By La Stampa - Vatican Insider
Giovanni Tridente
Giovanni Tridente
Il Cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli, in questa lunga intervista concessa a
Palabra, offre il punto della situazione sulla fede delle giovani Chiese
nelle terre di missione e di come la loro vitalità può tradursi in uno
sprone per tutta l’Europa. Ci parla con assoluta lucidità e competenza
del Medio Oriente, da una prospettiva storica ma anche con grande
speranza per il futuro di quei territori e delle minoranze che li
abitano, oggi tristemente martoriati dalle guerre. Ci racconta del
bisogno di prossimità e dell’essere sempre di più una «Chiesa in
uscita», che Papa Francesco ha incarnato in tutto il suo pontificato.
Infine, analizza il ruolo e le competenze della Congregazione da lui
guidata, nell’ottica di un pieno e consapevole servizio alla missione
evangelizzatrice di tutta la Chiesa. Il ritratto che ne emerge, come lui
stesso afferma, è quello di una Chiesa «aperta in tutta la sua
ricchezza a tutti i popoli di tutti i continenti».
LA FEDE DELLE GIOVANI CHIESE
Eminenza, qual è la situazione generale della Chiesa nelle terre di missione?
«Di generale si può dire che soprattutto in Africa e in Asia si
tratta di Chiese quasi sempre giovani. Al tempo del Concilio le chiese
locali erano ancora rette dai nostri missionari, e l’evangelizzazione si
trovava in pieno sviluppo. Oggi, a distanza di cinquant’anni, si può
affermare che quasi tutte le Diocesi di quelle terre sono rette da clero
autoctono e quindi c’è la piena responsabilità di queste persone sulle
loro Chiese locali. Se dovessimo evidenziare dei problemi, questi vanno
rintracciati nelle difficoltà tipiche di ogni crescita: da una parte
troviamo un grande entusiasmo, ma ci sono anche problemi in ordine alla
stabilità. Evidentemente, siamo ancora nella fase del primo annuncio del
Vangelo. Come Congregazione abbiamo in considerazione questo rapido
cambiamento, che coinvolge non soltanto l’aspetto spirituale ma lo
sviluppo integrale di questi territori».
Quale parola particolare porta con sé quando visita questi territori?
Quale parola particolare porta con sé quando visita questi territori?
«Non c’è una parola particolare che uno ideologicamente deve portare.
Molto dipende anche dalla realtà che andiamo a visitare. Per cui,
l’annuncio è di tipo reale, nel contesto della grande realtà della
Chiesa, del Concilio Vaticano II, dello sviluppo successivo attraverso i
grandi Papi che abbiamo avuto fino al momento presente. Si tratta di
far sentire queste Chiese particolari come parte del tutto della Chiesa,
chiamandole alla corresponsabilità per il loro stesso futuro ma anche
come partecipazione alla grande missione della Chiesa. È importante che
una Chiesa abbia sempre coscienza di sé e si domandi il tipo di futuro
che vuole per il paese in cui si trova. Ciò che per me conta è stimolare
queste Chiese ad avere un ruolo attivo all’interno
dell’evangelizzazione e del loro sviluppo. Sono loro ormai che devono
evangelizzare, non ci sono più i missionari che giungono da fuori… Ciò
porta evidentemente a un’assunzione di responsabilità, e dovremmo farlo
tutti. La stessa cosa dovremmo chiederci in Europa: che Chiesa vogliamo e
perché?».
A proposito, cosa ha da imparare l’Europa da queste altre esperienze?
A proposito, cosa ha da imparare l’Europa da queste altre esperienze?
«Mi ha sempre colpito quell’espressione che Papa Benedetto XVI ebbe a
dire durante i suoi viaggi per esempio in Africa, e che poi anche Papa
Francesco ha fatto sua: la gioia della fede della gente di queste terre.
Nonostante il livello e il tenore di vita non facile, e comunque non
all’altezza di quello europeo, riescono a dare una manifestazione della
propria fede in un modo gioioso. Sempre Benedetto XVI diceva che spesso
la nostra fede sembra un po’ triste, da persone rassegnate… Invece, in
questi altri Continenti, soprattutto in queste giovani Chiese, si
percepisce un grande entusiasmo, una grande vivacità. Sono aspetti che
noi forse abbiamo perduto. Allora, occorre riscoprire il senso di una
fede gioiosa, di una fede partecipata».
Si parla spesso di profughi e rifugiati. Cosa manca da parte della comunità internazionale in questo ambito?
Si parla spesso di profughi e rifugiati. Cosa manca da parte della comunità internazionale in questo ambito?
«Ritengo che il Papa già in molte circostanze e modi ha indicato
quali siano le carenze fondamentali, per cui non potrei dire nulla di
eccezionalmente diverso. Ciò che manca è ancora la capacità di riuscire a
comprendere, quando si tratta di profughi e rifugiati, quali siano le
loro reali esigenze. Non si tratta di numeri, sono persone, e alle loro
spalle hanno veramente situazioni di grandi difficoltà. Quando guardo
negli occhi una persona, un profugo, un rifugiato, poiché è una persona e
non un numero, non posso restare indifferente. Dobbiamo quindi imparare
ad avere un approccio che non sia di paura, di condizionamenti e luoghi
comuni che a loro volta generano paura e creano difficoltà, e guardare
di più negli occhi le persone».
Lei è stato inviato personale del Santo Padre in Iraq, dove è stato anche Nunzio. Cosa succede in quelle terre?
«Volendo semplificare, potrei dire questo: l’Iraq è una terra antica,
ricca di culture, di storia, di lingue, ma in quanto Paese è
relativamente giovane, con poco più di novant’anni di vita, tracciato da
Occidentali che si sono divisi le zone di influenza dell’impero
ottomano collassato. Non è dunque l’espressione di un popolo, ma di
molti popoli con culture tanto diverse, che si sono ritrovati, in certi
confini determinati, a manifestare una visione nazionale che bisognava
però costruire. Questa costruzione è stata molto difficile e non si è
neppure raggiunta. La presenza di varie entità, a partire da quelle più
grandi, gli sciiti, i sunniti, i cristiani, i curdi e altre minoranze
antichissime però numericamente più limitate non si è amalgamata, non ne
è nato un unico sentimento e ha dominato chi aveva il potere».Vede qualche soluzione?«È chiaro che quando si parla di democrazia non la si può imporre.
Poi quale democrazia? È difficile, perché le culture e i modi di
concepire le comunità sono diversi. Anche la cosiddetta democrazia
numerica è rischiosa, perché indica che una maggioranza può dominare una
minoranza anche consistente e imporre cose che generano insoddisfazione
se non lotta. In un territorio composito come l’Iraq non si può pensare
di uniformare tutto in modo semplicistico, bisogna dare adito a quella
entità nazionale che certamente bisogna far crescere, ma occorre
rispettare anche le entità particolari. Si tratta di superare una
visione predominante sugli altri, e ciò richiede molto aiuto e tanta
buona volontà».
Nel suo ultimo libro «La Chiesa in Iraq» lei parla di una «Chiesa eroica»...
Nel suo ultimo libro «La Chiesa in Iraq» lei parla di una «Chiesa eroica»...
«È la storia della Chiesa caldea, della Chiesa assira che lo rivela…
Dal momento della sua creazione con l’evangelizzazione apostolica,
essendo sempre stata una terra di confine, è diventata a sua volta terra
di conflitto: a seconda dei poteri che si confrontavano, i cristiani
diventavano oggetto di contrapposizione ed erano quelli che soffrivano
di più. Sin dai primi secoli, dunque, la religione è stata
sostanzialmente un elemento discriminante, e lo stesso è accaduto nei
secoli successivi con le diverse invasioni. Questa Chiesa d’Oriente, che
si è riversata soprattutto verso l’Asia Centrale e l’Estremo Oriente
fino a contare addirittura 20 sedi metropolitane e decine di sedi
vescovili fino alla Cina e a Pechino, poi è stata completamente
cancellata. Anche queste sono storie di sofferenze, per non dire quelle
più recenti. È tutta una scia di sofferenze che mi ha portato a scrivere
questo libro».
LA SPERANZA PER IL MEDIO ORIENTE
Quale contributo i cristiani possono ancora dare rispetto ai conflitti e alle guerre?
«Papa Francesco lo ha indicato molto bene. Il cristiano, per esempio,
non pensa che la prima cosa da fare quando uno Stato ha delle
ricchezze, che sono parte della vita di un popolo, sia quella di
comprarsi armi. Un altro atteggiamento è quello di non vedere le
relazioni tra Stati solamente in termini conflittuali; è la
conflittualità, infatti, che porta ad armarsi, e quando si ha un’arma si
è disposti a usarla. Un terzo aspetto riguarda il diritto: gli altri
che sono diversi da una maggioranza o da una minoranza, non sono persone
con le quali confrontarsi al livello del più forte: in quanto membri di
una realtà umana, sociale e politica hanno il diritto di vivere e
professare ciò in cui credono, che può essere un ideale, una fede, una
libera professione, ma anche un modo di coordinarsi o organizzarsi. Fin
quando non entreremo in questa prospettiva, avremo sempre
conflittualità. Dopotutto, la visione del cristiano non è diversa da
quella che anche a livello di sano pensiero sociale si ha nel mondo. Ma
con una carica in più, secondo cui il rispetto dell’altro, il valore e
la sua importanza è un aspetto profondamente cristiano, ed è
l’insegnamento che ci viene anche dalla fede».
Come vede il futuro del Medio Oriente?
Come vede il futuro del Medio Oriente?
«Non ho la sfera di cristallo, ma voglio parlare di un auspicio,
anche per il Medio Oriente, che è una terra composita di popoli, culture
e civiltà. Perché non dovrebbe essere possibile trovare una convivenza
fondata sul rispetto dell’altro, sul diritto e sullo sviluppo dei
popoli? Perché far prevalere sempre elementi di tipo religioso,
d’intolleranza verso un altro popolo, un altro gruppo… Questa mentalità
deve essere assolutamente superata, altrimenti la conflittualità rimarrà
latente. L’auspicio è che si passi a questa visione diversa, che
coinvolga non solo paesi diversi tra di loro ormai presenti in queste
terre, ma anche le grandi entità in cui si crede, a cominciare
dall’Islam e dal Cristianesimo».
Le terre di missione sono anche un grande bacino - è brutto dirlo - di martirio cristiano? Cosa abbiamo da imparare da queste testimonianze?
«A proposito di martirio, noi come Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli attraverso l’Agenzia Fides pubblichiamo ogni anno delle statistiche; per esempio, nel 2015 sono stati uccisi almeno 22 operatori pastorali tra sacerdoti, religiosi, laici e vescovi; dal 2000 al 2015 nel mondo i martiri sono stati quasi quattrocento, tra cui 5 vescovi. È quasi impossibile che l’annuncio della fede a volte non richieda anche il sacrificio della propria vita. Questo ce lo dice Gesù nel Vangelo: “se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi”. L’annuncio del Vangelo è sempre scomodo, al di là anche delle vite umane. La fede stessa a volte è oggetto di martirio, per ciò che annuncia, per la giustizia che richiede, per la difesa dei poveri…».
Le terre di missione sono anche un grande bacino - è brutto dirlo - di martirio cristiano? Cosa abbiamo da imparare da queste testimonianze?
«A proposito di martirio, noi come Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli attraverso l’Agenzia Fides pubblichiamo ogni anno delle statistiche; per esempio, nel 2015 sono stati uccisi almeno 22 operatori pastorali tra sacerdoti, religiosi, laici e vescovi; dal 2000 al 2015 nel mondo i martiri sono stati quasi quattrocento, tra cui 5 vescovi. È quasi impossibile che l’annuncio della fede a volte non richieda anche il sacrificio della propria vita. Questo ce lo dice Gesù nel Vangelo: “se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi”. L’annuncio del Vangelo è sempre scomodo, al di là anche delle vite umane. La fede stessa a volte è oggetto di martirio, per ciò che annuncia, per la giustizia che richiede, per la difesa dei poveri…».
LA CARITÀ CHE SI FA PROSSIMITÀ
Uno dei motti del pontificato di Papa Francesco è di una «Chiesa in uscita»; come vivere questo dinamismo?
Uno dei motti del pontificato di Papa Francesco è di una «Chiesa in uscita»; come vivere questo dinamismo?
«Non solo il Santo Padre parla di Chiesa in uscita, ma è lui stesso a
mostrare cosa questo significhi. Veniamo da un anno così importante
come il Giubileo della Misericordia e il Papa ci ha fatto vedere come
egli, quasi come un grande parroco di tutta la Chiesa, intende per
questo dinamismo. Ciascuno di noi è quindi chiamato a tradurlo a seconda
del compito che svolge nella Chiesa. Come Prefetto di questa
Congregazione ritengo che siamo in uscita nel momento in cui ci facciamo
prossimi a tutte quelle situazioni che incontriamo nelle varie Diocesi,
e non solo nel servizio che reciprocamente rendiamo noi a loro, ma
anche che loro stesse rendono alla realtà ecclesiale universale».
Come sono percepiti «Roma» e il pontificato di Papa Francesco da terre lontane?
Come sono percepiti «Roma» e il pontificato di Papa Francesco da terre lontane?
«Quando viaggio vedo che c’è un grande amore. In America Latina, per
esempio, si percepisce una presa di coscienza rispetto al fatto che ciò
che il Papa comunica e manifesta è frutto di una profonda esperienza di
vita che proviene da quello stesso Continente. Ugualmente accade in
Africa: la gente è profondamente ammirata da questo modo con cui il Papa
interpreta la sua visione pastorale di sacerdote, di vescovo, di Papa,
verso tutti e senza confini. Anche in Continenti che sono culturalmente
diversi c’è una profonda ammirazione. Non lo dico per piaggeria, ma
forse chi non ama molto questi aspetti magari ne vede delle
problematiche. Non dimentichiamo che anche davanti a ciò che Cristo
faceva, un’opera buona per esempio, c’era chi lo amava e chi invece lo
disprezzava».
IL SERVIZIO ALL’EVANGELIZZAZIONE
Qual è lo «stato di salute» della sua Congregazione come organismo della Curia Romana?
«È doveroso essere sempre nella piena sintonia. La nostra
Congregazione non esiste in quanto organismo ma in quanto strumento per
la sollecitudine del Papa in ordine all’evangelizzazione. Questa è la
finalità alla quale noi aderiamo pienamente e per la quale esistiamo:
essere veramente diaconia, servizio, nelle mani del Papa e delle Chiese
territoriali per la loro crescita».
Spesso Propaganda Fide è percepita come un grande ente di potere che muove molti capitali; cosa risponde?
Spesso Propaganda Fide è percepita come un grande ente di potere che muove molti capitali; cosa risponde?
«Non so se c’è un mito intorno a questa realtà. Non possiamo negare
che i fedeli nel corso dei secoli hanno sempre visto l’opera missionaria
come qualcosa che gli appartiene e hanno voluto in qualche modo
parteciparvi. Chi non ha potuto farlo personalmente ha sostenuto
quest’opera materialmente, lasciando i propri beni. Noi abbiamo un
compito, ed è quello di una buona, sana e trasparente amministrazione di
questi beni. La questione non riguarda la quantità ma la finalità che
abbiamo, e questa ha a che fare con lo sviluppo della Chiesa missionaria
in tutte le sue forme, da quella umana, a quella culturale, sociale,
evangelica, fino a quella in cui c’è bisogno di provvedere un buon
edificio, una buona scuola, un buon dispensario e via dicendo».
Nei primi mesi del Pontificato lei andava spesso a dare lezioni al Papa - si è detto – sulla «Chiesa missionaria»; come ha vissuto quei momenti?
Nei primi mesi del Pontificato lei andava spesso a dare lezioni al Papa - si è detto – sulla «Chiesa missionaria»; come ha vissuto quei momenti?
«Continuo ad andare e continuo ad avere quei rapporti che il mio
ufficio mi impone di avere con il Santo Padre. Fu il Papa stesso, con
quel suo umorismo simpatico a dire “ecco il Cardinale che mi dà
lezioni”, ma io non dò lezioni a nessuno. Il Papa giustamente
considerava necessario per lui iniziare ad avere più familiarità con gli
ambienti dell’Africa o dell’Asia. E ciò è un aspetto importante, perché
dimostra come il Papa entra in questo dialogo con le realtà di una sua
Congregazione, per dare poi un’adeguata risposta ai bisogni della
Chiesa. L’elemento di stima e di relazione rimane fondamentale».
A che punto sono i rapporti con il continente asiatico in generale?
A che punto sono i rapporti con il continente asiatico in generale?
«Ritengo che il Papa Santo Giovanni Paolo II, quando ha voluto il
Sinodo straordinario per l’Asia, abbia ben tracciato il cammino da
seguire riguardo a questo enorme Continente così vario, dove la presenza
cristiana è minoritaria, e cioè che il Terzo millennio deve guardare
all’Asia e all’annuncio del Vangelo in questo Continente. Ritengo che
questo sia ancora profondamente valido e deve ispirare il nostro
servizio, sia a livello organizzativo che di impegno sul piano
culturale, della conoscenza, delle relazioni e del Vangelo.
L’evangelizzazione, come dice Papa Francesco, va fatta attraverso due
grandi gambe: mediante l’annunzio vero del Vangelo, che è primario, e al
tempo stesso con la testimonianza, il contatto. Nel contatto, infatti,
testimoniamo ciò che siamo».
Si è da poco concluso l’Anno Santo della Misericordia. Cosa l’ha colpita di più di questo Giubileo?
Si è da poco concluso l’Anno Santo della Misericordia. Cosa l’ha colpita di più di questo Giubileo?
«Due aspetti. Da una parte, il fatto con cui Papa Francesco ha
riportato al centro e al cuore di tutta la Chiesa la misericordia, come
elemento qualificante della fede. L’altro elemento riguarda come questa
misericordia si fa prossima, e cioè il modo in cui il Santo Padre lo ha
interpretato sia come persona che come sacerdote e vescovo. Ciò ha
colpito moltissimo i fedeli e dovunque vado noto uno sviluppo enorme di
questa dimensione: non di un’opera sociale da fare, ma di un amore che è
misericordioso e si occupa degli altri».Una parola di sintesi sulla Chiesa oggi.
«Per quel che mi riguarda, devo dire che nel grande piano della
Provvidenza, come c’è stato un periodo in cui la Chiesa cosiddetta
Occidentale ha avuto un ruolo preminente in tutti i campi - culturale,
teologico, filosofico, umano, sociale, aspetti che ancora oggi
permangono, pur se in maniera numericamente ridotta -, così ci troviamo
oggi finalmente integrati in una realtà vivissima espressa dalle Chiese
africana, asiatica, dell’Oceania, dell’America latina. Grazie a Dio,
abbiamo oggi una visione di Chiesa più globale. Mi piace pensare a
quella bella immagine che ritrae Papa Giovanni XXIII con il mappamondo, e
credere che mentre lo muovesse guardava quasi in prospettiva una Chiesa
diventata globale, non più ferma in un continente o in un luogo
particolare della terra. Ecco la Chiesa che vedo oggi, aperta in tutta
la sua ricchezza a tutti i popoli di tutti i continenti».
Originario di Manduria, in Puglia, nel Sud
dell’Italia, il Cardinale Fernando Filoni ha ricevuto la consacrazione
episcopale da San Giovanni Paolo II il 19 marzo 2011, mentre Benedetto
XVI lo ha creato cardinale il 18 febbraio 2012. È stato Sostituto per
gli Affari Generali della Segreteria di Stato, Nunzio apostolico nelle
Filippine, quindi in Giordania e in Iraq. Papa Francesco lo ha scelto
come inviato personale proprio in Iraq nel 2014, dopo la grave
situazione creatasi a seguito della proclamazione dello Stato islamico.
Nel 2015 ha pubblicato «La Chiesa in Iraq», edito dalla Libreria
Editrice Vaticana