By Terrasanta.net
Andrea Avveduto
Andrea Avveduto
Deir Mimas è un piccolo paese cristiano nel sud del Libano. A sette
chilometri dal vicino confine con Israele, questo borgo sperduto è
immerso tra gli ulivi e ospita poche centinaia di anime. Il caos di
Beirut dista un'ora e mezza di macchina ed è qui, nella piccola
proprietà della Custodia di Terra Santa, che arriviamo con padre Toufic
Bou Mehri per la messa domenicale.
«Vengo qui ogni fine settimana,
per celebrare la messa e stare con i cristiani del Paese», spiega il
frate minore. Una presenza piccola, discreta, qualche decina di persone
di diverse confessioni. Da due anni però si sono aggiunti anche alcuni
profughi iracheni, scappati dalle persecuzioni del sedicente Stato
islamico. Partecipano anche loro all'Eucaristia, assorti in preghiera,
con il corpo in chiesa e il cuore nel lontano Iraq. Sono arrivati poco a
poco, senza portare nulla con sé. Chi era professore, chi imprenditore,
o chi faceva semplicemente l'operaio: oggi sono tutti uguali, in comune
hanno il triste destino che li ha allontanati da casa. Ognuno deve
ricominciare a vivere, in un altro Paese, e deve trovare la forza per
andare avanti. In alcuni casi è difficile. «Grazie agli aiuti ricevuti
dall'Associazione pro Terra Sancta – ci dice padre Toufic – abbiamo
acquistato alcune macchine per produrre l'olio. E così abbiamo potuto
avviare una piccola attività».
È un'iniziativa fondamentale nel
difficile compito dei frati sostenuti in questi anni dalla ong a
servizio della Custodia. Senza lavoro non c'è futuro. Per vivere hanno
innanzitutto bisogno di lavorare. Nel dialogo che si crea nel salone
parrocchiale dopo la messa, attorno a un buon caffè arabo e qualche
pasticcino, i drammi e le speranze di queste persone emergono, prima con
qualche esitazione, poi con sempre maggiore chiarezza.
«Quale
colpa grave ho commesso nella mia vita per essere qui, senza un amico, a
tirare a campare?». La domanda di Zued, un giovane di Mosul sui
trent'anni, rompe il silenzio. Come lui, altri vivono il dramma della
solitudine. «Per trovare l'unico amico della mia età devo fare i
chilometri e raggiungere Beirut». Non conosce il motivo ci tutta questa
sofferenza nemmeno Jilan, ragazza diciassettenne scappata con i genitori
da Qaraqoush. «Io non riesco a perdonare chi mi ha distrutto la vita.
Non ce la faccio. Come si fa a perdonare chi ha ucciso e rubato il
futuro a così tante persone?».
Silenzio. E quando accenniamo alla
possibilità di tornare a casa – una volta che le condizioni lo
renderanno possibile – esplode un coro di «No!». «Non torneremo mai più!
Abbiamo perso tutti i nostri beni, la storia si ripete, ancora una
volta. Chi ora occupa i posti di responsabilità nel governo non vuole il
ritorno dei cristiani, c'è un progetto molto preciso che vuole
eliminare i cristiani dal Medio Oriente». E poi ancora, una domanda che
ammutolisce: «Perchè l'Europa si è dimenticata degli iracheni?».
I
frati si fanno vicini e compagni dentro i drammi che la vita non ha
risparmiato a queste persone dai volti sofferenti e a tratti tristi. Ma
c'è anche spazio per sperare, nel lungo e difficile cammino del perdono.
«Gesù ci ha detto di perdonare – dice Heline – e se vogliamo essere
cristiani, dobbiamo provarci». Non sarà semplice, ma le parole di Gesù
interrogano ancora tutti questi cristiani rifugiati in Libano. È la
fraterna presenza dei francescani a testimoniare che alla fine perdonare
rende più lieta la vita. E forse conviene.