Fonte: Avvenire 8 settembre 2009
di Camille Eid
Dei 600 mila cristiani rimasti in Iraq fino a dieci anni fa, una buona metà ha ormai raggiunto una nuova patria in America, Australia o Europa, oppure spera di raggiungerla presto aspettando il visto in qualche Paese del Medio Oriente. L’altra metà risulta per lo più concentrata nella Piana di Ninive, una fertile zona stretta tra il Tigri e il Grande Zab, considerata da molti iracheni cristiani come la propria patria. All’inizio della guerra, nel 2003, molte famiglie cristiane hanno preferito lasciare Baghdad per riparare a Mosul o nei loro villaggi d’origine dislocati nella Piana, all’interno della zona autonoma curda. Una crescente concentrazione che sta trasformando la Piana in un grande ghetto. Solo la campagna di terrore scatenatasi a Mosul nell’ottobre dell’anno scorso ha portato all’esodo di 2350 famiglie cristiane da questa città settentrionale, per un totale di almeno 13mila persone. Oggi, i cristiani sfollati vivono principalmente a Bakhdida (detta anche Qaraqosh), Bartela, Batnaya, Tellsqof, Telkaif, Baashiqa e Alqosh. Su chi cada la responsabilità di questi esodi forzati non è chiaro. «Se dietro gli attentati sono gli estremisti islamici – dice l’arcivescovo di Kirkuk Louis Sako – l’obiettivo non può che essere l’esodo dei cristiani verso altri Paesi piuttosto che verso una pur ridotta zona irachena. Ci sono probabilmente altri piani di spartizione dell’Iraq». Di sicuro, la pulizia etnico-religiosa giocata tra sunniti e sciiti a Baghdad, come tra sunniti e curdi nelle zone disputate dell’Iraq settentrionale, è finita per danneggiare proprio i cristiani. I curdi – che controllano militarmente Mosul – accusano le bande armate sunnite legate ad al-Qaeda di espellere i cristiani da questa città, mentre i partiti sunniti la buttano proprio sui peshmerga curdi. Gli uni e gli altri hanno gli occhi puntati alle elezioni legislative, fissate per il 30 gennaio 2010. Creare un clima di violenze in vista della tornata elettorale, quindi, per costringere i cristiani a un esodo forzato verso una zona determinata. Il “no” alla ghettizzazione e alla creazione di una “zona sicura” è stato ribadito più di una volta dalla gerarchia cristiana irachena. «Creare una enclave nella piana di Ninive porterà solo a delle complicazioni nel Paese», assicura un esperto caldeo. «Nel migliore dei casi – aggiunge – essa diventerà una zona cuscinetto fra arabi e curdi e potrà essere strumentalizzata. La missione della nostra Chiesa è quella di essere un ponte fra le diverse culture in un Paese fondato su criteri civici, non in un Iraq diviso che corre il rischio di ripiegarsi su se stesso». «Ogni movimento massiccio di popolazione provocato dalla violenza o dall’incertezza per il futuro è per sua natura ambiguo», osserva l’arcivescovo latino di Baghdad, Jean Benjamin Sleiman. Ninive, «I programmi di ripopolamento nella Piana di Ninive o in qualsiasi altro posto, aggiunge, rimane un miraggio irrealizzabile, un progetto pericoloso che metterebbe a rischio il futuro della Chiesa irachena». Sono tutti concordi nel ritenere che lo scopo di riunire i cristiani in un solo luogo non è la volontà di meglio proteggerli. Vuole invece dare l’idea che la divisione politica sia l’unica possibilità per il futuro dell’Iraq. Ai cristiani interessa, invece, rimanere fedeli membri di una nazione che sarà multireligiosa o non sarà. Dall’ottobre dello scorso anno 2.350 famiglie, per un totale di almeno 13mila persone, si sono concentrate nella piana: lì sunniti e curdi hanno campo libero.