By Baghdadhope
Il sito Ankawa.com ha pubblicato la prima parte di un’inchiesta dedicata alla situazione in diverse zone di Baghdad dove un tempo la comunità cristiana era numerosa e che ora, invece, la vedono presente solo in poche decine di unità familiari. A più di un anno dall’inizio delle operazioni volte ad estendere il controllo statale in aree che per molto tempo sono state controllate dagli appartenenti ad Al Qaeda, e malgrado le ripetute assicurazioni di maggiore stabilità e le notizie che hanno riguardato il ritorno di molte famiglie fuggite perché minacciate di morte, la situazione per quelle cristiane secondo alcune testimonianze non è migliorata affatto. Se il 15 novembre del 2007, dopo molti mesi, la chiesa caldea di San Giovanni Battista a Dora era stata riaperta con una solenne cerimonia officiata da Monsignor Shleimun Warduni, vicario patriarcale di Baghdad, è lo stesso vescovo ad aver infatti dichiarato, pochi giorni fa, che “Dora, quartiere cristiano della nostra capitale si è svuotato.” L’inchiesta è focalizzata sulle aree che si trovano nella zona di Karkh, a sud ovest rispetto al centro di Baghdad. Zone come Dora, per molto tempo considerata la parte più pericolosa della capitale, Hay Al ‘Adl, Hay al-Jami’a, Saidiya, Al-Baia’, Al-Ghazali, ecc. Aree dove l’alta presenza dei cristiani è testimoniata dal numero di chiese e di istituzioni cristiane molte delle quali però sono ormai chiuse: le chiese caldee degli Apostoli San Pietro e Paolo, di San Giovanni Battista, e di Mar Yaocub Vescovo di Nisibi, quelle Assire dell’Est di Mar Zaia e Mar Khorkhis, quella Siro Ortodossa di Mar Benham e Sheikh Matti e quella Antica Assira dell’Est di Mart Shmoni, a cui si aggiungono diversi conventi e monasteri appartenenti alle diverse chiese ed il Collegio Pontificio Babel, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq ed il seminario maggiore caldeo di San Pietro che, proprio per ragioni di sicurezza furono trasferiti nel nord controllato dal governo regionale curdo nel gennaio 2007. In passato, secondo quanto riferisce l’autore dell’inchiesta, Fadi Kamal Youssef, abitavano in quei quartieri più di 10000 famiglie cristiane ridotte ora a circa solo a poche decine. Il fenomeno della fuga dei cristiani da quelle zone è quindi imponente, e niente sembra poterne invertire la tendenza. A migliaia sono fuggiti. I più abbienti e previdenti verso l’estero e già prima che la violenza iniziasse ad imperare, i meno abbienti verso il nord, ed i più poveri verso altri quartieri della capitale considerati più sicuri. Sono proprio tre famiglie che tuttora vivono a Baghdad che, intervistate, hanno spiegato perché, malgrado un lieve miglioramento della situazione, non considerano ancora sicuro il ritorno alle proprie case ed alle proprie attività. Tutte e tre, infatti, malgrado riconoscano che le recenti operazioni militari abbiano contribuito a rendere più sicuri i quartieri sud occidentali, tanto che i membri di due famiglie affermano di recarvisi regolarmente per controllare le case abbandonate, sottolineano però come ciò non sia sufficiente. Non solo, infatti, il controllo dello stato non è totale, quanto quelle zone sono oramai abitate da persone che vi sono arrivate da altri quartieri o da altre province. Sconosciuti di cui, evidentemente, è difficile fidarsi, con cui è difficile ricreare quei rapporti di buon vicinato che una volta esistevano a dispetto delle diverse appartenenze religiose e che si erano cementati negli anni. La percezione tuttora viva della mancanza di sicurezza non è però l’unica ragione che frena il ritorno di queste famiglie alle proprie case ed alle proprie attività. Ad essa si aggiunge il fatto che la vita quotidiana nelle zone dove esse si sono trasferite, per quanto difficile – si tratta pur sempre di sfollati – è migliore che in quelle di provenienza. In centro, riferiscono infatti gli intervistati, ci sono maggiori possibilità lavorative, migliori servizi, la possibilità di frequentare la chiesa, persino quella di rimanere fuori casa alla sera. Sembra di leggere la descrizione di una città normale, una qualsiasi città del mondo dove la gente lavora, va al mercato, in chiesa, trova addirittura la voglia di passare qualche ora fuori casa. Eppure è la descrizione della zona rossa di Baghdad – non quella verde protetta dagli americani - da anni ormai considerata la città più pericolosa del mondo, agli occhi di questi cristiani che lì, per ora, hanno trovato il loro piccolo pezzo di Paradiso.
Riusciamo ad immaginare com’era il loro inferno a Dora?
Il sito Ankawa.com ha pubblicato la prima parte di un’inchiesta dedicata alla situazione in diverse zone di Baghdad dove un tempo la comunità cristiana era numerosa e che ora, invece, la vedono presente solo in poche decine di unità familiari. A più di un anno dall’inizio delle operazioni volte ad estendere il controllo statale in aree che per molto tempo sono state controllate dagli appartenenti ad Al Qaeda, e malgrado le ripetute assicurazioni di maggiore stabilità e le notizie che hanno riguardato il ritorno di molte famiglie fuggite perché minacciate di morte, la situazione per quelle cristiane secondo alcune testimonianze non è migliorata affatto. Se il 15 novembre del 2007, dopo molti mesi, la chiesa caldea di San Giovanni Battista a Dora era stata riaperta con una solenne cerimonia officiata da Monsignor Shleimun Warduni, vicario patriarcale di Baghdad, è lo stesso vescovo ad aver infatti dichiarato, pochi giorni fa, che “Dora, quartiere cristiano della nostra capitale si è svuotato.” L’inchiesta è focalizzata sulle aree che si trovano nella zona di Karkh, a sud ovest rispetto al centro di Baghdad. Zone come Dora, per molto tempo considerata la parte più pericolosa della capitale, Hay Al ‘Adl, Hay al-Jami’a, Saidiya, Al-Baia’, Al-Ghazali, ecc. Aree dove l’alta presenza dei cristiani è testimoniata dal numero di chiese e di istituzioni cristiane molte delle quali però sono ormai chiuse: le chiese caldee degli Apostoli San Pietro e Paolo, di San Giovanni Battista, e di Mar Yaocub Vescovo di Nisibi, quelle Assire dell’Est di Mar Zaia e Mar Khorkhis, quella Siro Ortodossa di Mar Benham e Sheikh Matti e quella Antica Assira dell’Est di Mart Shmoni, a cui si aggiungono diversi conventi e monasteri appartenenti alle diverse chiese ed il Collegio Pontificio Babel, l’unica facoltà teologica cristiana in Iraq ed il seminario maggiore caldeo di San Pietro che, proprio per ragioni di sicurezza furono trasferiti nel nord controllato dal governo regionale curdo nel gennaio 2007. In passato, secondo quanto riferisce l’autore dell’inchiesta, Fadi Kamal Youssef, abitavano in quei quartieri più di 10000 famiglie cristiane ridotte ora a circa solo a poche decine. Il fenomeno della fuga dei cristiani da quelle zone è quindi imponente, e niente sembra poterne invertire la tendenza. A migliaia sono fuggiti. I più abbienti e previdenti verso l’estero e già prima che la violenza iniziasse ad imperare, i meno abbienti verso il nord, ed i più poveri verso altri quartieri della capitale considerati più sicuri. Sono proprio tre famiglie che tuttora vivono a Baghdad che, intervistate, hanno spiegato perché, malgrado un lieve miglioramento della situazione, non considerano ancora sicuro il ritorno alle proprie case ed alle proprie attività. Tutte e tre, infatti, malgrado riconoscano che le recenti operazioni militari abbiano contribuito a rendere più sicuri i quartieri sud occidentali, tanto che i membri di due famiglie affermano di recarvisi regolarmente per controllare le case abbandonate, sottolineano però come ciò non sia sufficiente. Non solo, infatti, il controllo dello stato non è totale, quanto quelle zone sono oramai abitate da persone che vi sono arrivate da altri quartieri o da altre province. Sconosciuti di cui, evidentemente, è difficile fidarsi, con cui è difficile ricreare quei rapporti di buon vicinato che una volta esistevano a dispetto delle diverse appartenenze religiose e che si erano cementati negli anni. La percezione tuttora viva della mancanza di sicurezza non è però l’unica ragione che frena il ritorno di queste famiglie alle proprie case ed alle proprie attività. Ad essa si aggiunge il fatto che la vita quotidiana nelle zone dove esse si sono trasferite, per quanto difficile – si tratta pur sempre di sfollati – è migliore che in quelle di provenienza. In centro, riferiscono infatti gli intervistati, ci sono maggiori possibilità lavorative, migliori servizi, la possibilità di frequentare la chiesa, persino quella di rimanere fuori casa alla sera. Sembra di leggere la descrizione di una città normale, una qualsiasi città del mondo dove la gente lavora, va al mercato, in chiesa, trova addirittura la voglia di passare qualche ora fuori casa. Eppure è la descrizione della zona rossa di Baghdad – non quella verde protetta dagli americani - da anni ormai considerata la città più pericolosa del mondo, agli occhi di questi cristiani che lì, per ora, hanno trovato il loro piccolo pezzo di Paradiso.
Riusciamo ad immaginare com’era il loro inferno a Dora?