Tra vent’anni non ci saranno più cristiani in Iraq. A tre anni dall’invasione dell’Iraq si pensa che metà dei cristiani abbia lasciato il paese, fuggendo dalle bombe, dagli omicidi e dalle minacce di morte. Perché le forze della coalizione non hanno fatto di più per proteggerli?...
Ci sono voluti tre morti nella sua famiglia prima che Shamon Isaac si decidesse a lasciare Baghdad. Il primo è stato suo genero, Raid Khalil, ucciso a colpi di arma da fuoco nel gennaio del 2005 mentre cercava di sfuggire agli uomini armati che avevano cercato di caricarlo a forza insieme a suo padre in un minibus. Come molti cristiani Khalil aveva ricevuto una minaccia di morte firmata Esercito Islamico in Iraq. Raid ha lasciato la moglie ed una bimba di quasi due anni.
Quattro settimane più tardi il fratello di Isaac è stato fermato ad un posto di blocco da sette uomini che indossavano l’uniforme dell’esercito iracheno mentre stava andando a ritirare i passaporti che avrebbero permesso a lui ed alla sua famiglia di lasciare il paese. “I vicini hanno cominciato ad urlare a sua figlia che il padre era stato ucciso” dice Isaac “lei è uscita ed ha trovato il suo corpo per strada.” In agosto poi è stata la volta del cognato di Isaac, ucciso nel suo negozio da tre uomini che gli hanno sparato.
La famiglia di Isaac non aveva scelta. Quando in gennaio alcuni uomini armati avevano iniziato a sparare in area da alcune macchine attorno alla sua casa di Dora, si era trasferita in un altro quartiere di Baghdad, Al-Jediya. Ma era l’epoca delle grandi manifestazioni del mondo musulmano contro le vignette pubblicate in Danimarca ed il 29 del mese delle bombe colpirono sette chiese a Baghdad, Mosul e Kirkuk, uccidendo 16 persone. Un giorno poi un uomo entrò nel negozietto che la famiglia di Isaac aveva aperto vicino alla nuova casa, comprò delle sigarette ed uscì, ma solo dopo aver lasciato una lettera sul bancone, una lettera su cui era scritta una sola parola: “sangue.”
I meccanismi del terrore si sono radicati in tutte le comunità irachene, sunnita e sciita, araba e curda, ma nonostante i cristiani siano meno del 4% della popolazione – meno di un milione di persone - nei primi quattro mesi del 2006 essi costituivano il gruppo più numeroso di rifugiati arrivati ad Amman, in Giordania, secondo un rapporto non reso pubblico dall’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiato delle Nazioni Unite. In Siria che confina per più territorio con l’Iraq, il 44% dei richiedenti asilo è cristiano, secondo le fonti dell’UNHCR che ha iniziato a registrare i rifugiati nel dicembre del 2003, e che ha registrato un picco delle nuove domande all’inizio del 2006. Fuggendo gli omicidi, i rapimenti e le minacce di morte essi lasciano Baghdad, la zona di Bassura controllata dagli inglesi ed anche, in modo sproporzionato, Mosul, nel nord del paese. Il Vescovo Cattolico di Baghdad, Andraous Abouna, ha recentemente affermato che metà dei cristiani iracheni ha lasciato il paese da dopo l’invasione guidata dagli stati Uniti.
L’esodo dei cristiani iracheni però è passato sotto silenzio a dispetto del fatto che sia George Bush sia Tony Blair abbiano parlato di come la propria fede cristiana abbia condizionato le proprie scelte politiche riguardo l’Iraq. In uno dei suoi primi discorsi dopo l’11 settembre il presidente americano aveva descritto la lotta contro il terrorismo come una “crociata”, una caratterizzazione che aveva saggiamente evitato di ripetere ma che è abitualmente ripresa dai critici della politica estera americana, inclusa Al Qaeda, ed altri gruppi di insorti in Iraq. Molti cristiani sono stati accusati di essere uguali alle forze multinazionali o di aiutare l’Occidente. I capi cristiani iracheni sono amareggiati per il poco che l’Occidente ha fatto per proteggerli.
Quando la famiglia di Isaac – 12 persone in tutto - ha lasciato Baghdad si è trasferita nella terra madre della cristianità irachena, le pianure di Ninive. Io l’ho incontrata tre settimane dopo il suo arrivo, stipata in una camera a Bartellah, appena fuori Mosul, nella parte della fertile pianura lungo le rive del Tigri dove quasi ogni villaggio ha la sua chiesa, ed ogni chiesa ha una guardia armata. Le pianure sono uno dei luoghi abitati in modo continuativo da più tempo nel mondo. Fu per salvare Ninive che il Dio biblico restituì Giona alla vita dal ventre della balena, ed i cristiani assiri qui parlano ancora il Siriaco, un dialetto dell’aramaico, la lingua che Gesù parlava con i suoi apostoli.
Ma il ruolo di Ninive nell’eredità cristiana conta poco oggi se paragonato al suo valore strategico nella partita geo-etnica del conflitto iracheno. Situata tra il Kurdistan iracheno e le roccaforti della ribellione ad ovest di Mosul, le Pianure di Ninive sono di vitale importanza per la sicurezza di ambo le zone, così come per le ambizioni territoriali dei curdi e degli arabi sunniti. Viaggiando in Iraq come parte di una missione sui diritti umani coordinata dal Minority Rights Group International, in associazione con la Assistance Mission for Iraq delle Nazioni Unite (UNAMI) ho appreso che nessun operatore umanitario aveva potuto operare nell’area dal maggio del 2004 quando 4 americani appartenenti ad una associazione di aiuto battista erano stati uccisi in un’imboscata sulla strada tra Mosul ed Erbil.
A Mosul i gruppi baathisti e di estremisti islamici hanno radici profonde che permettono loro di controllare interi quartieri e, periodicamente, le forze di polizia locali. “Hanno fermato una studentessa cristiana dell’università, l’hanno portata via e le hanno tagliato la testa” mi ha detto una dirigente di un’associazione a sostegno delle donne, arrossendo al solo rievocare le immagini. “Hanno detto che qualsiasi donna che si presenterà all’università senza il velo sul capo – l’hijab – sarà uccisa.”
“La situazione di insicurezza riguarda tutte le comunità della città” mi ha spiegato il Dr. Yousef Lalo, assistente del governatore di Mosul, “ma come minoranza i cristiani sono particolarmente vulnerabili: sono spesso più ricchi degli appartenenti alle altre comunità così sono nel mirino di chi cerca denaro.” Ex insegnante di psicologia, Lalo è circondato non più da studenti ma da guardie del corpo che testimoniano il suo essere l’unico cristiano rimasto nell’apparato amministrativo della città.
“Molte chiese sono state bombardate nel 2004 e nel 2005 ma le forz multinazionali e l’esercito iracheno non hanno trovato i responsabili ed a dire il vero non hanno neanche indagato sugli episodi. Così la situazione è peggiorata e la gente non è andata in chiesa neanche a Natale o Pasqua. Ora sono i cristiani a proteggere le chiese.”
Lalo non può fornir il numero esatto di quanti cristiani hanno lasciato Mosul ma parla di “migliaia” che sono emigrarti in Giordania, Siria e Turchia. “Metà dei cristiani di Mosul sono andati via dal 2003 ed il resto progetta di farlo una volta che ne avrà a possibilità. Molti membri della mia famiglia sono emigrati in Australia ed in Svezia e sono diventati rifugiati.”
Eppure questo professore dai modi gentili rimane per lottare: “Questa è la mia terra, la terra di mio padre e di mio nonno, e non me ne andrò. Ho anche proibito ai miei tre figli di lasciare il paese.”
La mattina che lo ho incontrato Lalo aveva avuto il suo primo incontro con il comandante della forza multinazionale di Mosul e Ninive Est, il Colonnello Michael Shields, sebbene “incontro” non sia il termine esatto per definire ciò che era iniziato con le parole “Chi è il capo, qui? Dov’è il capo?” pronunciate dal comandante di quattro soldati americani in pieno assetto di guerra arrivati alla porta non annunciati. Un incontro comunque che, una volta deposte le armi da parte degli americani, era proseguito in modo educato. Sapevo che Lalo era amareggiato per la nomina da parte americana di un sindaco musulmano in un’area a maggioranza cristiana e Shields mi disse che stava lavorando duramente per migliorare i contatti con gli amministratori locali: “La provincia di Ninive è un’area sensibile alla questione etnica, se il governatore mostra favoritismi è un problema.” Lalo aveva replicato bruscamente che i predecessori di Shields erano stati un “male per i cristiani” ma il colonnello aveva risposto che quella era “acqua passata.”
L’ultima speranza per i cristiani in Iraq potrebbe essere, secondo Lalo, Sarkhis Aghajan, ministro delle finanze del governo regionale curdo e, fino allo scorso maggio, vice primo ministro del governo curdo, colui che ha inviato denaro a Ninive per pagare le guardie di protezione armate.
Nella sua suntuosa residenza ad Ankawa, una cittadina cristiana nel Kurdistan iracheno, Aghajan mi ha parlato della sua comunità sedendo tra un quadro della crocifissione ed una statua di un’aquila. “Come cristiani” mi ha detto in siriaco “consideriamo Ninive come la nostra regione. Nei secoli la nostra gente è stata costretta a partire ed a vivere altrove.” Questo include coloro che sono fuggiti dalla campagna di “arabizzazione” delle aree curde e cristiane del nord Iraq da parte di Saddam Hussein, quando la terra fu ridistribuite per forza ai coloni arabi. Ma ora, mi spiega Aghajan, circa 3500 famiglie sono arrivate da Mosul e Baghdad per stabilirsi nelle pianure di Ninive.
“Più di 30 villaggi cristiani sono stati recuperati, ma la gente non tornerà fino a quando non sentirà che i propri diritti nazionali non saranno garantiti. Prima ogni giorno qualcuno veniva rapito. Noi abbiamo aumentato il numero delle guardie armate ed ora sono migliaia. Non minacciamo le altre comunità, ma i curdi difendono i curdi, gli arabi gli arabi e noi difendiamo noi stessi.”
Ma le ambizioni di Aghajan sono maggiori. Egli è convinto che l’unico modo per assicurare protezione a lungo termine sia una regione autonoma, un rifugio sicuro, da creare per i cristiani di Ninive, così come per le altre comunità minoritarie come gli Yezidi e gli Shabak. “Questa regione speciale aiuterebbe i cristiani a mantenere la propria storia in questi luoghi, ed i curdi e gli arabi non potrebbero intervenire. Questo incoraggerebbe i cristiani che vivono all’estro a tornare, e sarebbe un esempio per tutto il Medio Oriente.”
Aghajan è anche certo che questa regione autonoma dovrebbe far parte di un più esteso Kurdistan, cosa che ha permesso ad alcuni politici di accusarlo di essere al servizio del governo curdo. Uno di essi, che teme il controllo curdo quanto il ritorno dei baathisti, lo descrive come “il servo cristiano del primo ministro Barzani.” Ma Aghajan insiste che le pianure di Ninive otterrebbero “ciò che è giusto” dall’amministrazione curda piuttosto che dal governo centrale. Egli, pur lodando la leadership di Barzani, sa che molti cristiani stanno già esprimendo il loro pensiero tornando nel relativamente tranquillo Kurdistan.
Aghajan prosegue descrivendo come la sua gente sia stata tradita. “Sarebbe stato facile per gli americani e gli inglesi aiutarci quando le chiese sono state attaccate – era un’opportunità storica – ma non hanno fato nulla. Se ci avessero aiutato finanziariamente, ad esempio, avremmo potuto proteggere tutte le famiglie cristiane di Mosul.”
Rispondendo alla domanda se pensava che gli americani avessero forse evitato di aiutare i cristiani temendo di essere considerati di parte o anti-islamici Aghajan agita le mani con gesto impaziente. “Non era necessario farlo pubblicamente, avrebbero potuto aiutarci attraverso il Governo Regionale Curdo o attraverso singoli individui. Ora i cristiani di Mosul sono costretti a cambiare la propria religione, a finanziare il jihad. Se ascolta la storia di questa gente capirà la tragedia, e non sto parlando di una o due famiglie, e neanche di migliaia, sto parlando di una nazione.”
“Se i nostri amici non ci aiutano ora, la loro amicizia non avrà valore nel futuro. Se continua così Baghdad e Mosul non avranno più cristiani.”
Mentre Aghajan parlava mi venivano in mente le parole pronunciate da Bush più di tre anni fa sul ponte della nave americana Abraham Lincoln, quando annunciò “la fine delle maggiori operazioni di guerra in Iraq.” Il presidente ama citare la Bibbia nei suoi discorsi e terminò quello con un incitante messaggio del profeta Isaia “…ai prigionieri: "Uscite",e a quelli che sono nelle tenebre: "Mostratevi!”
A maggio è stato approvato il primo governo non transitorio dalla caduta di Saddam Hussein, e Wijdan Mikha'il, membro della lista laica Iraqi National List, è stata nominata ministro per i diritti umani – un compito difficile, mi ha detto tristemente, in un paese in cui “la gente non ha diritti.” Mikha'il è cristiana, l’unica, nel governo. Quando è stata nominata ha trasferito la sua famiglia, inclusi i tre giovani figli, dalla spaziosa casa di Baghdad in un albergo dietro le protezioni di cemento della Zona Verde. Una sera a cena mi ha parlato del settarismo che ha avvelenato la società irachena.
“Mi sono sempre considerata per prima cosa un’irachena e poi una cristiana. Prima vivevamo insieme e non pensavamo mai a chi era sunnita, sciita o cristiano, ora è diverso.” Mikha'il ha discusso con il Consiglio per le Minoranze iracheno, un nuovo gruppo ombrello che sta spingendo per degli emendamenti alla costituzione che migliorino i diritti umani. Quando le ho chiesto quanti cristiani stavano lasciando il paese mi ha detto: “Il processo di emigrazione è iniziato prima della guerra ma ora è accelerato. Nelle scuole i bambini ora dicono che chi è cristiano è kaffir, diverso dai musulmani , e questo significa che può essere trattato in modo diverso. Tra vent’anni non ci saranno più cristiani in Iraq.”
Mentre mi parlava, due uomini e due donne, tutti vestiti di nero, entrarono nel ristorante dell’albergo e si sedettero in un angolo. Il ministro abbassò la voce: “Sono testimoni contro Saddam.” Il processo a Saddam Hussein era in corso in quei giorni, tra un aggiornamento ed un altro, e Mikha'il iniziò ad elencarmi alcune delle atrocità delle quali l’ex dittatore era accusato, inclusa l’Anfal, la campagna di genocidio dei curdi durante la quale anche molti cristiani furono uccisi.
Era peggio prima o è peggio ora dal punto di vista della comunità cristiana? La risposta di Mikha'il fu immediata: “E’ peggio ora e non solo per la mia comunità, ma per tutti gli iracheni. Naturalmente ciò che sta succedendo è stato parzialmente creato da Saddam. In un anno ci è successo ciò che sarebbe successo nel corso di 15 anni se Saddam fosse rimasto al potere: mancanza di sicurezza, crollo della società…” Dopo queste parole Mikha'il improvvisamente scoppiò a ridere, per la prima volta quella sera: “Forse è meglio arrivarci un in anno, così possiamo lavorare per migliorare le cose.”
L’avrei ritrovata in Iraq dopo vent’anni? Mikha'il esitò. “Non penso. Amo l’Iraq, ho avuto molte occasioni di partire ma sono rimasta. Eppure non voglio che i miei figli vivano qui.”
Tradotto da Baghdadhope