By Asia News
Il divieto di ingresso emanato dal presidente Usa Donald Trump
verso sette Paesi a larga maggioranza musulmana, fra cui l’Iraq,
potrebbe essere un’occasione per un “grande ripensamento” e una
“riscossa” nel mondo islamico.
È quanto dice ad AsiaNews p. Samir Youssef, parroco della diocesi di Amadiya (nel Kurdistan irakeno), il quale ricorda le “sofferenze” dei cristiani del Paese. I nostri fedeli, spiega, sono stati “cacciati via dalle loro case”, hanno visto “distrutte le chiese”, hanno contato “oltre 2mila vittime dal 2003 a oggi”, mentre il mondo musulmano “non ha fatto niente” per arginare questa deriva violenta. Di contro, “la Chiesa cattolica locale, dai vertici all’ultimo rappresentate della comunità, ha sempre amato tutti e ha sempre cercato di aiutare tutti, senza distinzioni”.
È quanto dice ad AsiaNews p. Samir Youssef, parroco della diocesi di Amadiya (nel Kurdistan irakeno), il quale ricorda le “sofferenze” dei cristiani del Paese. I nostri fedeli, spiega, sono stati “cacciati via dalle loro case”, hanno visto “distrutte le chiese”, hanno contato “oltre 2mila vittime dal 2003 a oggi”, mentre il mondo musulmano “non ha fatto niente” per arginare questa deriva violenta. Di contro, “la Chiesa cattolica locale, dai vertici all’ultimo rappresentate della comunità, ha sempre amato tutti e ha sempre cercato di aiutare tutti, senza distinzioni”.
P. Samir è parroco della diocesi di Zakho e Amadiya (Kurdistan), che
cura 3500 famiglie di profughi cristiani, musulmani, yazidi che hanno
abbandonato le loro case e le loro terre a Mosul e nella piana di Ninive
per sfuggire ai jihadisti. Il sacerdote è in prima linea sin
dall’estate del 2014, da quando è iniziata l’emergenza. Con lui e con i
vescovi irakeni, AsiaNews ha rilanciato nelle scorse settimane la campagna "Adotta un cristiano di Mosul" per aiutarli ad avere cherosene, scarpe, vestiti per l’inverno, e sostegno per la scuola ai bambini.
Sul provvedimento emanato di recente dalla nuova amministrazione
americana si è espresso con toni duri lo stesso patriarca caldeo mar
Louis Raphael Sako, il quale ha definito “trappola” la legge, mentre è
essenziale restituire la regione alla pace e alla convivenza. In
quest’ottica il primate della Chiesa irakena ha celebrato il rientro
nei giorni scorsi della prima famiglia caldea a Teleskuf; un evento
storico, spiega sua beatitudine, perché segna il ritorno dei cristiani
in una delle tante cittadine della piana di Ninive, cadute nelle mani
dello Stato islamico (SI) nell’estate del 2014.
“Riguardo al veto emanato da Trump - racconta p. Samir - posso
confermare che ha colpito anche famiglie di mia conoscenza, cristiani e
musulmani irakeni, che stavano per partire e ora sono bloccati”. Il
problema riguarda anche “famiglie di cristiani siriani, bloccati
all’aeroporto” mentre erano in procinto di imbarcarsi. Ora tutte queste
richieste dovranno essere vagliate di nuovo e ricevere una nuova
approvazione, con uno slittamento ulteriore dei tempi.
Sui media irakeni, prosegue p. Samir, “si parla molto” del
provvedimento emanato dalla Casa Bianca perché “ci sono molti americani
che, ogni giorno, mettono piede in Iraq e sono sempre benvenuti”.
Inoltre, vi sono “le alte sfere militari, i generali” che combattono
assieme all’esercito statunitense le milizie di Daesh [acronimo arabo
per lo SI] e “le loro famiglie sono state trasferite in America per
motivi di sicurezza”.
La legge, prosegue il sacerdote, ha già provocato una prima, assurda
conseguenza: “Il capo delle forze anti-terrorismo irakene stava per
partire per gli Stati Uniti, per andare a trovare la propria famiglia.
Non sapeva nulla della nuova legge e l’hanno bloccato”. Il figlio,
prosegue p. Samir, è apparso sulle tivù irakene e rivolgendosi al padre
militare ha detto: “Noi ti guardiamo tutti i giorni in tv, combatti lo
Stato islamico e il terrorismo e poi ti fermano, non ti fanno venire da
noi perché ti considerano un terrorista”.
Siamo di fronte a una situazione davvero paradossale, avverte p.
Samir, in cui molti musulmani considerano Stati Uniti ed Europa “come
nazioni di infedeli, criticano l’uso di alcol e la presenza di bar”, e
poi protestano per questo bando e “vogliono la vita dell’Europa e degli
Usa”. Di contro, “molte volte l’Arabia Saudita ha chiuso le porte
davanti alle richieste di musulmani e a tutti i cristiani”. E, prosegue,
“in questo caso nessuno ha pianto o ha protestato perché Riyadh
chiudeva le porte. Invece, quando lo stesso provvedimento è stata
l’America a prenderlo sono partite le lacrime, le proteste, quasi come
se fossero state chiuse le porte del paradiso”.
Se anche qui in Iraq, se anche ai musulmani, conclude p. Samir, piace
tanto “la vita che c’è negli Stati Uniti e in Occidente”, perché non si
emanano leggi “che garantiscano” un modello analogo di libertà e
democrazia. In questo modo, le famiglie arabe potrebbero trovare
“libertà, lavoro, sicurezza e convivenza” non altrove, ma nella loro
stessa terra.