By Radiovaticana, 19 agosto 2010
Nove persone hanno perso la vita ieri in Iraq in diversi attacchi, tra cui uno a Rabiya, 120 chilometri a nord-est di Baghdad. E’ solo l’ennesimo bollettino sulle violenze quotidiane che insanguinano il Paese. Intanto nella notte è stata annunciata la partenza dell'ultima brigata da combattimento Usa, oltre sette anni dopo l'inizio della guerra, il 20 marzo 2003, che ha portato al rovesciamento del regime di Saddam Hussein. Ad oggi, i militari Usa stanziati in Iraq sono 56.000 e solo a fine mese scenderanno come previsto a 50.000. Ma dalla fine del mese la missione sarà di “assistenza” alle forze locali. Il ritiro di tutti i militari è in calendario entro la fine del 2011. Una guerra, quella in Iraq, decisa dall'allora presidente Usa George W. Bush, convinto che Hussein possedesse armi di distruzione di massa (che poi non sono state mai trovate). Una guerra che ha portato spaccature in Europa. Bush aveva dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq il primo maggio del 2003, in un famoso discorso a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo, con oltre 4mila morti militari americani e decine di migliaia di vittime irachene, e tensioni fortissime nel biennio 2006-2007. Ma anche oggi la situazione non può dirsi pacificata, come spiega, nell’intervista di Fausta Speranza, mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad dei Caldei:
R. – E’ molto difficile vivere in un luogo dove non c’è la legge, dove non c’è il governo. L’Iraq è senza un governo, è senza legge. E come si può vivere in un posto così? Bisogna avere prima di tutto un governo stabile, una legge che governi il Paese, perché adesso i terroristi vanno e vengono come vogliono. Non c’è lavoro e ci sono autobombe, kamikaze e altre manifestazioni di violenza. Le truppe straniere, se vanno via, hanno il dovere di lasciare dietro di loro la pace e la sicurezza. Oggi vediamo i risultati negativi della guerra. Come diceva il compianto Papa Giovanni Paolo II e come dice Benedetto XVI, la guerra distrugge tutto e non fa nessun bene. Chiediamo a tutti gli uomini di buona volontà di cooperare con coscienza, quella coscienza che mette Dio al centro e non i propri affari, non i propri interessi. Vogliamo, chiediamo, gridiamo: pace e sicurezza!
D. – Le forze governative sono deboli: non ce la fanno di fronte alla violenza o ci sono anche tensioni interne tra chi governa?
R. – Questa è una questione molto difficile. Ci sono le forze del governo, ma al loro interno forse qualcuno lavora male oppure chi lavora bene non ha grande forza. E la gente si chiede: se non c’è lavoro, se c’è pericolo di vita, se non c’è di che vivere per ogni famiglia, perché dicono stiamo qui?
D. – Mons. Warduni, quanto è lontana la democrazia che qualcuno pensava di esportare in Iraq?
R. – Bisogna educare alla democrazia, bisogna seminarla e non imporla. Se una grande diga si apre improvvisamente, cosa succede? Si verificano grandi inondazioni. Quindi, qui noi eravamo in una grande prigione e cosa accade se una prigione viene aperta troppo repentinamente? Bisogna insegnare la democrazia, non bisogna solo parlare di democrazia. Quelli che parlano di democrazia, che vengano a camminare sulle strade di Baghdad…
D. – In tutta questa situazione, in particolare per le minoranze, è sofferenza aggiunta, non è così? Per i cristiani e per altre minoranze...
R. – La situazione è generale in tutto l’Iraq, riguarda tutti i cittadini iracheni. Bisogna, quindi, vedere bene come risolvere i problemi in tutto il Paese. Noi certamente siamo presi di mira...
D. – Oggi da dove si dovrebbe cominciare per risanare davvero la situazione in Iraq, secondo lei?
R. – Bisogna che tutti lascino perdere i loro interessi e guardino agli interessi dell’Iraq. Che si discuta bene, al tavolo, e si aiuti a cercare di fare un governo stabile, un governo forte. E che questo governo poi metta in pratica la legge, perché senza la legge non si può né camminare né vivere. Io voglio lanciare un grido forte a tutto il mondo, perché aiuti a spegnere le guerre.
Nove persone hanno perso la vita ieri in Iraq in diversi attacchi, tra cui uno a Rabiya, 120 chilometri a nord-est di Baghdad. E’ solo l’ennesimo bollettino sulle violenze quotidiane che insanguinano il Paese. Intanto nella notte è stata annunciata la partenza dell'ultima brigata da combattimento Usa, oltre sette anni dopo l'inizio della guerra, il 20 marzo 2003, che ha portato al rovesciamento del regime di Saddam Hussein. Ad oggi, i militari Usa stanziati in Iraq sono 56.000 e solo a fine mese scenderanno come previsto a 50.000. Ma dalla fine del mese la missione sarà di “assistenza” alle forze locali. Il ritiro di tutti i militari è in calendario entro la fine del 2011. Una guerra, quella in Iraq, decisa dall'allora presidente Usa George W. Bush, convinto che Hussein possedesse armi di distruzione di massa (che poi non sono state mai trovate). Una guerra che ha portato spaccature in Europa. Bush aveva dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq il primo maggio del 2003, in un famoso discorso a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo, con oltre 4mila morti militari americani e decine di migliaia di vittime irachene, e tensioni fortissime nel biennio 2006-2007. Ma anche oggi la situazione non può dirsi pacificata, come spiega, nell’intervista di Fausta Speranza, mons. Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad dei Caldei:
R. – E’ molto difficile vivere in un luogo dove non c’è la legge, dove non c’è il governo. L’Iraq è senza un governo, è senza legge. E come si può vivere in un posto così? Bisogna avere prima di tutto un governo stabile, una legge che governi il Paese, perché adesso i terroristi vanno e vengono come vogliono. Non c’è lavoro e ci sono autobombe, kamikaze e altre manifestazioni di violenza. Le truppe straniere, se vanno via, hanno il dovere di lasciare dietro di loro la pace e la sicurezza. Oggi vediamo i risultati negativi della guerra. Come diceva il compianto Papa Giovanni Paolo II e come dice Benedetto XVI, la guerra distrugge tutto e non fa nessun bene. Chiediamo a tutti gli uomini di buona volontà di cooperare con coscienza, quella coscienza che mette Dio al centro e non i propri affari, non i propri interessi. Vogliamo, chiediamo, gridiamo: pace e sicurezza!
D. – Le forze governative sono deboli: non ce la fanno di fronte alla violenza o ci sono anche tensioni interne tra chi governa?
R. – Questa è una questione molto difficile. Ci sono le forze del governo, ma al loro interno forse qualcuno lavora male oppure chi lavora bene non ha grande forza. E la gente si chiede: se non c’è lavoro, se c’è pericolo di vita, se non c’è di che vivere per ogni famiglia, perché dicono stiamo qui?
D. – Mons. Warduni, quanto è lontana la democrazia che qualcuno pensava di esportare in Iraq?
R. – Bisogna educare alla democrazia, bisogna seminarla e non imporla. Se una grande diga si apre improvvisamente, cosa succede? Si verificano grandi inondazioni. Quindi, qui noi eravamo in una grande prigione e cosa accade se una prigione viene aperta troppo repentinamente? Bisogna insegnare la democrazia, non bisogna solo parlare di democrazia. Quelli che parlano di democrazia, che vengano a camminare sulle strade di Baghdad…
D. – In tutta questa situazione, in particolare per le minoranze, è sofferenza aggiunta, non è così? Per i cristiani e per altre minoranze...
R. – La situazione è generale in tutto l’Iraq, riguarda tutti i cittadini iracheni. Bisogna, quindi, vedere bene come risolvere i problemi in tutto il Paese. Noi certamente siamo presi di mira...
D. – Oggi da dove si dovrebbe cominciare per risanare davvero la situazione in Iraq, secondo lei?
R. – Bisogna che tutti lascino perdere i loro interessi e guardino agli interessi dell’Iraq. Che si discuta bene, al tavolo, e si aiuti a cercare di fare un governo stabile, un governo forte. E che questo governo poi metta in pratica la legge, perché senza la legge non si può né camminare né vivere. Io voglio lanciare un grido forte a tutto il mondo, perché aiuti a spegnere le guerre.