Giovanni Battista Re
Nella prospettiva del grande giubileo del 2000 Giovanni Paolo II desiderava ardentemente di andare a pregare nei luoghi più legati alla storia della nostra salvezza, che ha il suo vertice nell’incarnazione del Verbo di Dio. In particolare aspirava recarsi a Ur dei Caldei, patria di Abramo, sul Sinai, dove Dio diede a Mosè i comandamenti e strinse la sua alleanza con l’umanità, sul monte Nebo, dal quale lo stesso Mosè vide la terra promessa, e in Terra santa: Nazareth, Betlemme e Gerusalemme. Il Pontefice ebbe la gioia di visitare, in due viaggi compiuti rispettivamente nel febbraio e nel marzo del 2000, tutti i luoghi appena ricordati meno il primo, cioè Ur dei Caldei, che nel progetto papale rappresentava proprio il punto di partenza, da realizzare nel 1999, separatamente dagli altri.
Com’è noto, Ur dei Caldei, situata nel sud dell’Iraq a quindici chilometri da Nassiriya in una zona pressoché deserta vicina al delta dell’Eufrate, è il luogo da dove, secondo la narrazione biblica, Abramo partì, accogliendo la voce di Dio. Dell’antica Ur oggi esistono soltanto resti archeologici, che io visitai nel 1969. Ricordo che nella parte meridionale di questa località — i resti del palazzo reale e dei templi sono al centro e nella parte settentrionale — vi sono le tracce di un quartiere abitato e fra quei ruderi mi furono indicate le fondamenta di una casa che l’archeologo inglese Leonard Woolley, direttore degli scavi di Ur tra il 1922 e il 1930, aveva identificato come la “casa di Abramo”. All’epoca del patriarca biblico, Ur era centro dell’antica civiltà sumerica e una delle prime vere città del mondo.
Abramo, insieme con la moglie Sara e il figlioletto Isacco, ubbidendo alla chiamata di Dio, partì da quella città verso la “terra promessa” per dare inizio a un nuovo popolo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò» (Genesi, 12, 1-2) gli aveva detto quell’intima voce. E Abramo lasciò la sua casa e partì, come il Signore gli aveva ordinato, accompagnato dalla promessa di una grande discendenza: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle: così sarà la tua discendenza» (15, 5). Abramo ha creduto con fiducia — «con speranza contro ogni speranza» (Romani, 4, 18) scrive l’apostolo Paolo — ed è diventato il prototipo del credente, per la sua fede incrollabile nella parola di Dio.
Proprio per quanto il patriarca Abramo rappresenta per noi cristiani, Giovanni Paolo II teneva molto a visitare Ur, per pregare in quel luogo carico di memorie storiche e per poter su quella terra riflettere sulle vicende e sulla straordinaria testimonianza di fede in Dio di quel grande personaggio biblico, veneratissimo anche da ebrei e musulmani.
Questa prima tappa, sognata e desiderata, si presentava però in quegli anni molto difficile. Nel 1990 infatti l’Iraq aveva invaso militarmente il Kuwait annettendolo al proprio territorio. In reazione si formò subito una grande coalizione internazionale, operante su mandato delle Nazioni unite e guidata dagli Stati Uniti, che liberò il Kuwait, obbligando Saddam a rientrare nei confini del suo stato. Ma quell’intervento delle truppe irachene aveva lasciato nel mondo preoccupazione e sfiducia nei riguardi di Saddam. Si temeva inoltre che l’Iraq avesse un programma nucleare segreto e che possedesse armi chimiche. Poiché il leader iracheno non aveva voluto accettare un controllo internazionale per una verifica in merito da parte di ispettori, l’Organizzazione delle nazioni unite (Onu) decretò nei riguardi dell’Iraq l’embargo, a causa del quale nessun aereo poteva raggiungere Baghdad.
Sembrava pertanto un sogno irrealizzabile raggiungere Ur dei Caldei. Ma per il grande significato religioso di quel luogo Giovanni Paolo II volle che si approfondisse la questione. Come primo passo incaricò il cardinale Roger Etchegaray di recarsi a verificare lo stato delle cose direttamente con le autorità irachene. L’8 giugno 1998 il rappresentante papale volò ad Amman, in Giordania, e da lì in macchina raggiunse Baghdad, dove incontrò il vice primo ministro Tareq Aziz, poi il ministro degli esteri Mohammed Said al-Sahaf e il ministro per gli affari religiosi. Al cardinale fu detto che non si vedevano difficoltà per la visita e che il presidente Saddam Hussein avrebbe salutato volentieri il Papa in terra irachena. A sua volta Etchegaray aveva spiegato il senso che il Papa intendeva dare al pellegrinaggio a Ur dei Caldei, che avrebbe avuto un carattere religioso e di preghiera, senza la presenza di autorità civili.
Pochi giorni dopo, il cardinale Sodano, segretario di stato, trovandosi a New York per un incontro previsto da tempo, approfittò per parlare della difficoltà dell’embargo e della no-fly-zone con il segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan. Più tardi la Segreteria di Stato prese contatto anche con Peter van Walsum, presidente del Comitato per le sanzioni contro l’Iraq. La conclusione fu che, a suo tempo, sarebbe stato sufficiente comunicare ufficialmente a quell’organismo il programma del viaggio papale, esclusivamente a carattere religioso, precisando giorno, orari, voli e aeroporto (quello di Baghdad). L’embargo sarebbe stato sospeso per il pellegrinaggio del Pontefice e di quanti lo avrebbero accompagnato.
Dopo queste risposte favorevoli, Giovanni Paolo II dispose di informare gli Stati Uniti del progetto, illustrando bene le finalità unicamente religiose del viaggio. In risposta Madeleine Albright, segretario di stato statunitense, inviò a Roma una delegazione di tre persone (Bruce Reidel, consigliere del presidente Clinton per le questioni di sicurezza, Ann Korky, del Dipartimento di stato, e Bruce Bork, del Servizio nazionale di intelligenza) per «informare la Santa Sede sulla situazione in Iraq» e fare presente le difficoltà che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna vedevano per il progetto del Papa.
La delegazione fu ricevuta il 4 giugno 1999 da monsignor Celestino Migliore, sottosegretario per i Rapporti con gli stati, il quale ascoltò la loro visione del problema e sottolineò che si trattava di un viaggio con carattere esclusivamente religioso a una località carica di significato religioso. Il prelato precisò inoltre che in tale viaggio era inevitabile l’incontro del Papa con Saddam Hussein, ma che questo non avrebbe significato per nulla appoggio alla sua politica, ma al contrario avrebbe potuto essere occasione per parlare e chiarire con il presidente alcune questioni. Qualche settimana dopo arrivò in Segreteria di Stato anche Thomas Pickering, sottosegretario del Dipartimento di stato, e tema principale della visita del diplomatico statunitense fu quello del pellegrinaggio papale in Iraq, esprimendo il timore che tale viaggio avrebbe rafforzato Saddam.
Giovanni Paolo II, che già prevedeva questa contrarietà degli Stati Uniti, rimase deciso ad andare avanti ugualmente, perché il viaggio era motivato da valide ragioni religiose in preparazione al giubileo del 2000.
Fino al mese di maggio del 1999 tutto in Iraq sembrava procedere in senso favorevole alla visita. Il ministro degli esteri, incontrando il nunzio, gli aveva detto fra l’altro che si gradiva ospitare il Papa nella Guest House presidenziale destinata a capi di stato e ad altri ospiti illustri. Al che il nunzio rispose immediatamente che era tradizione che nei viaggi il Papa alloggiasse nella residenza della nunziatura e mai si ammettevano eccezioni.
Il 29 giugno 1999 il Papa pubblicò, in preparazione al grande giubileo, una lettera per illustrare il significato del pellegrinaggio che intendeva fare ai principali luoghi legati alla storia della salvezza, e dedicava ben due pagine a Ur dei Caldei. Un gruppo di sette intellettuali iracheni con una lettera aperta criticò il documento pontificio, rilevando l’importanza di Abramo per l’islam e sottolineando che la visione di Abramo nel Corano, dove è nominato 69 volte, è diversa da quella del Papa. Il testo iracheno non suscitò sorpresa, perché era noto a tutti che le due concezioni, cristiana e musulmana, si fondano su punti di vista diversi. Come pure era ovvio che la prospettiva del Pontefice fosse quella biblica e non quella del Corano. La lettera non sembrò disturbare il clima di attesa: era l’iniziativa privata di alcuni intellettuali che esprimevano il loro pensiero su Abramo.
Al momento però di definire i punti concreti del programma, il governo cominciò a rimandare la scelta della data in cui l’organizzatore dei viaggi papali, il gesuita Roberto Tucci, e i suoi collaboratori potessero recarsi a Baghdad per concordare i vari punti dello svolgimento della visita. Questo ritardo non mancò di sorprendere perché il pellegrinaggio era previsto dal 1° al 3 dicembre 1999.
Finalmente il 21 novembre padre Tucci e i collaboratori furono ricevuti al ministero degli esteri dal sottosegretario, affiancato dal capo del protocollo e da un direttore generale del ministero. L’alto funzionario, al termine di un lungo colloquio, si riservò di dare una risposta nel giro di due giorni, ma poi comunicò che la questione richiedeva ulteriore studio e che la decisione sarebbe stata comunicata in seguito attraverso la nunziatura. Questo ritardo fece ovviamente crescere il sospetto che Saddam stesse cambiando idea.
Il 9 dicembre 1999 l’ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede incontrò infatti il sostituto della Segreteria di Stato e comunicò verbalmente che nella «situazione anomala» in cui si trovava l’Iraq «il viaggio del Papa doveva essere rimandato a quando le circostanze lo avessero permesso».
Perché Saddam cambiò idea? Ebbe timore di non riuscire a controllare la situazione interna, a causa della condizione di sofferenza della popolazione per le difficoltà economiche causate dall’embargo imposto dalle Nazioni unite? Temeva che quella visita del Papa in terra irachena lo avrebbe spinto poi ad accettare l’umiliazione della verifica da parte di ispettori dell’Onu sull’esistenza o meno di armi chimiche e di programmi nucleari segreti? Fu dissuaso da qualche capo religioso musulmano? Sono domande a cui non è possibile dare risposta, perché l’ambasciatore si limitò a dire che il presidente Saddam non intendeva annullare la visita, ma soltanto rimandarla nel tempo.
La risposta, a poche settimane dall’inizio del giubileo del 2000, chiuse definitivamente la porta per la realizzazione del viaggio. Giovanni Paolo II ne prese atto con la serenità che lo distingueva e decise di dedicare ad Abramo le udienze generali del 16 e 23 febbraio, nelle prime settimane dell’anno santo, illustrando quanto il personaggio biblico rappresenta per i cristiani come «padre nella fede» e compiendo così idealmente il pellegrinaggio a Ur dei Caldei.
Guardando alle gravi e tristi vicende che da quella data, non lontana nel tempo, si sono verificate nel Medio oriente e nelle regioni vicine, viene spontaneo domandarsi se, dopo il viaggio mai realizzato, gli Stati Uniti avrebbero ancora deciso di attuare l’intervento militare in Iraq nel 2003, rovesciando, fiancheggiati dal Regno Unito, il regime di Saddam.
L’intuizione statunitense che la progettata visita del Papa avrebbe in qualche modo rafforzato Saddam e reso più difficile un intervento militare contro l’Iraq non era infatti infondata. Gli echi che avrebbe avuto il viaggio papale in Iraq, compiuto con la sospensione dell’embargo da parte dell’Onu, sarebbero andati in senso contrario a una guerra degli Stati Uniti in Iraq, finalizzata all’instaurazione di un sistema democratico. In realtà, la visita di Giovanni Paolo II in terra irachena avrebbe probabilmente orientato a trovare una soluzione pacifica, tanto più che in realtà né il sospettato programma nucleare segreto né le armi chimiche esistevano, come poi risultò.
Un punto sembra certo: se tale infelice guerra non avesse avuto luogo, non avrebbero probabilmente avuto luogo le cosiddette primavere arabe con le conseguenze da esse portate, né l’attuale guerra in Siria che dura ormai da sei anni, né il sedicente Stato islamico, almeno per quanto riguarda le basi che esso riuscì ad avere in Iraq e in Siria. E di conseguenza neppure vi sarebbero oggi i numerosissimi profughi che fuggono dalla guerra verso l’Europa per sottrarsi alla morte. Né i migranti che, spinti dalla fame, cercano una prospettiva di futuro, mentre non pochi di essi, purtroppo, periscono tragicamente in mare, rendendo ancora più grave una emergenza che non sembra avere fine. È una pagina di storia che fa pensare.
L'Osservatore Romano, 14-15 febbraio 2017