By Baghdadhope*
Con un comunicato ufficiale il Patriarca di Babilonia dei Caldei, Mar Louis Raphael I Sako, si è appellato ai rapitori di Yousef Sha'ya, rapito due giorni fa a Kirkuk, la città di cui Mar Sako è stato arcivescovo fino alla sua recente nomina a patriarca.
Yousef Sha'ya, si legge nell'appello, è un uomo di ottanta anni che non ha nessun rapporto con la politica e che ama la sua città tanto da esservi tornato per trascorrervi il resto della sua vita dopo aver vissuto all'estero.
Il rapimento, continua il comunicato, è un peccato grave per ogni religione e di esso si dovrà rendere conto a Dio. La speranza è che questa pratica inaccettabile per l'essere umano possa avere fine.
Inizia così il compito del nuovo patriarca che non dovrà solo riorganizzare la chiesa caldea passata attraverso anni difficilissimi, quanto occuparsi della situazione tutt'altro che stabile del paese. Dei rapimenti, ad esempio, che sebbene diminuiti rispetto a qualche anno fa continuano a fare vittime, molte delle quali innocenti. Degli attentati che ancora provocano morte e distruzione. Della fuga verso l'estero di cittadini che non sopportano più di vivere nel pericolo e nell'incertezza del futuro. Di tutte quelle cose, insomma, di cui i media non parlano più come se l'Iraq fosse improvvisamente diventato un paese "normale".Tra un mese, quando ricorrerà il decimo anniversario dell'ultima guerra all'Iraq, quei media ricorderanno Baghdad sotto le bombe e probabilmente valuteranno se era o meno il caso di scatenarvi l'inferno, se non sarebbe stato il caso di valutare altre ipotesi, o di pensare prima a cosa sarebbe successo alla caduta del regime.
Inizia così il compito del nuovo patriarca che non dovrà solo riorganizzare la chiesa caldea passata attraverso anni difficilissimi, quanto occuparsi della situazione tutt'altro che stabile del paese. Dei rapimenti, ad esempio, che sebbene diminuiti rispetto a qualche anno fa continuano a fare vittime, molte delle quali innocenti. Degli attentati che ancora provocano morte e distruzione. Della fuga verso l'estero di cittadini che non sopportano più di vivere nel pericolo e nell'incertezza del futuro. Di tutte quelle cose, insomma, di cui i media non parlano più come se l'Iraq fosse improvvisamente diventato un paese "normale".Tra un mese, quando ricorrerà il decimo anniversario dell'ultima guerra all'Iraq, quei media ricorderanno Baghdad sotto le bombe e probabilmente valuteranno se era o meno il caso di scatenarvi l'inferno, se non sarebbe stato il caso di valutare altre ipotesi, o di pensare prima a cosa sarebbe successo alla caduta del regime.
Resterà da vedere da che punto di vista lo faranno. Valuteranno i costi della guerra dal punto di vista dei soldati della coalizione morti in battaglia? O di quelli di cui non si conosce il numero che in quella guerra sono rimasti feriti o mutilati? Ci diranno quanti sono i soldati che vi hanno perso la testa?
Ma soprattutto: parleranno degli iracheni? Di quelli morti e di quelli profughi in patria o all'estero? Di quelli che non saranno mai curati per la Sindrome Post Traumatica da Stress perchè non ci sono abbastanza psicologi ed esperti in Iraq? Dei bambini che ancora oggi nascono deformi per l'uso di armi vietate nel 1991 ed ancora nel 2003?
Ci racconteranno le storie di chi in tutti questi anni ha resistito al terrore, alle minacce, alla violenza?
Forse si. Per adesso però gli iracheni sono soli a combattere.
E se non hanno altre armi lo fanno con le parole.
Proprio come il patriarca caldeo con il suo appello ai rapitori dell'anziano di Kirkuk.
E se non hanno altre armi lo fanno con le parole.
Proprio come il patriarca caldeo con il suo appello ai rapitori dell'anziano di Kirkuk.