By Repubblica
Alberto Stabile
Non avevo mai visto rifugiati sorridere davanti all'obiettivo fotografico del mio telefonino. Ma qui, nella scuola della parrocchia della Mater Ecclesiae, la chiesa cattolica che svetta sulle modeste case del quartiere Mark, fra i profughi cristiani arrivati, e che continuano ad arrivare da Mosul, in Iraq, l'atmosfera è diversa. Merito della presenza rassicurante e instancabile di un prete originario di Betlemme, padre Khalil, diventato un punto di riferimento per i cristiani iracheni in fuga dalle città e villaggi conquistati dallo Stato Islamico.
La fama di padre Khalil, se così si può dire, ha superato i confini tra la Giordania e l'Iraq. “Lo cercano ancora prima di arrivare – dice ammirata Sana, una giornalista giordana che fa parte del manipolo di volontari che aiuta il prete ad affrontare le mille emergenze quotidiane dei migranti - vogliono lui, perché sanno che è una persona onesta, generosa, spontanea e su cui possono contare”. Sana insegna l'inglese ai bambini iracheni nelle classi informali che don Khalil ha istituito aggirando gli ostacoli burocratici e le difficoltà materiali che impediscono ai piccoli rifugiati, in ogni parte del Medio Oriente dove hanno la ventura di arrivare, di frequentare le scuole locali. Qui, in 270 hanno avuto la fortuna di poter continuare a studiare.
Quando arrivo nella parrocchia, a mezz'ora di macchina dal centro di Amman, è appena finita la la messa serale. Il cortile della chiesa pullula di fedeli, uomini di tutte le età, donne vestite all'europea, bambini che giocano, corrono, s'inseguono. Ne scaturisce un brusio in qualche modo familiare, che sa di folla all'uscita dalla funzione domenicale in un paese del Sud. Mancano il venditore di palloncini e il carrettino dei bruscolini.
Si può dire che anche padre Khalil sia un simpatico cinquantenne meridionale. Piccolo, scattante, una mezzaluna di capelli residui che esaltano il naso importante, se ne sta nella navata centrale a decidere assieme ai suoi volontari dove dormirà la famiglia degli ultimi arrivati, padre, madre e due bambini, appena giunta da Mosul per aggiungersi alle altre 500 famiglie di rifugiati, all'incirca 2500 persone, attualmente assistite.
“Ma lei è italiano! Allora parliamo italiano!”, esclama padre Khalil dopo essersi presentato in inglese. Fendiamo la folla dove tutti lo salutano, lo fermano per parlargli o semplicemente per abbracciarlo.
“Venga le faccio vedere che cosa facciamo qui. Innanzitutto la parrocchia è aperta ogni giorno dalle sei del mattino alle 11 di sera e non soltanto ai cristiani, ma anche ai musulmani della zona”. Entriamo in una specie di sala da svago, con una decina di tavoli dove si gioca a carte, a domino, e backgammon. “I rifugiati non possono lavorare, allora preferisco che vengano qui a giocare piuttosto che stare per strada senza fare niente”.
Passiamo per un salone stretto e lungo dove ogni giorno dall'una alle due vengono distribuiti 300 pasti caldi per quelli che non cucinano, sono soli, o non hanno i soldi per comprarsi qualcosa. Saliamo nella canonica, dove non ci sono santi alle pareti e l'unica immagine sacra è il collage di un Gesù assiro su uno sfondo dorato fatto da un bambino di 8 anni.
“Vede che bravura. Solo otto anni. Può crederlo?”.
Don Khalil mi mostra i registri dei suoi scolari divisi per età, grado di studio, città d'appartenenza. Le schede degli adulti, divisi per famiglie, sono in due grandi classificatori. “Vede, qui non c'è posto per tutti. Allora siamo stati costretti ad affittare degli appartamenti nel quartiere. In un appartamento grande stanno due famiglie e costa 310 dinari giordani (circa 450 dollari) al mese, in uno piccolo, che costa circa 200 dinari, 300 dollari, mettiamo una sola famiglia. Certe volte arriviamo alla fine del mese senza i soldi per gli affitti. Ma la provvidenza di solito ci da una mano...”
Piglia due fogli ministeriali con l'insegna dell'aquila del Regno Hashemita. “Un giorno sono venuti due ispettori dell'ufficio tasse - racconta - e si sono portati via la contabilità. Dopo una decina di giorni hanno chiamato. Padre Khalil, mi hanno detto, dovrebbe venire in ufficio per chiarire certe cose. Si sa che il fisco, per definizione, fa paura dappertutto, ma non posso dire di essermi spaventato. Ero tranquillo. Vado e il funzionario mi dice: mancano le ricevute dei salari dei suoi collaboratori. Io cado dalle nuvole: salari? Ma da noi non ci sono dipendenti salariati. Quelli che lavorano con noi sono tutti volontari. Il funzionario non poteva crederci, ma poi si è offerto di aiutarmi a tenere la contabilità gratuitamente”.
L'avventura in Medio Oriente di padre Khalil data ormai da più di dieci anni, durante i quali ha anche dovuto affrontare rischi seri. “Un giorno di primavera del 2006 sono andato a Bagdad a prendere due bambini ricoverati in un ospedale iracheno, ma bisognosi di cure speciali, per portarli all'ospedale San Raffaele qui ad Amman. Il 2006 è stato, credo, l'anno più brutto e più violento dell'intera periodo dell' occupazione americana. Scendo dall'aereo, salgo su un taxi, ci fermano e vengo scaraventato dentro un'altra macchina. Mi avevano rapito. Sono rimasto per una settimana bendato e legato mani e piedi. Ho pensato che non ne sarei uscito. Sentivo il mio guardiano che affilava il coltello, ssc...ssc...e mi si gelava il sangue. La sua radio a transistor mi aiutava a tenere il conto del tempo che passava. Mi davano quattro datteri al giorno che non riuscivo a mangiare tanto mi battevano i denti per la paura. Ma la cosa più terribile è stata che non riuscivo a pregare, io, che per tutta la vita ho aiutato gli altri a dire le preghiere, le avevo dimenticate tutte. Un giorno è venuto l'Emir, il comandante del gruppo dei rapitori ad interrogarmi. Ha voluto sapere chi ero, che facevo, dove vivevo. A un certo punto l'ho interrotto e gli ho detto: senta emiro, se quello che le sto per dire non è vero io metto la mia vita nelle sue mani e lei ne farà quello che vuole, ma se è vero, mi lascerà andare: vada all'ospedale tal dei tali di Bagdad e controlli se ci sono questi due bambini che mi aspettavano per essere ricoverati ad Amman. Così hanno fatto. Dopo due giorni mi hanno messo nel portabagagli di una macchina e lì ho pensato veramente che per me era finita. Invece, mi hanno portato in giro per un'ora e poi mi hanno lasciato vicino ad una moschea dicendomi di non farmi vedere mai più a Bagdad. Quando mi sono tolto la benda degli occhi non riuscivo a vedere, la luce era accecante. Mi sono seduto sul marciapiede ed ho pianto come un bambino...”
Ma oggi quest'avventura e definitivamente alle spalle: padre Khalil ha continuato ad esercitare il suo ministero in un'altra parrocchia di Amman e ad aiutare a distanza i cristiani iracheni. Nel frattempo l'eco del suo operato ha raggiunto le più alte gerarchie. Il Nunzio in Iraq, monsignor Giorgio Lingua è venuto a trovarlo. Ma non solo: “Sono stato per tre giorni a Roma, a Santa Marta. Il Santo Padre: 'So tutto di lei, grazie per quello che fa'. Io gli ho regalato il distintivo che hanno fatto i miei ragazzi” e mi porge un un bottone nero su cui è spicca in bianco la lettera araba “nun”, la N, in italiano, che i jiadisti hanno dipinto come un marchio sulle case dei cristiani iracheni. “Nun” sta per “nusrani”, nazareni, spiega padre Khalil.
Al secondo piano della scuola incontriamo i 60 rifugiati che vivono nelle cinque aule: i materassi ammonticchiati in un angolo, il tappeto che serve da tavolo da pranzo e da salotto, le coperte che pendono da una corda tesa come paraventi per creare un po' di intimità. Bambini e adulti si affollano attorno a padre Khalil. Dalla cucina arriva un odore gradevole di patatine fritte in casa. La cucina, come le due uniche toilette, una per gli uomini e una per le donne, sono linde. I profughi fanno di tutto per mantenere il decoro.
Non amano parlare della loro odissea. I racconti si somigliano. Pare di capire che il momento più drammatico sia stato quando hanno dovuto comprare dai jihadisti la la possibilità di fuggire da Mosul, da Ninive, da Kharakhosh e dagli altri paesini che rappresentavano la culla della cosiddetta cristianità orientale.
Contrariamente a quanto hanno fatto con gli Yazidi, una setta orientale sulla quale hanno infierito con uccisioni e rapimenti di giovani donne poi vendute al mercato di Raqq, i jihadisti dello Stato Islamico hanno imposto ai cristiani di Mosul l'aut aut: pagare la tassa prevista dalla Sharia per continuare a viver sotto il Califfato o andarsene.
“Il giorno in cui abbiamo deciso di partire, racconta un giovane rifugiato che lavorava come tecnico informatico, dopo aver separato i maschi dalle femmine, ci hanno detto che dovevamo consegnare tutto: soldi, oro, gioielli e tutto abbiamo consegnato. Ci hanno lasciato soltanto i vestiti con cui sono venuti”.
Decine di chilometri a piedi, con i bambini sfiniti e gli anziani a pezzi (due sono morti subito dopo il loro arrivo) poi, con mezzi di fortuna, fino a Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan e da li ad Amman. Di violenze preferiscono non parlare: “Una volta hanno fatto saltare una casa dove sono morte quattro persone. Allora abbiamo capito quale sarebbe stato il nostro destino”.
Alberto Stabile
Non avevo mai visto rifugiati sorridere davanti all'obiettivo fotografico del mio telefonino. Ma qui, nella scuola della parrocchia della Mater Ecclesiae, la chiesa cattolica che svetta sulle modeste case del quartiere Mark, fra i profughi cristiani arrivati, e che continuano ad arrivare da Mosul, in Iraq, l'atmosfera è diversa. Merito della presenza rassicurante e instancabile di un prete originario di Betlemme, padre Khalil, diventato un punto di riferimento per i cristiani iracheni in fuga dalle città e villaggi conquistati dallo Stato Islamico.
La fama di padre Khalil, se così si può dire, ha superato i confini tra la Giordania e l'Iraq. “Lo cercano ancora prima di arrivare – dice ammirata Sana, una giornalista giordana che fa parte del manipolo di volontari che aiuta il prete ad affrontare le mille emergenze quotidiane dei migranti - vogliono lui, perché sanno che è una persona onesta, generosa, spontanea e su cui possono contare”. Sana insegna l'inglese ai bambini iracheni nelle classi informali che don Khalil ha istituito aggirando gli ostacoli burocratici e le difficoltà materiali che impediscono ai piccoli rifugiati, in ogni parte del Medio Oriente dove hanno la ventura di arrivare, di frequentare le scuole locali. Qui, in 270 hanno avuto la fortuna di poter continuare a studiare.
Quando arrivo nella parrocchia, a mezz'ora di macchina dal centro di Amman, è appena finita la la messa serale. Il cortile della chiesa pullula di fedeli, uomini di tutte le età, donne vestite all'europea, bambini che giocano, corrono, s'inseguono. Ne scaturisce un brusio in qualche modo familiare, che sa di folla all'uscita dalla funzione domenicale in un paese del Sud. Mancano il venditore di palloncini e il carrettino dei bruscolini.
Si può dire che anche padre Khalil sia un simpatico cinquantenne meridionale. Piccolo, scattante, una mezzaluna di capelli residui che esaltano il naso importante, se ne sta nella navata centrale a decidere assieme ai suoi volontari dove dormirà la famiglia degli ultimi arrivati, padre, madre e due bambini, appena giunta da Mosul per aggiungersi alle altre 500 famiglie di rifugiati, all'incirca 2500 persone, attualmente assistite.
“Ma lei è italiano! Allora parliamo italiano!”, esclama padre Khalil dopo essersi presentato in inglese. Fendiamo la folla dove tutti lo salutano, lo fermano per parlargli o semplicemente per abbracciarlo.
“Venga le faccio vedere che cosa facciamo qui. Innanzitutto la parrocchia è aperta ogni giorno dalle sei del mattino alle 11 di sera e non soltanto ai cristiani, ma anche ai musulmani della zona”. Entriamo in una specie di sala da svago, con una decina di tavoli dove si gioca a carte, a domino, e backgammon. “I rifugiati non possono lavorare, allora preferisco che vengano qui a giocare piuttosto che stare per strada senza fare niente”.
Passiamo per un salone stretto e lungo dove ogni giorno dall'una alle due vengono distribuiti 300 pasti caldi per quelli che non cucinano, sono soli, o non hanno i soldi per comprarsi qualcosa. Saliamo nella canonica, dove non ci sono santi alle pareti e l'unica immagine sacra è il collage di un Gesù assiro su uno sfondo dorato fatto da un bambino di 8 anni.
“Vede che bravura. Solo otto anni. Può crederlo?”.
Don Khalil mi mostra i registri dei suoi scolari divisi per età, grado di studio, città d'appartenenza. Le schede degli adulti, divisi per famiglie, sono in due grandi classificatori. “Vede, qui non c'è posto per tutti. Allora siamo stati costretti ad affittare degli appartamenti nel quartiere. In un appartamento grande stanno due famiglie e costa 310 dinari giordani (circa 450 dollari) al mese, in uno piccolo, che costa circa 200 dinari, 300 dollari, mettiamo una sola famiglia. Certe volte arriviamo alla fine del mese senza i soldi per gli affitti. Ma la provvidenza di solito ci da una mano...”
Piglia due fogli ministeriali con l'insegna dell'aquila del Regno Hashemita. “Un giorno sono venuti due ispettori dell'ufficio tasse - racconta - e si sono portati via la contabilità. Dopo una decina di giorni hanno chiamato. Padre Khalil, mi hanno detto, dovrebbe venire in ufficio per chiarire certe cose. Si sa che il fisco, per definizione, fa paura dappertutto, ma non posso dire di essermi spaventato. Ero tranquillo. Vado e il funzionario mi dice: mancano le ricevute dei salari dei suoi collaboratori. Io cado dalle nuvole: salari? Ma da noi non ci sono dipendenti salariati. Quelli che lavorano con noi sono tutti volontari. Il funzionario non poteva crederci, ma poi si è offerto di aiutarmi a tenere la contabilità gratuitamente”.
L'avventura in Medio Oriente di padre Khalil data ormai da più di dieci anni, durante i quali ha anche dovuto affrontare rischi seri. “Un giorno di primavera del 2006 sono andato a Bagdad a prendere due bambini ricoverati in un ospedale iracheno, ma bisognosi di cure speciali, per portarli all'ospedale San Raffaele qui ad Amman. Il 2006 è stato, credo, l'anno più brutto e più violento dell'intera periodo dell' occupazione americana. Scendo dall'aereo, salgo su un taxi, ci fermano e vengo scaraventato dentro un'altra macchina. Mi avevano rapito. Sono rimasto per una settimana bendato e legato mani e piedi. Ho pensato che non ne sarei uscito. Sentivo il mio guardiano che affilava il coltello, ssc...ssc...e mi si gelava il sangue. La sua radio a transistor mi aiutava a tenere il conto del tempo che passava. Mi davano quattro datteri al giorno che non riuscivo a mangiare tanto mi battevano i denti per la paura. Ma la cosa più terribile è stata che non riuscivo a pregare, io, che per tutta la vita ho aiutato gli altri a dire le preghiere, le avevo dimenticate tutte. Un giorno è venuto l'Emir, il comandante del gruppo dei rapitori ad interrogarmi. Ha voluto sapere chi ero, che facevo, dove vivevo. A un certo punto l'ho interrotto e gli ho detto: senta emiro, se quello che le sto per dire non è vero io metto la mia vita nelle sue mani e lei ne farà quello che vuole, ma se è vero, mi lascerà andare: vada all'ospedale tal dei tali di Bagdad e controlli se ci sono questi due bambini che mi aspettavano per essere ricoverati ad Amman. Così hanno fatto. Dopo due giorni mi hanno messo nel portabagagli di una macchina e lì ho pensato veramente che per me era finita. Invece, mi hanno portato in giro per un'ora e poi mi hanno lasciato vicino ad una moschea dicendomi di non farmi vedere mai più a Bagdad. Quando mi sono tolto la benda degli occhi non riuscivo a vedere, la luce era accecante. Mi sono seduto sul marciapiede ed ho pianto come un bambino...”
Ma oggi quest'avventura e definitivamente alle spalle: padre Khalil ha continuato ad esercitare il suo ministero in un'altra parrocchia di Amman e ad aiutare a distanza i cristiani iracheni. Nel frattempo l'eco del suo operato ha raggiunto le più alte gerarchie. Il Nunzio in Iraq, monsignor Giorgio Lingua è venuto a trovarlo. Ma non solo: “Sono stato per tre giorni a Roma, a Santa Marta. Il Santo Padre: 'So tutto di lei, grazie per quello che fa'. Io gli ho regalato il distintivo che hanno fatto i miei ragazzi” e mi porge un un bottone nero su cui è spicca in bianco la lettera araba “nun”, la N, in italiano, che i jiadisti hanno dipinto come un marchio sulle case dei cristiani iracheni. “Nun” sta per “nusrani”, nazareni, spiega padre Khalil.
Al secondo piano della scuola incontriamo i 60 rifugiati che vivono nelle cinque aule: i materassi ammonticchiati in un angolo, il tappeto che serve da tavolo da pranzo e da salotto, le coperte che pendono da una corda tesa come paraventi per creare un po' di intimità. Bambini e adulti si affollano attorno a padre Khalil. Dalla cucina arriva un odore gradevole di patatine fritte in casa. La cucina, come le due uniche toilette, una per gli uomini e una per le donne, sono linde. I profughi fanno di tutto per mantenere il decoro.
Non amano parlare della loro odissea. I racconti si somigliano. Pare di capire che il momento più drammatico sia stato quando hanno dovuto comprare dai jihadisti la la possibilità di fuggire da Mosul, da Ninive, da Kharakhosh e dagli altri paesini che rappresentavano la culla della cosiddetta cristianità orientale.
Contrariamente a quanto hanno fatto con gli Yazidi, una setta orientale sulla quale hanno infierito con uccisioni e rapimenti di giovani donne poi vendute al mercato di Raqq, i jihadisti dello Stato Islamico hanno imposto ai cristiani di Mosul l'aut aut: pagare la tassa prevista dalla Sharia per continuare a viver sotto il Califfato o andarsene.
“Il giorno in cui abbiamo deciso di partire, racconta un giovane rifugiato che lavorava come tecnico informatico, dopo aver separato i maschi dalle femmine, ci hanno detto che dovevamo consegnare tutto: soldi, oro, gioielli e tutto abbiamo consegnato. Ci hanno lasciato soltanto i vestiti con cui sono venuti”.
Decine di chilometri a piedi, con i bambini sfiniti e gli anziani a pezzi (due sono morti subito dopo il loro arrivo) poi, con mezzi di fortuna, fino a Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan e da li ad Amman. Di violenze preferiscono non parlare: “Una volta hanno fatto saltare una casa dove sono morte quattro persone. Allora abbiamo capito quale sarebbe stato il nostro destino”.