Fonte AsiaNews
In due giorni a Mosul, due nuovi attacchi alla parrocchia del Santo Spirito; colpito anche il convento delle domenicane. Si tratta delle azioni più eclatanti di una vera e propria campagna che vuole i cristiani fuori dall’Iraq. Il dramma dell’emigrazione, un problema che riguarda anche sciiti e sunniti.
La chiesa caldea del Santo Spirito a Mosul sembra ormai obiettivo di una vera e propria campagna del terrore. Dopo gli attentati già subiti a fine settembre, il 4 e il 5 ottobre un gruppo di uomini ha sparato contro l’edificio religioso ferendo una delle guardie, al momento ricoverata in ospedale. Fonti di AsiaNews riferiscono che secondo i parrocchiani le violenze sono una coda delle proteste islamiche alla dibattuta lezione di Benedetto XVI in Germania. Ma i primi attacchi alla parrocchia del Santo Spirito risalgono già all’agosto 2004, diversi mesi prima cioè che il card. Ratzinger diventasse papa. La verità è che, come già hanno denunciato tramite AsiaNews personalità ecclesiastiche irachene, gli attentati sono parte di una doppia strategia: da una parte l’azione di forze intenzionate a destabilizzare e dividere il Paese, dall’altra quella del fanatismo islamico di “spingere i cristiani fuori dall’Iraq”. E così la persecuzione è attuata su due fronti: quello plateale fatto di bombe, sparatorie e messaggi video (nell’ultimo il capo di al-Qaeda in Iraq, Abu Hamza al-Muhajir, invitava per il Ramadan a “catturare alcuni cani cristiani”); e quello “nascosto” fatto di discriminazioni, continue minacce e rapimenti. Questi ultimi, sempre più frequenti, alimentano una vera e propria industria.
La persecuzione plateale
Auto bomba, colpi di artiglieria, ordigni artigianali sono gli strumenti più utilizzati nelle operazioni terroristiche, che hanno colpito finora obiettivi cristiani. Tra gli attacchi più recenti oltre quelli alla Santo Spirito (24, 26 settembre; 4 e 5 ottobre) anche quello al convento delle suore domenicane irachene a Mosul. Il 2 ottobre l’edificio è finito sotto una raffica di proiettili che non ha ferito nessuno. Il giardino del convento, però, è bruciato.
Nel più feroce attacco di quest’anno, domenica 29 gennaio, una serie di esplosioni coordinate nei pressi di chiese ed edifici cristiani a Kirkuk e Baghdad ha ucciso 3 persone e ferite 9. Le autobomba hanno colpito a Kirkuk la chiesa cattolica dedicata alla Vergine, nella capitale la chiesa cattolica di san Giuseppe e la chiesa anglicana nella zona di Nidhal. Anche allora si era visto negli attentati una reazione islamica alle vignette “offensive” su Maometto.
Sulle violenze contro le chiese irachene polizia e esercito nazionale non hanno mai condotto indagini adeguate o trovato i responsabili, denuncia la popolazione. Così le varie comunità si difendono da sole: ormai quasi ogni chiesa ha almeno una guardia, spesso giovani ragazzi volontari appostati davanti all’edificio per controllare l’arrivo di possibili attentatori, mentre all’interno si celebra messa.
La persecuzione nascosta
Un recente rapporto Onu denuncia che le minoranze religiose in Iraq “sono diventate le regolari vittime di discriminazioni e violenze, con atti che vanno dall’intimidazione all’assassinio”. Nel documento si sottolinea che “i membri della minoranza cristiana sono particolarmente bersagliati”. Questo perché più indifesi delle altre comunità, non avendo una forza politica interna o estera a difenderli. La persecuzione non è attuata solo con azioni forti e simboliche. Più volte dall’Iraq, fonti di AsiaNews hanno denunciato che “sul lavoro e nelle pratiche di amministrazione pubblica i cristiani vengono considerati cittadini di seconda classe: per ottenere un documento, ad esempio, si impiegano sempre tempi più lunghi di un musulmano”.
A Baghdad, funzionari cristiani del governo non escono di casa da mesi dopo aver ricevuto pesanti minacce. Paura regna anche a Basra, nel sud, come pure a Mosul, nel nord. Nel mirino di fondamentalisti anche le donne, minacciate o uccise quando non rispettano il codice d’abbigliamento islamico. Aumentano i rapimenti di laici e sacerdoti, i cui ingenti riscatti mettono in ginocchio famiglie e intere comunità. “I cristiani sono ritenuti più benestanti delle altre comunità – spiega Yousef Lalo, assistente del governatore di Mosul – così la gente cerca di estorcere loro più denaro possibile”. Gli stessi cristiani dicono, inoltre, di essere ormai abituati alle accuse, del tipo ‘crociati infedeli’, che “riecheggiano” nelle città.
Il dramma dell’emigrazione
Su una popolazione di 27 milioni di iracheni, i cristiani sono circa 800 mila (il 3%), suddivisi in vari riti e confessioni. Un censimento del 1987 stimava in 1,4 milioni di membri la comunità cristiana. Il calo è dovuto principalmente alla crescente emigrazione: dall’inizio della guerra in Iraq - marzo 2003 - sono partiti in circa 100 mila.
Molti si recano in Giordania: stando a stime dell’UNHCR, nei primi 4 mesi del 2006 i cristiani rappresentavano il più grande gruppo di nuovi rifugiati ad Amman. Sempre l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati stima che il 44% degli iracheni che cercano asilo in Siria sono cristiani. Forte è l’emigrazione anche verso Turchia, Svezia e Australia.
Massiccia è anche la migrazione interna verso il più pacifico Kurdistan. Qaraqosh, 67 km da Arbil, fino a poco fa contava circa 30 mila abitanti, più del 90% cattolici. Ora la popolazione tocca i 50 mila, in seguito all’arrivo di numerose famiglie arrivate da Baghdad e Mosul. Il problema rimane la sicurezza: Sarkis Aghajan - cristiano, ministro delle Finanze nel governo regionale del Kurdistan – spiega che più di 30 villaggi cristiani sono stati ricostruiti, “ma la gente non vuole farvi ritorno, finché non si sentirà protetta”. Secondo Aghajan, “se i nostri amici non ci aiuteranno ora, la loro amicizia non varrà nulla in futuro; continuando così, Baghdad e Mosul si svuoteranno di cristiani”.
Seppure in dimensioni diverse, il dramma dei cristiani iracheni è lo stesso vissuto dai sunniti e dai curdi, come pure della maggioranza sciita. Le violenze settarie non cessano, come gli attentati alle moschee. Il ministero per la migrazione in Iraq, ha definito “in crescita” il numero di musulmani in fuga da Baquba, nella provincia di Diyala, dopo Baghdad la zona più colpita dagli scontri. (MA)