima cosa essere emessa da un tribunale ufficiale, nato da un governo che goda di potestà e sovranità sul popolo iracheno. Io non so[se] questo tribunale… anche i giudici dicono che questo tribunale è stato [creato] dal primo consiglio nazionale portato [in Iraq] dagli americani. Io non so determinare quale sia la legittimità di questo tribunale [ma] secondo il diritto internazionale in periodo di occupazione nessuno può costituire un tribunale.

Carlo Panella parla delle elezioni che si sono svolte in Iraq da lui definite “libere.”
Philippe Najim: “L’Iraq non è libero, come si fa considerare le elezioni libere? Non si possono tenere elezioni sotto occupazione, anche tutti gli uomini politici ed i partiti che esistono oggi in Iraq sono stati portati da fuori, dall’America. Nessun esponente politico oggi in Iraq è iracheno, [nel senso che] stava in Iraq.”
Carlo Panella: “Erano in esilio…”
Philippe Najim: “ No, non erano in esilio, si va in esilio quando si è espulsi dal governo, ma non era il loro caso. Non c’era un’opposizione interna che si è trasferita all’estero, ma solo un’opposizione nata all’estero. Non sono stati espulsi da Saddam Hussein o dal governo, [si tratta di] gente che lavorava per il governo e poi è andata all’estero.”

Bruno Vespa: Carlo Panella ha detto che nel governo [iracheno] sono rappresentate tutte le forza che per 30 anni hanno lottato contro Saddam Hussein. Secondo Lei questo è vero o falso?”
Philippe Najim: “Io ho vissuto per 30 anni fuori dall’Iraq e di conseguenza queste forze [di opposizione] le conoscevo perché erano a Londra, in Europa, America ed altrove. Noi iracheni che vivevamo all’estero non abbiamo mai visto un’opposizione, [un’opposizione] che combattesse contro un governo..
Bruno Vespa: “Non c’era opposizione a Saddam Hussein?”
Philippe Najim: “No, non c’era, io [stesso] ho vissuto con Ayad Allawi (ex premier del governo provvisorio iracheno, nota di Baghdadhope) a Londra. Sto parlando dell’opposizione all’estero, nata all’estero…
Carlo Panella: “Anche Bakir Al Hakim? Anche lo SCIRI? Anche Al DA’WAH?” (Panella si riferisce a politici e partiti che erano in Iraq durante il periodo di Saddam, - Bakir Al Hakim in effetti lasciò il paese nel 1980 e vi tornò nel 2003 - che gli si opponevano e che per questa ragione sono stati perseguitati, ad un’opposizione interna, quindi. Nota di Baghdadhope)
Philippe Najim: “Questi sono religiosi. Non possiamo mescolare la religione con la politica, l’errore fatto di mescolare religione e politica ha messo in imbarazzo il popolo iracheno.”

Bruno Vespa: “[Secondo lei] Saddam Hussein può essere detenuto in Iraq, come sarebbe giusto, senza che questo possa provocare di nuovo scontri armati e disordini tra quelli che lo vogliono liberare, un incremento, cioè, della guerra civile e quindi il contrario del processo di pacificazione?
Philippe Najim: “Da anni parlano di Saddam Hussein, della sua cattura, della sua condanna, del tribunale, eccetera, perché praticamente il tribunale ha emesso la sua condanna sulla questione di Dujail, [sul fatto] che lui ha ammazzato 180 persone. (la sentenza in realtà riguarda l’uccisione di 148 persone, nota di Baghdadhope) Noi sappiamo [però] che ogni giorno muoiono in Iraq più di 100 persone, [che] metà di Baghdad è caduta e non è nelle mani né del governo iracheno né degli americani. Prendiamo ad esempio Al Dora, [dove] abbiamo tre parrocchie chiuse e dove abbiamo chiuso anche il seminario perché nessuno può attraversare quella zona che è chiamata “la zona della morte.”
Bruno Vespa: “Ma da chi è controllata quella zona?”
Philippe Najim:”Da nessuno…”
Bruno Vespa: “Chi spara?”
Philippe Najim: “E’ controllata da sunniti, da sciiti, da terroristi, da banditi, da tutti…perché l’Iraq oggi ha di tutto. Per questa ragione, invece di parlare della condanna, [del fatto] che lui ha ammazzato 180 [persone] , o non [le] ha ammazzate, [perché non] condanniamo gli altri che hanno trasformato l’Iraq in quello che è oggi? Ma, [aggiungo,] in tutto questo il popolo iracheno dov’è? E’ stato sottoposto a 13 anni di embargo, un embargo totale su tutta la popolazione; l’Iraq praticamente è rimasto fuori dalla comunità internazionale, con nessuna connessione [con il resto] del mondo…
Bruno Vespa: “Nel 1990 c’è stata l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Le Nazioni Unite intervengono, lui molla il Kuwait, dopodiché si decide di non andare a Baghdad, di non cacciare Saddam Hussein…. A quel punto cosa avrebbe dovuto fare la comunità internazionale? Dire “Abbiamo scherzato?” Che cosa avrebbero dovuto fare?”
Philippe Najim: “Secondo me gli stati Uniti avevano degli interessi in Iraq perciò lo hanno mantenuto [l’embargo] per 13 anni, 13 anno in cui 5 milioni di persone sono emigrate, in cui sono morti 500.000 bambini secondo le statistiche delle Nazioni Unite. Perciò tutta la sofferenza è stata pagata dal popolo iracheno…
Roberto Castelli: “Le sanzioni sono state decise dalle Nazioni Unite, non dagli Stati Uniti….
Philippe Najim: “Ma gli Stati Uniti fanno parte del Consiglio di Sicurezza…”
Roberto Castelli: “Sono parte, [ma a decidere l’embargo] sono state le Nazioni Unite, c’è una bella differenza…”
Philippe Najim: “E come mai il Consiglio di Sicurezza, di cui fanno parte gli Stati Uniti, impone un embargo di 13 anni, e come mai da tre anni [lo stesso] popolo iracheno muore ogni giorno, e come mai i cervelli, dottori, ingegneri, ecc, sono stati uccisi? L’individuo iracheno non può usufruire del suo petrolio, della sua libertà, non può neanche uscire di casa. L’Iraq sta vivendo nel caos.


Roberto Castelli a proposito del fatto che il nord dell’Iraq, a gestione curda, è pacificato rispetto al resto del paese. “Sappiamo che l’Iraq è diviso in tre zone…”
Philippe Najim: “Chi ha diviso l’Iraq in tre zone?…”
Roberto Castelli: “Io sono federalista e sono quindi contento che i curdi non siano più perseguitati da Saddam Hussein…”
Philippe Najim: “E chi perseguita oggi gli iracheni? Cosa dice del genocidio del popolo iracheno?”
Roberto Castelli: “E’ un genocidio fatto dagli iracheni…”
Philippe Najim: “No, è stato portato dall’estero”
Roberto Castelli: “Monsignore, Lei può confermare che i cristiani stanno fuggendo tutti nella zona curda perché lì trovano rifugio, è vero o non è vero?”
Phlippe Najim: “No, non è vero. Ci sono dei villaggi cristiani ma al massimo le famiglie che sono andate nel nord dell’Iraq sono 500. I cristiani stanno fuggendo in Siria, in Giordania, in Grecia…”
Roberto Castelli: “Ed anche nel nord…”
Philippe Najim: “Solo 500 famiglie…”

Carlo Panella a proposito della violenza interetnica ed interreligiosa, ciò che egli definisce un problema interno alle società arabe in cui la componente fondamentalista è pericolosa. “In Iraq la guerra civile è sul punto di scoppiare ma è una guerra di iracheni contro iracheni, tanto è vero che il 90% delle vittime sono irachene…”
Philippe Najim: “Il popolo iracheno sta morendo a causa dei terroristi che avete portato voi. Voi avete trasformato l’Iraq in una piazza per i terroristi che prima non c’erano… non c’era mai stato conflitto tra musulmani e cristiani… era un popolo compatto…”
Carlo Panella: “20.000 cristiani ammazzati nel 1930 dai sunniti Padre….”
Philippe Najim: “Voi che avete invaso l’Iraq, voi!”
Roberto Castelli: “L’Italia non ha invaso l’Iraq e Lei dovrebbe chiedere scusa all’Italia, il paese che La ospita…”
Philippe Najim: “Questa è la Sua democrazia? La democrazia che vuole trasportare su di me? [impormi?] Questa è la vostra democrazia? Non posso esprimere la mia opinione? I soldati italiani che cosa facevano in Iraq? Chi deve essere condannato?

La discussione si anima e si incentra sul ruolo avuto dalle truppe italiane in Iraq
Philippe Najim: “L’ultima volta che sono stato a Baghdad, una settimana dopo la caduta di Saddam Hussein, ho visto l’ospedale italiano ed i medici che volevano aiutare il popolo iracheno, ma io parlo della sofferenza di un intero popolo. Chi è responsabile di questo? Chi deve essere condannato oggi?”

Carlo Panella: “22 soldati italiani sono morti per permettere agli iracheni di votare…”
Philippe Najim: “E gli iracheni muoiono per colpa di chi…?
Carlo Panella: “Per colpa di altri iracheni, di arabi...”
Philippe Najim: “Lasciate l’Iraq, andate via!”

Bruno Vespa a proposito della situazione di caos in Iraq. “Gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?”
Philippe Najim: “ Gli iracheni vogliono una vita dignitosa, vogliono essere rispettati, capiti…”
Bruno Vespa: “Gli iracheni stanno rimpiangendo Saddam Hussein?”
Philippe Najim: “Non lo so!”
Roberto Castelli: “Non ha detto di no però…”
Philippe Najim: “Ma Lei vuole provocarmi? Io non sono un uomo politico, sono solo un sacerdote che difende il popolo iracheno.”
Edward Luttwack: “Bisogna ricordare che in Iraq ci sono sunniti, sciiti e curdi, ma ci sono anche i turcomanni, i cristiani nestoriana, gli yezidi, e poi ci sono i cristiani cattolici di rito orientale, la chiesa cui appartiene Monsignor Najim. Questa chiesa era molto favorita da Saddam Hussein e mentre il regime massacrava i curdi e maltrattava i nestoriana favoriva la Chiesa Caldea, infatti Tareq Aziz, prima ministro degli esteri e poi vicepresidente aveva fatto costruire palazzi per sé e per i suoi figli. Non mi sorprende quindi che Monsignor Najim parli in questi termini…”
Bruno Vespa: “Edward Luttwak ha detto che la Chiesa Caldea era protetta da Saddam Hussein…
Philippe Najim: “Non era protetta da Saddam Hussein, [la chiesa caldea] viveva come tutti gli altri cristiani in Iraq solo che i caldei erano il 3% della popolazione e gli assiri (quelli che Luttwak chiama nestoriani, nota di Baghdadhope) erano solo l’1% perciò (?) la Chiesa Caldea non si è mai dedicata alla politica ma solo all’insegnamento ed alle libere professioni contribuendo allo sviluppo scientifico del paese. Non interveniva nella politica, né in quella di Saddam Hussein né in quella di prima (dei precedenti governi, nota di Baghdadhope) perciò era magari favorita dal governo in quel periodo.

Roberto Castelli a proposito del fatto che secondo lui gli italiani hanno contribuito allo sviluppo di Nassiryia e che sono proprio gli abitanti di quella provincia che stanno chiedendo agli italiani di rimanere ed aiutarli, e questo “forse non fa piacere a Monsignore…”
Philippe Najim: “Forse Lei non mi ha capito. L’ospedale italiano ha fatto del bene al popolo iracheno che non lo dimenticherà….”
Roberto Castelli: “ Quello di Baghdad o quello di Nassiriya?”
Philippe Najim: “Quello di Baghdad!”