"La situazione sta peggiorando. Gridate con noi che i diritti umani sono calpestati da persone che parlano in nome di Dio ma che non sanno nulla di Lui che è Amore, mentre loro agiscono spinti dal rancore e dall'odio.
Gridate: Oh! Signore, abbi misericordia dell'Uomo."

Mons. Shleimun Warduni
Baghdad, 19 luglio 2014

7 giugno 2008

C’è un futuro per il cristianesimo in Iraq?


By Pierre de Charentenay

Tradotto ed adattato da Baghdadhope

L’Arcivescovo caldeo di Mosul, Paulos Faraj Rahho, è stato rapito il 29 febbraio dopo la celebrazione della messa presso la Chiesa del Santo Spirito a Mosul. Il suo autista e due diaconi sono stati uccisi nel corso del rapimento. L’Arcivescovo Rahho è stato trovato cadavere molti giorni più tardi. Questo è stato il più recente di una serie di rapimenti e uccisioni di sacerdoti e religiosi in Iraq - 20 dei quali in soli cinque anni. Non tutti i rapimenti sono finiti con un omicidio. Nel gennaio 2005, Basile Georges Casmoussa, Arcivescovo siro di Mosul, è stato rapito ma liberato due giorni più tardi, dopo il pagamento di un 1 milione di dollari di riscatto.
I cristiani sono un bersaglio popolare favorito dai rapitori. Sono una piccola minoranza che vive sparsa in molti luoghi e nella maggior parte dei casi indifesa. Poihé non sono musulmani sono spesso considerati alleati delle truppe americane. I sequestri di cristiani, inoltre, sono un utile mezzo di propaganda perché sono ampiamente seguiti dalla stampa occidentale. La dimensione del riscatto richiesto può variare: un cristiano laico "vale" circa 100.000 dollari, un sacerdote 500.000. Un vescovo più di 1 milione.
In risposta alle violenze i cristiani sono fuggiti a migliaia nel nord dell'Iraq o nei paesi confinanti. La metà dei cristiani che vivevano in Iraq nel 2000 ha lasciato la propria casa. Ci sono circa 200.000 cristiani in Kurdistan, di cui 90.000 rifugiati; altri 180.000 si sono rifugiati in Siria, Giordania, Turchia e Libano. La facoltà cattolica di filosofia e teologia di Baghdad si è trasferita a Erbil ed il il seminario di Mosul è chiuso.
Ciò che abbiamo visto e udito
Nel febbraio 2008, una delegazione di Pax Christi, l'organizzazione cattolica internazionale per la pace, si è recata nel nord dell'Iraq visitando 26 diverse comunità, soprattutto nel Kurdistan, ma anche a Karmah, Qaraqosh e Kirkuk. L'obiettivo del viaggio era quello di esprimere la solidarietà dei cristiani in Europa a quelli in Iraq.
In un villaggio abbiamo incontrato un uomo che era stato sequestrato per una settimana e restituito alla sua famiglia la mattina del nostro arrivo in cambio di un riscatto di 60.000 $. I suoi rapitori avevano chiesto che si convertisse all'Islam ma egli aveva rifiutato. La sua identità cristiana conta molto di più che la sua fede personale. E’ un membro di una comunità cristiana, di una famiglia cristiana e di una cultura cristiana. Nel suo caso la conversione sarebbe stato un tradimento del suo credo religioso e avrebbe causato una completa separazione dal sistema sociale in cui aveva sempre vissuto. Se tali conversioni ci fossero, e se fossero molte, distruggerebbero tutta la comunità. Per questo motivo i rapimenti hanno un obiettivo politico: l'eventuale espulsione di tutti i cristiani dall’Iraq meridionale e centrale.
Nonostante le difficoltà e le violenze, siamo stati ricevuti molto calorosamente con processioni e canti. E' stato come il benvenuto della Domenica delle Palme. Abbiamo percorso circa 1200 miglia attraverso le pianure e le montagne. Dopo essere stati accolti con calore all'ingresso di ogni comunità si andava in chiesa per una breve preghiera comune, per spiegare il motivo della nostra presenza lì ed ascoltare le storie della gente.
Ovunque ci siamo recati la gente ci ha chiesto di essere la loro voce tra i cristiani in Occidente e di raccontare le loro storie, una volta tornati a casa. Molte volte la gente ritornava a parlare di tre temi fondamentali:
Siamo dimenticati da tutti. I cristiani nei villaggi, sia residenti che rifugiati, si sentono isolati e dimenticati. Vengono considerati solo una piccola parte di un problema più ampio, un ingranaggio di una grande macchina politica e militare che nessuno controlla. Sebbene il Kurdistan abbia accolto i profughi dal sud dell'Iraq e abbia dato loro cibo e riparo la situazione è ancora precaria.
Siamo stati costretti a fuggire. Molti cristiani hanno lasciato Baghdad e le regioni circostanti perché temevano per la propria vita ed il proprio sostentamento. Hanno anche abbandonato Mosul, una cosa particolarmente difficile per loro dato il significato storico che la città ha per i cristiani. Mosul, ora governata dalla legge islamica, è un luogo molto pericoloso, e ci sono molti episodi di rapimenti ed uccisioni. Almeno 20 diversi gruppi terroristici hanno lottato per il controllo della città mentre i militari statunitensi cercavano di portare un pò di sicurezza. La violenza è stata così feroce che a volte i cristiani hanno dovuto fuggire in fretta, senza poter portare con sé nulla.
Dei rifugiati cristiani arrivati in Kurdistan, alcuni tornano alle terre da cui erano stati cacciati una generazione fa da Saddam Hussein.
Terre che ora sono molto diverse. I rifugiati non riescono a trovare lavoro e devono sopravvivere con le tessere alimentari. Non vi è alcuna struttura industriale e le terre che erano di loro proprietà prima di essere cacciati dal Kurdistan negli anni 70 sono ora occupate da musulmani che si rifiutano di restituirle. Siamo preoccupati per la completa scomparsa dei cristiani dall'Iraq. I profughi non hanno speranze in un futuro che sembra completamente buio, senza alcuna possibilità di tornare alle loro case nel sud. Molti sperano di lasciare l'Iraq del tutto e sono in attesa di un visto per i paesi occidentali. Finora solo la Svezia e la Norvegia li hanno accolti. Altri paesi, e tra essi gli Stati Uniti e molti nell'Unione europea, hanno a tutti gli effetti chiuso i propri confini. Un ulteriore segno infausto è che il desiderio di fuggire è più fortemente sentito dai giovani e così potrebbe esserci poco futuro per i cristiani in Iraq.
Eppure che scelta hanno? Possono tornare nel sud dove la violenza e l’oppressione li attendono o possono rimanere nel nord dove non c'è futuro. L'invasione turca nel nord dell'Iraq in marzo ha ricordato a tutti i rifugiati quanto la loro situazione sia precaria. Sono presi tra la speranza di stabilità in questa regione ed il rifiuto della Turchia di accettare un Kurdistan iracheno libero e forte appena oltre il confine.
Segni di promesse
I rifugiati cristiani hanno ricevuto aiuti e sostegno da due parti. In primo luogo la chiesa che si è rivelata un amico potente. I vescovi ed i sacerdoti siri e caldei che hanno deciso di rimanere hanno rappresentato dei grandi segni di speranza per i laici. E nonostante la violenza e la persecuzione la chiesa è presente ed attiva nella misura in cui può esserlo. I gesuiti sono stati espulsi dal paese nel 1969, soprattutto perché americani, ma i Domenicani (appartenenti alla provincia francese) hanno ancora una forte presenza a Baghdad e Mosul, sebbene meno numerosa di prima.
Anche di fronte a un futuro incerto in molti luoghi sono state costruite delle chiese ed a Qaraqosh un nuovo seminario. Questi sono segni promettenti. Ulteriore sostegno è arrivato dal Kurdistan, dove i cristiani hanno trovato rifugio e pace. Sarkis Aghajan, un cristiano che è il Ministro delle Finanze del Kurdistan, ha svolto un ruolo importante nella costruzione di 10.000 abitazioni in circa 150 villaggi, di decine di chiese e del seminario di Qaraqosh. E’ stato uno sforzo enorme, essenziale se deve esserci una qualche ragionevole possibilità di sopravvivenza.
Un modo di procedere?
In mezzo a questo caos molti hanno proposto una soluzione: un Iraq federale diviso in tre regioni autonome, sciiti, sunniti e curdi. Ma coloro che hanno avanzato questa idea, alcuni dei quali sono cristiani illustri, hanno completamente dimenticato i cristiani che vivono in Iraq. Aghajan vuole che i cristiani si stabiliscano nella Piana di Ninive e sulle montagna a nord-ovest del Kurdistan in una regione autonoma.
La Città di Ankawa, vicino ad Erbil, la capitale del Kurdistan, ha accolto centinaia di famiglie cristiane dal sud e la sua popolazione è cresciuta da 25.000 a 35.000 persone dall'inizio della guerra. Per Aghajan, la presenza dei cristiani nella regione curda è positiva, dà una buona immagine del Kurdistan, ed i cristiani sono laboriosi e competenti. Ma i rifugiati non sono d'accordo sulla proposta di una regione speciale.
Alcuni di loro la chiedono come rifugio, ma altri respingono l'idea, soprattutto persone come l’Arcivescovo di Kirkuk, Mons. Sako, perché essa potrebbe essere considerata come una rinuncia alle rivendicazioni delle loro terre nel sud. E 'chiaro che qualsiasi futura discussione su uno stato federale in l'Iraq dovrebbe includere il rispetto del diritto dei cristiani a controllare le loro terre ed il loro destino.
Perché concentrarsi sui cristiani?
Perché dovremmo concentrarci sulla difficile situazione dei cristiani quando tanti altri stanno soffrendo? Si tratta di un piccolo gruppo, potrebbe dire qualcuno, che a stento rappresenta il 3% della popolazione dell'Iraq. Perché sono così importanti? Ci sono tre ragioni: In primo luogo essi non sono solo vittime di una guerra ma anche della persecuzione religiosa. Sono in gioco i diritti umani di un’intera minoranza religiosa.
In secondo luogo i cristiani iracheni sono un segno del pluralismo. Fintanto che essi rimarranno in Iraq si sarà possibile per le diverse fedi religiose convivere. In terzo luogo essi fanno parte della cultura e della storia religiosa della regione: gli iracheni cristiani l’hanno abitata da secoli, un segno vivo di una cultura antica nel luogo di nascita della Bibbia. I cristiani iracheni sono di fronte ad un dilemma fondamentale. Come comunità sanno che dovrebbero rimanere, e questo è il desiderio di molti capi delle comunità, compresi i vescovi come l’Arcivescovo Sako. Individualmente però essi sono pronti a partire per salvare il loro futuro e talvolta la loro vita. Che può biasimarli? Se i cristiani decidessero di partire dovrebbero essere accolti negli altri paesi, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Dovrebbero essere aiutati a trovare una sistemazione. Agli studenti dovrebbero essere rilasciati i visti per permettere loro di studiare. Se decidessero di rimanere in Iraq noi, in Occidente, dovremmo dar loro aiuto.
Il quesito che la situazione dei cristiani in Iraq ci pone non è tanto se aiutare un numero relativamente ristretto di persone con aiuti umanitari e di altro tipo. La posta in gioco è la sopravvivenza stessa di una delle più antiche comunità cristiane nel mondo.
I cristiani iracheni devono sapere che tutti cristiani li aiuteranno.

Un contributo di Pierre de Charentenay, sj,
Redattore della Rivista Studi della Compagnia,
la rivista interna dei Gesuiti di France
tradotto ed adattato da Baghdadhope

Come parte di una delegazione di Pax Christi volta a sostenere i cristiani in Iraq ho potuto recarmi, tra l’11 ed il 19 febbraio 2008, nel Kurdistan iracheno ed in alcune città di quella provincia. La visita della delegazione è stata una tappa di un grande movimento della Chiesa di Francia, iniziato da Pax Christi, per mostrare ai cristiani d'Iraq la solidarietà dei cristiani francesi e dell’Occidente. E’ stata la prima delegazione di tale tipo dopo l’invasione americana e la caduta di Saddam Hussein. Abbiamo viaggiato per quasi 2000 km per incontrare circa 26 diverse comunità ad Erbil, la capitale del Kurdistan, nella città e nei dintorni di Dehoc, e nella regione irachena di Karakoch e della contestata città di Kirkuk.
L'accoglienza da parte delle autorità del Kurdistan è stata eccellente visto che siamo stati ricevuti dal presidente della regione, M. Barzani, da uno dei suoi ministri, Sarkis Aghajan, e da due governatori provinciali. Ma l'accoglienza è stata ancora più straordinaria e calda da parte delle comunità caldea e siriaca e dei loro vescovi nel corso degli incontri e delle funzioni liturgiche piene di vita e di dinamismo. La Chiesa è forte in queste terre. E’ ben radicata. Ha costruito molte chiese e seminari. Un gesuita americano, che vive a Baghdad dagli anni 60, recentemente arrivato da Amman, Padre Denis Como, è il padre spirituale dei seminaristi di Erbil. I domenicani sono numerosi e fanno un lavoro eccezionale.
Tuttavia il sostegno ai cristiani in quella regione è assolutamente necessario. 100.000 cristiani provenienti da Baghdad o da Mosul sono arrivati nel Kurdistan dal 2004. Le loro famiglie erano state minacciate più volte. Hanno deciso di fuggire, a volte in un solo giorno, non portando via nulla. Vengono a ripopolare i villaggi del Kurdistan abbandonati sotto il regime di Saddam Hussein negli anni 70. Delle piccole case sono costruite per ciascuno di loro dal governo, ma questi villaggi sono isolati, non c'è lavoro ed i rifugiati devono vivere con l’assistenza finanziaria del governo. Gli agricoltori non hanno più le terre perché sono state occupati da curdi musulmani che non vogliono restituirle. I più anziani si accontentano di questa situazione difficile ma i più giovani vogliono lasciare al più presto questi villaggi. Tutti hanno un cugino o un parente in Europa o negli Stati Uniti d'America: sperano quindi di poter ottenere un visto un giorno o l’altro. Nel frattempo essi si trovano di fronte alle sfide culturali rappresentate dalla lingua e dalla cultura: non possono comunicare in arabo con i curdi che non lo conoscono.
Questa popolazione di rifugiati non manca di sostegno immediato, ma è priva di futuro. Questi cristiani ancora sognano di tornare a Baghdad o alla loro vita. Non hanno i mezzi per radicarsi in Kurdistan perché non hanno terra e neanche lavoro. Nessuno, né in Iraq o né all’esterno, vuole investire un dollaro in questa regione. Queste persone sono condannate ad essere assistite.
Questo è ciò che tutte queste comunità ci hanno raccontato, riunione dopo riunione, sia in privato o in pubblico. I capi villaggio hanno espresso le loro rimostranze come se dovessimo dare loro soluzioni pratiche e definitive alla loro sventura. Potevamo solo rispondere loro che avremmo parlato delle loro difficoltà in Europa, per rendere nota all’opinione pubblica ed ai politici la loro situazione. Eravamo ben consapevoli del fatto che essi sono le vittime di sconvolgimenti geopolitici i cui responsabili si trovano a Washington, Baghdad o in altre capitali. Essi sono anche vittime di un movimento più vasto in quella regione del mondo, Iraq, Turchia, Siria, ecc, dove i cristiani sono sottoposti a pressione sistematica che li spinge all’esilio. Eppure essi sono una garanzia del pluralismo delle culture e delle religioni in tutto il Vicino e Medio Oriente. La loro assenza potrebbe costituire una minaccia per le capacità degli altri popoli a vivere insieme su questi territori.
La nostra delegazione non ha potuto quindi fare molto tirarli fuori dalla situazione in cui vivono. Ma ha rappresentato un tratto di unione con i cristiani al di fuori dell’Iraq che volevano ascoltare e mostrare la loro solidarietà. Nella speranza che la consapevolezza del dramma dei cristiani iracheni favorisca la ricerca di una soluzione pacifica per quel paese.