By Radiovaticana, 8 giugno 2011
L’Iraq è alle prese con le enormi sfide della ricostruzione del proprio tessuto sociale e politico -istituzionale. A preoccupare gli analisti è, in particolare, il timore che sulla scia delle proteste esplose nel mondo arabo, possano verificarsi disordini anche in Iraq, dove il governo del premier Nuri al Maliki stenta a varare un efficace piano di riforme. Il primo ministro ha 'concesso' altri 100 al suo governo per implementare le riforme. Ma la situazione nel Paese è complicata anche dai molteplici strappi provocati dal recente conflitto e che si ripercuotono spesso sulle minoranze del Paese. Tra queste, quella dei cristiani iracheni ha dovuto sopportare di recente grandi sofferenze.
A confermarlo è mons. Giovanni Giudici, vescovo di Pavia e presidente di Pax Christi- Italia in visita nella regione.
L'intervista è di Stefano Leszczynski:
Si ha la sensazione di un Paese che fatica a trovare di nuovo equilibri di convivenza tra le persone. Ci sono segni evidenti di difesa, di timore, di ansietà, cosa che si ripercuote anche nelle famiglie: quando le visitiamo sentiamo sempre che la grande domanda è la sicurezza, la tranquillità, la possibilità di riprendere una vita sociale, di relazione, che sia normale.
Si ha la sensazione di trovarsi ancora in un Paese in guerra?
In guerra no, si capisce che il passaggio è stato superato, però certamente è un Paese che ancora non trova equilibri di convivenza serena e fiduciosa.
Un Paese frammentato e con poca sicurezza. Tra gli elementi più deboli di questa realtà c’è sicuramente la Chiesa?
Intanto vorrei dire l’aspetto più bello e positivo: è una Chiesa di cristiani che pregano, oserei dire, tanto e questo è sempre un segno di vitalità profonda. Poi, certo, è una Chiesa che è tentata di lasciare il Paese non come Chiesa in quanto tale ma come singoli individui perché, appunto, l’incertezza è particolarmente forte per le minoranze.
Appare quindi del tutto prematuro iniziare a immaginare un possibile ritorno di quelli che già sono usciti tra i cristiani?
Penso che sarebbe un grande aiuto alle comunità qui presenti se ci fosse qualcuno di questi che ritorna. Certo, man mano, nelle zone soprattutto del nord si vanno profilando una maggiore tranquillità e una maggiore possibilità di lavoro e di sviluppo, però non è ancora del tutto conclusa la traversata verso condizioni di armonia sociale.
La Chiesa si è spesa moltissimo per la pace in Iraq e lo stesso sta avvenendo adesso anche in Paesi più lontani come la Libia. Sono paragonabili queste due situazioni?
Certamente, almeno sul punto della inefficacia di una guerra, nel senso che una guerra apre problemi grandi e le ferite che provoca hanno un tempo di guarigione, forse non si può neanche dire una guarigione definitiva, che sono molto lunghi. Qui si vede esattamente cosa può capitare e gli squilibri che si creano fanno vittime non solo di sangue, di morti, ma vittime anche di culture che vengono messe in difficoltà, di convivenza che viene resa difficile e anche di blocco dello sviluppo di un Paese.
L’Iraq è alle prese con le enormi sfide della ricostruzione del proprio tessuto sociale e politico -istituzionale. A preoccupare gli analisti è, in particolare, il timore che sulla scia delle proteste esplose nel mondo arabo, possano verificarsi disordini anche in Iraq, dove il governo del premier Nuri al Maliki stenta a varare un efficace piano di riforme. Il primo ministro ha 'concesso' altri 100 al suo governo per implementare le riforme. Ma la situazione nel Paese è complicata anche dai molteplici strappi provocati dal recente conflitto e che si ripercuotono spesso sulle minoranze del Paese. Tra queste, quella dei cristiani iracheni ha dovuto sopportare di recente grandi sofferenze.
A confermarlo è mons. Giovanni Giudici, vescovo di Pavia e presidente di Pax Christi- Italia in visita nella regione.
L'intervista è di Stefano Leszczynski:
Si ha la sensazione di un Paese che fatica a trovare di nuovo equilibri di convivenza tra le persone. Ci sono segni evidenti di difesa, di timore, di ansietà, cosa che si ripercuote anche nelle famiglie: quando le visitiamo sentiamo sempre che la grande domanda è la sicurezza, la tranquillità, la possibilità di riprendere una vita sociale, di relazione, che sia normale.
Si ha la sensazione di trovarsi ancora in un Paese in guerra?
In guerra no, si capisce che il passaggio è stato superato, però certamente è un Paese che ancora non trova equilibri di convivenza serena e fiduciosa.
Un Paese frammentato e con poca sicurezza. Tra gli elementi più deboli di questa realtà c’è sicuramente la Chiesa?
Intanto vorrei dire l’aspetto più bello e positivo: è una Chiesa di cristiani che pregano, oserei dire, tanto e questo è sempre un segno di vitalità profonda. Poi, certo, è una Chiesa che è tentata di lasciare il Paese non come Chiesa in quanto tale ma come singoli individui perché, appunto, l’incertezza è particolarmente forte per le minoranze.
Appare quindi del tutto prematuro iniziare a immaginare un possibile ritorno di quelli che già sono usciti tra i cristiani?
Penso che sarebbe un grande aiuto alle comunità qui presenti se ci fosse qualcuno di questi che ritorna. Certo, man mano, nelle zone soprattutto del nord si vanno profilando una maggiore tranquillità e una maggiore possibilità di lavoro e di sviluppo, però non è ancora del tutto conclusa la traversata verso condizioni di armonia sociale.
La Chiesa si è spesa moltissimo per la pace in Iraq e lo stesso sta avvenendo adesso anche in Paesi più lontani come la Libia. Sono paragonabili queste due situazioni?
Certamente, almeno sul punto della inefficacia di una guerra, nel senso che una guerra apre problemi grandi e le ferite che provoca hanno un tempo di guarigione, forse non si può neanche dire una guarigione definitiva, che sono molto lunghi. Qui si vede esattamente cosa può capitare e gli squilibri che si creano fanno vittime non solo di sangue, di morti, ma vittime anche di culture che vengono messe in difficoltà, di convivenza che viene resa difficile e anche di blocco dello sviluppo di un Paese.