By Oasis
Nessun giornale, nessun reportage, nessun tipo di documentario è capace di lasciar immedesimare il lettore con l’esperienza che vivono oggi i cristiani dell’Iraq quanto la testimonianza di S.B. Louis Sako, patriarca di Baghdad dei Caldei, condensata in «Ne nous oubliez pas !». È un piccolo volume che, attraverso lo sguardo di un testimone-pastore impegnato sul campo, svela le vicende di martiri e di assassini, atti di distruzione e gesti di carità, sullo sfondo di una storia che sta trasformando il volto del Medio Oriente e che investe in pieno, in modalità inattese, anche l’Occidente.
Articolata in tappe diverse, attraverso le domande ben documentate di Laurence Desjoyaux, l’intervista passa al vaglio la prova dello Stato islamico, i duemila anni di storia del cristianesimo in Iraq, la vita dello stesso patriarca dall’infanzia all’attuale ministero, il dialogo con l’Islam e il futuro possibile dei cristiani in Iraq.
Tutta la prima parte è materia incandescente, costruita su una domanda sempre presente tra le righe: ma perché tanto odio nei confronti dei cristiani? Che cosa dell’antica comunità cristiana caldea è così insopportabile per gli uomini dello Stato islamico? Tra i numerosi passaggi del testo nei quali il patriarca affronta le ragioni della tragedia attuale, ne spicca uno in particolare che si offre come provocazione di fondo per i cristiani di ogni latitudine: «I membri dell’organizzazione “Stato islamico” ritengono che i cristiani, con la loro libertà e i loro usi diano fastidio. Guardate le giovani ragazze cristiane vestite in jeans e senza velo! Una giovane musulmana, secondo loro, non può vestirsi così. Perciò la presenza dei cristiani è un ostacolo per la creazione di un vero Stato islamico […]. In questo preteso “califfato”, una cristiana libera, vestita in modo diverso, obbliga le altre giovani donne a porsi delle domande. I cristiani, con la loro differenza, seminano il dubbio».
In questa parola, “differenza”, si concentrano due millenni di presenza cristiana in queste terre, ai quali con cenni diversi torna più volte il capo della Chiesa caldea: una lunga storia che ha visto ripetutamente i cristiani pagare un prezzo alto, nella loro carne, a causa della loro fede. Ieri e di nuovo oggi: il vescovo di Mosul, mons. Raho rapito e ucciso nel 2008, i troppi sacerdoti e semplici fedeli che hanno preferito morire o lasciare tutto, casa, lavoro, città, patria, pur di non convertirsi all’Islam sono la testimonianza lancinante di quanto sia presente, vivo e riconosciuto tra loro e da loro Gesù Risorto.
La croce nelle chiese caldee, spiega il patriarca, è senza il corpo del crocifisso. È una croce gloriosa: indica - per assenza - che il Crocifisso, che ha assunto su di sé tutto il male di ogni tempo, è morto, ma è risorto e su quella croce di legno non sta più. Quella luce pasquale trapassa tutta la testimonianza di mons. Sako e costituisce il criterio con cui interpreta il presente e pensa il possibile avvenire che attende i cristiani iracheni.
Con molto realismo il patriarca comprende che per non morire per la mano violenta dei terroristi o per gli stenti, molti sono costretti a lasciare la patria. L’emorragia sembra inarrestabile: da un milione e mezzo prima della guerra del 2003, i cristiani oggi secondo stime non ufficiali sono circa 300.000-400.000. Ma non ci si può arrendere, osserva il patriarca, occorre arginare il fenomeno, tentare di invertire la tendenza subito. Non è solo una questione “cristiana”, l’Iraq tutto si ripiegherebbe ulteriormente su se stesso, svuotato di una presenza vitale e garante di pluralità.
Senza mezzi termini mons. Sako chiama in causa le forze occidentali che hanno contribuito a creare il caos in Iraq nel 2003: «Gli americani che hanno invaso l’Iraq, che hanno cambiato regime e che hanno detto che avrebbero protetto i diritti dell’uomo e portato la democrazia e la libertà, dove sono? Dov’è la libertà? Dov’è la democrazia? Bisogna realizzare ora questo grande progetto e permettere a tutti i cittadini di questo Paese di vivere degnamente». Gli occidentali, aggiunge, devono capire che il fanatismo dello Stato islamico costituisce un grave pericolo anche per loro. E alla domanda ultima se è possibile un futuro per i cristiani in Iraq, il patriarca risponde che sì, c’è un futuro, ma bisogna prepararlo insieme.
L’Iraq procede verso una divisione, di fatto è già diviso in tre grandi aree, geograficamente ma anche psicologicamente: la regione sciita, quella sunnita e quella curda. Anche se ora appare come orizzonte impossibile, mons. Sako si augura che nel lungo termine l’Iraq possa diventare una federazione di Stati, forma che potrebbe salvaguardare l’unità del Paese, garantire l’autonomia pretesa dalle singole parti e avviare un nuovo sviluppo economico. I cristiani potrebbero vivere là dove sono rimasti e fare in modo di essere rappresentati in maniera adeguata presso gli organi di governo. La soluzione, è convinto il patriarca, non è fuggire, ma resistere e partecipare, desiderosi di essere riconosciuti cittadini al pari dei musulmani e con gli stessi diritti. Solo che il tempo stringe, è ora di tornare a vivere pienamente: «Ho una grande speranza – conclude mons. Sako - che alla fine la risurrezione verrà. Siamo in un tunnel […] ma alla fine c’è la luce, c’è il giorno […]. Il male non ha futuro. […] Mentre il bene è lento, laborioso, ma tenace. È stabile. È vittorioso».
Nessun giornale, nessun reportage, nessun tipo di documentario è capace di lasciar immedesimare il lettore con l’esperienza che vivono oggi i cristiani dell’Iraq quanto la testimonianza di S.B. Louis Sako, patriarca di Baghdad dei Caldei, condensata in «Ne nous oubliez pas !». È un piccolo volume che, attraverso lo sguardo di un testimone-pastore impegnato sul campo, svela le vicende di martiri e di assassini, atti di distruzione e gesti di carità, sullo sfondo di una storia che sta trasformando il volto del Medio Oriente e che investe in pieno, in modalità inattese, anche l’Occidente.
Articolata in tappe diverse, attraverso le domande ben documentate di Laurence Desjoyaux, l’intervista passa al vaglio la prova dello Stato islamico, i duemila anni di storia del cristianesimo in Iraq, la vita dello stesso patriarca dall’infanzia all’attuale ministero, il dialogo con l’Islam e il futuro possibile dei cristiani in Iraq.
Tutta la prima parte è materia incandescente, costruita su una domanda sempre presente tra le righe: ma perché tanto odio nei confronti dei cristiani? Che cosa dell’antica comunità cristiana caldea è così insopportabile per gli uomini dello Stato islamico? Tra i numerosi passaggi del testo nei quali il patriarca affronta le ragioni della tragedia attuale, ne spicca uno in particolare che si offre come provocazione di fondo per i cristiani di ogni latitudine: «I membri dell’organizzazione “Stato islamico” ritengono che i cristiani, con la loro libertà e i loro usi diano fastidio. Guardate le giovani ragazze cristiane vestite in jeans e senza velo! Una giovane musulmana, secondo loro, non può vestirsi così. Perciò la presenza dei cristiani è un ostacolo per la creazione di un vero Stato islamico […]. In questo preteso “califfato”, una cristiana libera, vestita in modo diverso, obbliga le altre giovani donne a porsi delle domande. I cristiani, con la loro differenza, seminano il dubbio».
In questa parola, “differenza”, si concentrano due millenni di presenza cristiana in queste terre, ai quali con cenni diversi torna più volte il capo della Chiesa caldea: una lunga storia che ha visto ripetutamente i cristiani pagare un prezzo alto, nella loro carne, a causa della loro fede. Ieri e di nuovo oggi: il vescovo di Mosul, mons. Raho rapito e ucciso nel 2008, i troppi sacerdoti e semplici fedeli che hanno preferito morire o lasciare tutto, casa, lavoro, città, patria, pur di non convertirsi all’Islam sono la testimonianza lancinante di quanto sia presente, vivo e riconosciuto tra loro e da loro Gesù Risorto.
La croce nelle chiese caldee, spiega il patriarca, è senza il corpo del crocifisso. È una croce gloriosa: indica - per assenza - che il Crocifisso, che ha assunto su di sé tutto il male di ogni tempo, è morto, ma è risorto e su quella croce di legno non sta più. Quella luce pasquale trapassa tutta la testimonianza di mons. Sako e costituisce il criterio con cui interpreta il presente e pensa il possibile avvenire che attende i cristiani iracheni.
Con molto realismo il patriarca comprende che per non morire per la mano violenta dei terroristi o per gli stenti, molti sono costretti a lasciare la patria. L’emorragia sembra inarrestabile: da un milione e mezzo prima della guerra del 2003, i cristiani oggi secondo stime non ufficiali sono circa 300.000-400.000. Ma non ci si può arrendere, osserva il patriarca, occorre arginare il fenomeno, tentare di invertire la tendenza subito. Non è solo una questione “cristiana”, l’Iraq tutto si ripiegherebbe ulteriormente su se stesso, svuotato di una presenza vitale e garante di pluralità.
Senza mezzi termini mons. Sako chiama in causa le forze occidentali che hanno contribuito a creare il caos in Iraq nel 2003: «Gli americani che hanno invaso l’Iraq, che hanno cambiato regime e che hanno detto che avrebbero protetto i diritti dell’uomo e portato la democrazia e la libertà, dove sono? Dov’è la libertà? Dov’è la democrazia? Bisogna realizzare ora questo grande progetto e permettere a tutti i cittadini di questo Paese di vivere degnamente». Gli occidentali, aggiunge, devono capire che il fanatismo dello Stato islamico costituisce un grave pericolo anche per loro. E alla domanda ultima se è possibile un futuro per i cristiani in Iraq, il patriarca risponde che sì, c’è un futuro, ma bisogna prepararlo insieme.
L’Iraq procede verso una divisione, di fatto è già diviso in tre grandi aree, geograficamente ma anche psicologicamente: la regione sciita, quella sunnita e quella curda. Anche se ora appare come orizzonte impossibile, mons. Sako si augura che nel lungo termine l’Iraq possa diventare una federazione di Stati, forma che potrebbe salvaguardare l’unità del Paese, garantire l’autonomia pretesa dalle singole parti e avviare un nuovo sviluppo economico. I cristiani potrebbero vivere là dove sono rimasti e fare in modo di essere rappresentati in maniera adeguata presso gli organi di governo. La soluzione, è convinto il patriarca, non è fuggire, ma resistere e partecipare, desiderosi di essere riconosciuti cittadini al pari dei musulmani e con gli stessi diritti. Solo che il tempo stringe, è ora di tornare a vivere pienamente: «Ho una grande speranza – conclude mons. Sako - che alla fine la risurrezione verrà. Siamo in un tunnel […] ma alla fine c’è la luce, c’è il giorno […]. Il male non ha futuro. […] Mentre il bene è lento, laborioso, ma tenace. È stabile. È vittorioso».