Fonte: Ekklesia
Tradotto da Baghdadhope
Le parole di incoraggiamento dei leaders della chiesa locali, regionali ed internazionali che vogliono che le istituzioni cristiane rimangano in Iraq non sono state in grado di arrestare l'ondata di rifugiati iracheni in fuga dalla violenza nel paese, scrive Chris Herlinger.
La famiglia del sessantenne Basil Mati Koriya Kaktoma e di sua moglie Ekram Ishak Buni Safar, 55 anni, vive in Siria dal luglio del 2006. I rifugiati come loro sono fermamente decisi a non fare ritorno in patria considerando le esperienze di minacce, abusi e, come nel caso di Kaktoma, di un sequestro di una settimana da parte di musulmani armati che Kaktoma pensa l'abbiano preso di mira perchè cristiano.
"Preferirei andare all'inferno ma non tornare in Iraq" Kaktoma ha recentemente dichiarato nel corso di un'intervista nel minuscolo appartamento a Damasco. "Ciò che ho visto è così orribile che non riesco neanche a guardare una mappa del mio paese". I leaders in Siria della chiesa cattolica caldea cui Kaktoma appartiene riconoscono la dolorosa e paradossale situazione che le istituzioni cristiane affrontano a causa della natura settaria della violenza in Iraq.
Sebbene vogliano che la loro chiesa rimanga in Iraq, un paese con una delle più antiche comunità cristiane del mondo, essi ritengono che la prospettiva a lungo termine di una sua presenza nel paese sia incerta. In una tale situazione la chiesa deve anche dare aiuto alle migliaia di sfollati cristiani che ora vivono in Siria e Libano, ma che sperano di raggiungere gli altri membri delle famiglie in paesi come Stati Uniti, Canada o Australia.
"I cristiani hanno perso molto in una tale situazione" ha dichiarato Antoine Audo, vescovo cattolico caldeo di Aleppo in Siria riferendosi all'invasione americana del 2003 ed al caos politico e sociale che l'ha seguita. "La continuità della storia cristiana nella regione è molto importante. La nostra presenza è importante. Abbiamo un'esperienza unica di convivenza con l'Islam."
Questa natura unica della presenza cristiana in Iraq è stata una delle ragioni per le quali il segretario generale del World Council of Churches, Samuel Kobia, ha affermato ad ottobre che sperava che i cristiani in Iraq potessero, e volessero, rimanere nel paese. In una lettera ad essi indirizzata del 14 ottobre Kobia ha scritto: "La vostra presenza è l'assicurazione che il cristianesimo resiste, voi siete un segno di speranza per la gente di fede in ogni parte del mondo."
Nonostante ciò, però, i leaders cristiani riconoscono che la situazione per i cristiani in Iraq è dura e scoraggiante. Più di 200 cristiani sono stati uccisi dal 2003 e dozzine di chiese, compresa quella che Kaktoma, Safar ed i loro 4 figli frequentavano, sono state attaccate.
Oltre a ciò da un terzo alla metà degli 800.000 cristiani che vivevano in Iraq all'inizio dell'invasione americana si stima abbiano lasciato il paese.
I leaders della chiesa spesso esprimono la speranza che i cristiani iracheni rimangano almeno in Medio Oriente così che la vita cristiana irachena possa continuare nella regione che diede origine alla tradizione cristiana.
Eppure essi riconoscono anche il bisogno di rispettare la decisione delle famiglie irachene che desiderano riunirsi ai parenti altrove nel mondo.
"Vanno dove possono" ha detto Monsignor Audo, "io faccio di tutto per dare un futuro alla nostra chiesa. Non so cosa succederà."
Per Kaktoma, impiegato di una compagnia petrolifera in pensione, ogni futuro dovrà essere più lontano possibile dal luogo del suo rapimento avvenuto a maggio del 2006 e durato 8 giorni e risoltosi con la frattura e la permanente pigmentazione della gamba destra. Il rilascio di Kaktoma fu reso possibile perchè alcuni parenti negli Stati Uniti ed in Canada hanno pagato il riscatto.
Parlando a nome di tutta la sua famiglia del passato e del futuro Safar ha detto: "L'Iraq è finito."