By Baghdadhope*
Il prossimo 6 febbraio si terrà a Baghdad la cerimonia di ordinazione dei due nuovi vescovi della Chiesa Caldea: Mons. Emanuel Hana Shaleta, vescovo della diocesi canadese di Sant’Addai e Mons. Basel Yaldo che sostituirà, come vicario patriarcale a Baghdad, Mons. Jacques Isaac che già lo scorso anno aveva raggiunto i 75 anni di età.
Il giorno dopo si terrà un sinodo straordinario con vari punti in programma tra i quali, certamente, uno che non mancherà di avere conseguenze: la ribellione di alcuni sacerdoti e monaci, e di un vescovo nei confronti di una delle decisioni prese nel 2013.
Nel sinodo di quell'anno si era deciso che i sacerdoti ed i monaci che in passato si erano stabiliti all’estero senza il consenso del proprio vescovo o del proprio superiore, ed erano stati accolti in altre diocesi da vescovi che, si legge, avevano agito al di fuori delle leggi ecclesiastiche, facessero ritorno in patria.
Questi sacerdoti e monaci, (12 in tutto) per mesi, e malgrado i ripetuti inviti, non avevano adempiuto alle disposizioni sinodali tanto che, a settembre del 2014, fu necessario da parte del Patriarcato pubblicare un ultimatum dando loro un mese di tempo per tornare in patria.
Il problema, fu specificato qualche giorno dopo, non riguardava solo la fuga dei chierici ed il loro rifiuto a tornare, ma anche quello della generale mancanza di sacerdoti nelle diocesi in Iraq, e la conseguente impossibilità di accettare uno status quo che vedrebbe quelle estere "rafforzarsi" a scapito di quelle in patria.
Il 22 ottobre il decreto di sospensione divenne effettivo. Non c'è giustificazione alcuna, si legge, perché questi sacerdoti e monaci debbano decidere dove servire la Chiesa perseguendo i propri fini personali quando, invece, dovrebbero prendere esempio dai martiri della Chiesa, dai sacerdoti che pur essendo stati rapiti in passato sono rimasti nel proprio paese, e da quelli che, scacciati con i loro fedeli dai propri villaggi e dalle proprie città, li hanno seguiti e serviti in esilio.
Il decreto può apparire ad un primo esame nient'altro che un provvedimento canonico ma non è escluso che possa avere conseguenze più gravi per la chiesa caldea che la perdita di alcuni sacerdoti. Ancor prima della sua promulgazione il patriarcato si era infatti sentito in dovere di sottolineare la sua continua ricerca dell'unità, di come il provvedimento non fosse esplicitamente diretto contro la Diocesi di San Pietro Apostolo (San Diego - California) guidata da Mar Sarhad Jammo e presso la quale operavano la buona parte (9) dei sacerdoti e monaci "fuori legge", e che non si trattasse né di vendetta personale né di un atto di ostilità.
Eppure è proprio come un attacco contro la diocesi degli Stati Uniti Occidentali che il decreto fu percepito da molti, tanto che nello stesso giorno della sua pubblicazione essa pubblicò sul suo sito la risposta in cui si informava di aver presentato appello al Santo Padre perché "i fedeli non fossero privati dei loro sacerdoti" e perché la diocesi non andasse incontro ad una "catastrofe spirituale" dovuta alla perdita di più di metà dei suoi sacerdoti e la conseguente chiusura di 5 parrocchie e 3 missioni.
Secondo il sito diocesano il canone 1319 del Codice di Diritto Canonico delle Chiese Orientali prevede che "un appello sospenda l'esecuzione di una sentenza" ed è per questa ragione che i sacerdoti sospesi dal Patriarca e dal Sinodo avrebbero continuato a svolgere i propri compiti in attesa, "in obbedienza ed unità", della direttiva pastorale del Santo padre a riguardo.
Santo Padre che, si legge, è il "capo dell'intera chiesa in terra" e che per tanto gode di "potere ordinario supremo, pieno, illimitato e universale".
Al contrario, sempre secondo il documento diocesano, il Can. 78 §2 prevede che "la potestà del Patriarca può essere esercitata validamente soltanto entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non consti diversamente dalla natura della cosa, oppure dal diritto comune o particolare approvato dal Romano Pontefice."
Secondo il citato Can. 150 §2 poi: "le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale."
Ragioni diverse da quelle addotte dal Patriarcato che si appella ai canoni (Tit.X Cap.II CCEO) che, in parole povere, regolamentano in modo preciso l'eventuale passaggio di un chierico da un'eparchia all'altra.
Le citazioni dei canoni cui entrambi i documenti, quello patriarcale e quello diocesano, fanno riferimento per sostenere le proprie ragioni saranno certamente territorio di scontro tra i canonisti di ambo le parti.
Ad una lettura non specializzata però appare chiaro che la diocesi americana si stia allontanando sempre più dalla sede patriarcale, arrivando a negare che il Patriarca possa esercitarvi un qualsiasi potere in contrasto con il Vescovo che risponderebbe solo ed eventualmente a quello del Sommo Pontefice.
Dalla pubblicazione del primo ultimatum ai chierici ribelli la disputa tra le due parti si trascinò nei mesi successivi con dichiarazioni ed appelli da parte del patriarcato, e con l'espulsione di un monaco e di due che continuarono però ad operare nella diocesi americana suscitando lo sdegno del Patriarca Louis Sako che, in un messaggio indirizzato ai fedeli di quella diocesi, ricordò loro che ricevere i Sacramenti da chierici espulsi era inaccettabile, e che ciò valeva a dispetto della decisione che Roma avrebbe preso riguardo i loro casi e quelli degli altri chierici sospesi dalla vita sacerdotale. (Successivamente sarebbe stato espulso un altro sacerdote)
Il prossimo 6 febbraio si terrà a Baghdad la cerimonia di ordinazione dei due nuovi vescovi della Chiesa Caldea: Mons. Emanuel Hana Shaleta, vescovo della diocesi canadese di Sant’Addai e Mons. Basel Yaldo che sostituirà, come vicario patriarcale a Baghdad, Mons. Jacques Isaac che già lo scorso anno aveva raggiunto i 75 anni di età.
Il giorno dopo si terrà un sinodo straordinario con vari punti in programma tra i quali, certamente, uno che non mancherà di avere conseguenze: la ribellione di alcuni sacerdoti e monaci, e di un vescovo nei confronti di una delle decisioni prese nel 2013.
Nel sinodo di quell'anno si era deciso che i sacerdoti ed i monaci che in passato si erano stabiliti all’estero senza il consenso del proprio vescovo o del proprio superiore, ed erano stati accolti in altre diocesi da vescovi che, si legge, avevano agito al di fuori delle leggi ecclesiastiche, facessero ritorno in patria.
Questi sacerdoti e monaci, (12 in tutto) per mesi, e malgrado i ripetuti inviti, non avevano adempiuto alle disposizioni sinodali tanto che, a settembre del 2014, fu necessario da parte del Patriarcato pubblicare un ultimatum dando loro un mese di tempo per tornare in patria.
Il problema, fu specificato qualche giorno dopo, non riguardava solo la fuga dei chierici ed il loro rifiuto a tornare, ma anche quello della generale mancanza di sacerdoti nelle diocesi in Iraq, e la conseguente impossibilità di accettare uno status quo che vedrebbe quelle estere "rafforzarsi" a scapito di quelle in patria.
Il 22 ottobre il decreto di sospensione divenne effettivo. Non c'è giustificazione alcuna, si legge, perché questi sacerdoti e monaci debbano decidere dove servire la Chiesa perseguendo i propri fini personali quando, invece, dovrebbero prendere esempio dai martiri della Chiesa, dai sacerdoti che pur essendo stati rapiti in passato sono rimasti nel proprio paese, e da quelli che, scacciati con i loro fedeli dai propri villaggi e dalle proprie città, li hanno seguiti e serviti in esilio.
Il decreto può apparire ad un primo esame nient'altro che un provvedimento canonico ma non è escluso che possa avere conseguenze più gravi per la chiesa caldea che la perdita di alcuni sacerdoti. Ancor prima della sua promulgazione il patriarcato si era infatti sentito in dovere di sottolineare la sua continua ricerca dell'unità, di come il provvedimento non fosse esplicitamente diretto contro la Diocesi di San Pietro Apostolo (San Diego - California) guidata da Mar Sarhad Jammo e presso la quale operavano la buona parte (9) dei sacerdoti e monaci "fuori legge", e che non si trattasse né di vendetta personale né di un atto di ostilità.
Eppure è proprio come un attacco contro la diocesi degli Stati Uniti Occidentali che il decreto fu percepito da molti, tanto che nello stesso giorno della sua pubblicazione essa pubblicò sul suo sito la risposta in cui si informava di aver presentato appello al Santo Padre perché "i fedeli non fossero privati dei loro sacerdoti" e perché la diocesi non andasse incontro ad una "catastrofe spirituale" dovuta alla perdita di più di metà dei suoi sacerdoti e la conseguente chiusura di 5 parrocchie e 3 missioni.
Secondo il sito diocesano il canone 1319 del Codice di Diritto Canonico delle Chiese Orientali prevede che "un appello sospenda l'esecuzione di una sentenza" ed è per questa ragione che i sacerdoti sospesi dal Patriarca e dal Sinodo avrebbero continuato a svolgere i propri compiti in attesa, "in obbedienza ed unità", della direttiva pastorale del Santo padre a riguardo.
Santo Padre che, si legge, è il "capo dell'intera chiesa in terra" e che per tanto gode di "potere ordinario supremo, pieno, illimitato e universale".
Al contrario, sempre secondo il documento diocesano, il Can. 78 §2 prevede che "la potestà del Patriarca può essere esercitata validamente soltanto entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, a meno che non consti diversamente dalla natura della cosa, oppure dal diritto comune o particolare approvato dal Romano Pontefice."
Secondo il citato Can. 150 §2 poi: "le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale."
Ragioni diverse da quelle addotte dal Patriarcato che si appella ai canoni (Tit.X Cap.II CCEO) che, in parole povere, regolamentano in modo preciso l'eventuale passaggio di un chierico da un'eparchia all'altra.
Le citazioni dei canoni cui entrambi i documenti, quello patriarcale e quello diocesano, fanno riferimento per sostenere le proprie ragioni saranno certamente territorio di scontro tra i canonisti di ambo le parti.
Ad una lettura non specializzata però appare chiaro che la diocesi americana si stia allontanando sempre più dalla sede patriarcale, arrivando a negare che il Patriarca possa esercitarvi un qualsiasi potere in contrasto con il Vescovo che risponderebbe solo ed eventualmente a quello del Sommo Pontefice.
Dalla pubblicazione del primo ultimatum ai chierici ribelli la disputa tra le due parti si trascinò nei mesi successivi con dichiarazioni ed appelli da parte del patriarcato, e con l'espulsione di un monaco e di due che continuarono però ad operare nella diocesi americana suscitando lo sdegno del Patriarca Louis Sako che, in un messaggio indirizzato ai fedeli di quella diocesi, ricordò loro che ricevere i Sacramenti da chierici espulsi era inaccettabile, e che ciò valeva a dispetto della decisione che Roma avrebbe preso riguardo i loro casi e quelli degli altri chierici sospesi dalla vita sacerdotale. (Successivamente sarebbe stato espulso un altro sacerdote)
Mons. Jammo, si legge inoltre, non sarebbe stato in grado di proteggere i sacerdoti, se
scomunicati, e li avrebbe lasciati al loro destino perchè Roma non si sarebbe messa contro il
Patriarcato: "questo deve essere chiaro".
Agli inizi di gennaio, non un comunicato dalla diocesi di San Diego, ma diversi articoli apparsi sui media californiani, annunciarono che i chierici sospesi ( compresi quelli espulsi) erano stati autorizzati dal Vaticano a rimanere nella diocesi ed a non far ritorno in patria. Una circostanza, questa, che il Patriarcato avrebbe chiarito a metà del mese affermando trattarsi non di una lettera del Papa ma di una missiva privata del Cardinale Leonardo Sandri, a capo della Congregazione per le Chiese orientali, con la quale l’alto prelato autorizzava i chierici sospesi per decreto, ed operanti nella diocesi americana, a celebrare la Santa Messa fino alla decisione definitiva sulla loro sorte (cui si si dovrebbe arrivare durante un incontro in Vaticano il 17 febbraio prossimo), ed invitava lo stesso Mons. Jammo al dialogo con il Patriarcato.
D'altra parte il Patriarcato, forse cercando di porre fine alla diatriba mediatica aveva già affermato che: "la questione della diocesi di San Diego sarà risolta dal Sinodo o legalmente dalla Santa Sede!"
Una presa di posizione che non cambiò però la linea intransigente della diocesi americana che, quello stesso giorno, benedisse l'altare della nuova sede del seminario di Mar Abba il Grande con la partecipazione di ben 4 dei chierici sospesi.
Alla luce di questi scontri, la cui parte mediatica qui riportata è solo la punta dell'iceberg, quante probabilità ci sono che il Sinodo straordinario del 7 febbraio possa risolvere la questione?
Mons. Sarhad Jammo non ha partecipato ai due ultimi sinodi (2013-2014) e non c'è ragione di pensare che si farà vedere a Baghdad. Allora? Più che decidere qualcosa, in attesa del pronunciamento della Santa Sede, questo Sinodo sembrerebbe convocato per "contare le forze" a favore o contro il Patriarcato e mandare di conseguenza un messaggio chiaro alla diocesi ribelle: rientrare nei ranghi.
Per cercare di capire di più di una faccenda obiettivamente ingarbugliata e ben più lunga di quanto riportato, Baghdadhope ne ha parlato con il patriarca caldeo, Mar Louis Raphael I Sako.
Beatitudine, nell’ultimo anno purtroppo molto si è parlato della comunità irachena cristiana colpita dalle violenze dell’ISIS che hanno causato la migrazione forzata di centinaia di migliaia di fedeli da Mosul e dalla Piana di Ninive, e del faticoso ruolo della Chiesa nel dare conforto spirituale e materiale ai profughi. Come mai in questo contesto di urgenza la Chiesa Caldea ha pensato ai sacerdoti ed ai monaci fuggiti all’estero, alcuni anche da molti anni?
“E’ stato necessario perché avevamo notato come questa “moda” stesse tendendo a riproporsi. Si è trattato di una questione di giustizia: se impediamo ai sacerdoti ed ai monaci di lasciare l’Iraq anche quelli che lo hanno già fatto senza alcun permesso devono tornare. Se siamo arrivati a tanto è perché gli appelli rivolti in passato a quei sacerdoti ed a quei monaci dai vescovi e dal superiore dell’Ordine erano rimasti inascoltati.
Il provvedimento mira ad evitare il collasso dell’ordine monastico e della sua vita ed a ristabilire l’ordine nelle diocesi. Attualmente in Iraq vivono circa 400.000 cristiani di cui più della metà caldei, e questi ultimi possono contare su 75 sacerdoti diocesani e 15 monaci. Una realtà in sofferenza visti gli avvenimenti degli ultimi anni, e soprattutto del 2014, che ha bisogno di tutte le forze che la Chiesa può mettere in campo. Un sacerdote o un monaco che fugge non solo dà un cattivo esempio, ma nega ai fedeli in patria quel conforto morale e spirituale più che mai necessario oggi.”
La prima obiezione al decreto di sospensione del Patriarcato da parte della diocesi degli Stati Uniti occidentali guidata da Mons. Jammo che conta ben 9 dei sacerdoti e monaci ad esso interessato è che, secondo i Canoni, (Can. 150 §2): "le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale." Trova che questo canone possa essere l’appiglio legale per evitare il ritorno di quei monaci e quei sacerdoti?
“Un tale canone poteva avere senso quando le comunicazioni tra le diocesi lontane dal patriarcato erano difficili e necessitavano di molto tempo. Ora non è più così, e questi canoni vanno rivisti per evitare pericolose derive indipendentistiche che potrebbero portare alla frantumazione della Chiesa come corpo unitario. Lasciare che questi sacerdoti, questi monaci e questo vescovo agiscano a loro piacimento creerebbe un precedente inaccettabile. Per questo bisogna ridefinire i limiti del potere dei vescovi e del Patriarca rivedendo i Canoni. I moderni mezzi di viaggio e comunicazione permettono al Patriarca di avere il controllo immediato su tutto ciò che succede nelle diocesi del mondo. Mons. Jammo non ha nessun diritto decisionale e disciplinare sulla sorte di questi sacerdoti e monaci che hanno lasciato i loro posti senza alcun permesso perché non aveva il diritto di accoglierli senza di esso. E poi, se è vero, come ha affermato, di non poter fare a meno di loro per il buon funzionamento della sua diocesi, perché ha allontanato i 4 sacerdoti che lì operavano e che si sono rifiutati di firmare l’appello al Vaticano contro il decreto patriarcale? Lui afferma di dipendere direttamente dal Papa e non dal Patriarcato. Se è così perché ha accettato la sua nomina a vescovo fatta dal Sinodo caldeo? Perché ha partecipato ai Sinodi della chiesa caldea? L’ho scritto e lo ribadisco: i passi intrapresi non sono frutto di astio personale, ma di considerazioni dettate dai fatti, che mi addolorano, e di necessità canoniche e pastorali. Da molto tempo Mons. Jammo agisce al di fuori delle decisioni sinodali. Ricordiamo che agli inizi degli anno 90, quando era ancora sacerdote nell’allora unica Diocesi negli Stati Uniti, lui stesso fu sospeso dal Patriarca Raphael Bedaweed, anche se fu successivamente riabilitato fino a diventare vescovo della seconda eparchia in terra d’America nel 2002. Non si tratta quindi solo di questi sacerdoti e questi monaci, un altro tra i vari casi di insubordinazione è, per esempio, che nella sua diocesi non si usa il nuovo messale come deciso dal Sinodo. Queste ed altre prese di posizioni arbitrarie stanno facendo allontanare dalla Chiesa molti fedeli e centinaia di famiglie che non la sentono più come “loro.” Famiglie in diaspora che invece dovrebbero trovare in essa il “centro aggregante” per rinnovare la loro spiritualità nel segno della tradizione."
Beatitudine, Lei è stato accusato dalla stampa americana di disobbedienza verso il Papa che avrebbe invece dato, per lettera, il permesso ai sacerdoti ed ai monaci interessati dal decreto di rimanere nella diocesi di San Pietro Apostolo. Come risponde a questa accusa?
“E’ una bugia, un’ennesima bugia. La lettera che Mons. Jammo ha dichiarato aver ricevuto dal Papa è stata scritta in realtà, e così doveva essere, dal Cardinal Sandri, Prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali, ed in essa si dà il permesso a quei sacerdoti ed a quei monaci di celebrare la Messa, ma solo finché non verrà presa una decisione definitiva sul caso.”
Beatitudine, prima dell’incontro sulla questione in Vaticano, a Baghdad si svolgerà il Sinodo straordinario. Pensa che Mons. Jammo interverrà per perorare la causa dei chierici accolti nella sua Diocesi?
“Penso che Mons. Jammo non verrà. D’altronde non lo ha fatto né nel 2013 né nel 2014. Non verrà perché a mio parere non vuole dialogare con il Sinodo. Sinceramente non so cosa voglia.”
Se, come dice, Mons. Jammo non interverrà al Sinodo sarà necessario sarà ricorrere al Vaticano. Cosa potrebbe succedere?
“Penso che l’unica soluzione sia quella delle dimissioni di Mons. Jammo che potrebbe ritirarsi in monastero, e della nomina di un Amministratore Apostolico che porti poi a quella di un nuovo vescovo.
I monaci dovranno invece tornare in monastero per riprendere la vita monastica di preghiera e riflessione cui si sono votati; non è concepibile, infatti, neanche con il pretesto dei molti fedeli e dei pochi sacerdoti, che essi operino come sacerdoti diocesani come da anni fanno nella diocesi di Mons. Jammo. Per quanto riguarda i sacerdoti dovranno tornare alle loro diocesi originarie anche se bisognerà valutare caso per caso: la Chiesa ha bisogno di sacerdoti capaci e fedeli, è meglio che chi non lo è la abbandoni di sua volontà prima di esserne cacciato, come è capitato ad un sacerdote ed ad un monaco interessati dal decreto di sospensione che negli scorsi mesi hanno trasformato le omelie in arringhe di accusa e minacce nei confronti del Patriarcato e del Sinodo. In chiesa si va per pregare ed affidarsi a Dio, non per schierarsi. Non abbiamo bisogno di sacerdoti come loro. Io spero che il Vaticano appoggi la linea del Patriarcato. Se così non sarà per la Chiesa Caldea sarà la fine. Da Roma dovrà venire una decisione chiara. Non abbiamo alcun dubbio, anche se affermarlo è doloroso ed imbarazzante: la colpa di questa situazione è da addossare a Mons. Jammo. I sacerdoti ed i monaci nella maggior parte dei casi sono le sue vittime perché è lui che li ha accolti e convinti a restare pur sapendo che non era corretto. Facendo così ha ferito la Chiesa, dato il cattivo esempio e creato un precedente che non deve ripetersi"
E se Mons. Jammo non accettasse di dimettersi?
“Se non accettasse e se il Vaticano non lo esonererà sarò io a lasciare la carica patriarcale che non avrebbe più nessun senso, se non quello di un titolo onorifico cui non tengo. Il Vaticano può farlo alla luce di quanto è successo e dei suoi precedenti. Dovrà trattarsi di una decisione senza compromessi, per il bene della Chiesa.”
Le forti parole di Mar Sako, e l’intransigenza mostrata da Mons. Jammo, in questa ed altre questioni che negli anni hanno contrapposto i due prelati, fanno presagire dei cambiamenti nella chiesa caldea.
Quali potrebbero essere le soluzioni di questa controversia dopo il Sinodo straordinario e l’incontro in Vaticano? Le ipotesi sono diverse, ma solo dopo il 17 di febbraio si conoscerà il futuro corso della questione.
Mons. Jammo potrebbe fare marcia indietro, pentirsi e chiedere scusa. Soluzione possibile ma improbabile che potrebbe mantenere il vescovo al suo posto fino al suo 75° anno di età (nel 2016) ma senza nessun potere e credibilità, e che comunque non risolverebbe la questione dei sacerdoti ormai espulsi.
Mons. Jammo potrebbe trovare appoggio in Vaticano e ciò potrebbe portare, come dichiarato, alle dimissioni del Patriarca, ad una conseguente gravissima crisi per la Chiesa Caldea ed alle enormi difficoltà nel trovare e nominare un eventuale successore che saprebbe in anticipo di non avere nessun potere, neanche se appoggiato dal Sinodo, nei confronti di chi volesse operare al di fuori delle decisioni sinodali.
Mons. Jammo potrebbe accettare di dimettersi come suggerito da Mar Sako. Il suo posto sarebbe preso da un Amministratore Apostolico e poi da un Vescovo che, si può pensare, sarebbe scelto per la fedeltà al Patriarcato, e certo non avrebbe compito facile in una diocesi numericamente importante e ricca, e da sempre abituata a riconoscere solo il suo vescovo come capo.
Mons. Jammo potrebbe rifiutare di dimettersi creando così una frattura insanabile tra lui, la chiesa caldea e la chiesa cattolica universale che potrebbe addirittura sfociare in uno scisma e nella creazione di una nuova chiesa negli Stati Uniti.
Il Vaticano potrebbe chiedere al Patriarca la pazienza di aspettare che Mons. Jammo compia i 75 anni di età nel 2016 “congelando” la situazione e rimettendola al Sinodo caldeo successivo al pensionamento del presule. Una soluzione che però Mar Sako ha affermato di non potere accettare parlando di “decisione chiara” e “senza compromessi”.
Insomma, un problema spinoso per il Vaticano e la Chiesa Caldea che, invece, mai come di questi tempi avrebbe bisogno di concentrare tutte le sue forze nell’assistenza di centinaia di migliaia di persone che non vivono in California ma nelle tende nel nord dell'Iraq.
Alla luce di questi scontri, la cui parte mediatica qui riportata è solo la punta dell'iceberg, quante probabilità ci sono che il Sinodo straordinario del 7 febbraio possa risolvere la questione?
Mons. Sarhad Jammo non ha partecipato ai due ultimi sinodi (2013-2014) e non c'è ragione di pensare che si farà vedere a Baghdad. Allora? Più che decidere qualcosa, in attesa del pronunciamento della Santa Sede, questo Sinodo sembrerebbe convocato per "contare le forze" a favore o contro il Patriarcato e mandare di conseguenza un messaggio chiaro alla diocesi ribelle: rientrare nei ranghi.
Per cercare di capire di più di una faccenda obiettivamente ingarbugliata e ben più lunga di quanto riportato, Baghdadhope ne ha parlato con il patriarca caldeo, Mar Louis Raphael I Sako.
Beatitudine, nell’ultimo anno purtroppo molto si è parlato della comunità irachena cristiana colpita dalle violenze dell’ISIS che hanno causato la migrazione forzata di centinaia di migliaia di fedeli da Mosul e dalla Piana di Ninive, e del faticoso ruolo della Chiesa nel dare conforto spirituale e materiale ai profughi. Come mai in questo contesto di urgenza la Chiesa Caldea ha pensato ai sacerdoti ed ai monaci fuggiti all’estero, alcuni anche da molti anni?
“E’ stato necessario perché avevamo notato come questa “moda” stesse tendendo a riproporsi. Si è trattato di una questione di giustizia: se impediamo ai sacerdoti ed ai monaci di lasciare l’Iraq anche quelli che lo hanno già fatto senza alcun permesso devono tornare. Se siamo arrivati a tanto è perché gli appelli rivolti in passato a quei sacerdoti ed a quei monaci dai vescovi e dal superiore dell’Ordine erano rimasti inascoltati.
Il provvedimento mira ad evitare il collasso dell’ordine monastico e della sua vita ed a ristabilire l’ordine nelle diocesi. Attualmente in Iraq vivono circa 400.000 cristiani di cui più della metà caldei, e questi ultimi possono contare su 75 sacerdoti diocesani e 15 monaci. Una realtà in sofferenza visti gli avvenimenti degli ultimi anni, e soprattutto del 2014, che ha bisogno di tutte le forze che la Chiesa può mettere in campo. Un sacerdote o un monaco che fugge non solo dà un cattivo esempio, ma nega ai fedeli in patria quel conforto morale e spirituale più che mai necessario oggi.”
La prima obiezione al decreto di sospensione del Patriarcato da parte della diocesi degli Stati Uniti occidentali guidata da Mons. Jammo che conta ben 9 dei sacerdoti e monaci ad esso interessato è che, secondo i Canoni, (Can. 150 §2): "le leggi emanate dal Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e promulgate dal Patriarca, se sono leggi liturgiche hanno vigore dappertutto; se invece sono leggi disciplinari, o se si tratta di tutte le altre decisioni del Sinodo, hanno valore giuridico entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale." Trova che questo canone possa essere l’appiglio legale per evitare il ritorno di quei monaci e quei sacerdoti?
“Un tale canone poteva avere senso quando le comunicazioni tra le diocesi lontane dal patriarcato erano difficili e necessitavano di molto tempo. Ora non è più così, e questi canoni vanno rivisti per evitare pericolose derive indipendentistiche che potrebbero portare alla frantumazione della Chiesa come corpo unitario. Lasciare che questi sacerdoti, questi monaci e questo vescovo agiscano a loro piacimento creerebbe un precedente inaccettabile. Per questo bisogna ridefinire i limiti del potere dei vescovi e del Patriarca rivedendo i Canoni. I moderni mezzi di viaggio e comunicazione permettono al Patriarca di avere il controllo immediato su tutto ciò che succede nelle diocesi del mondo. Mons. Jammo non ha nessun diritto decisionale e disciplinare sulla sorte di questi sacerdoti e monaci che hanno lasciato i loro posti senza alcun permesso perché non aveva il diritto di accoglierli senza di esso. E poi, se è vero, come ha affermato, di non poter fare a meno di loro per il buon funzionamento della sua diocesi, perché ha allontanato i 4 sacerdoti che lì operavano e che si sono rifiutati di firmare l’appello al Vaticano contro il decreto patriarcale? Lui afferma di dipendere direttamente dal Papa e non dal Patriarcato. Se è così perché ha accettato la sua nomina a vescovo fatta dal Sinodo caldeo? Perché ha partecipato ai Sinodi della chiesa caldea? L’ho scritto e lo ribadisco: i passi intrapresi non sono frutto di astio personale, ma di considerazioni dettate dai fatti, che mi addolorano, e di necessità canoniche e pastorali. Da molto tempo Mons. Jammo agisce al di fuori delle decisioni sinodali. Ricordiamo che agli inizi degli anno 90, quando era ancora sacerdote nell’allora unica Diocesi negli Stati Uniti, lui stesso fu sospeso dal Patriarca Raphael Bedaweed, anche se fu successivamente riabilitato fino a diventare vescovo della seconda eparchia in terra d’America nel 2002. Non si tratta quindi solo di questi sacerdoti e questi monaci, un altro tra i vari casi di insubordinazione è, per esempio, che nella sua diocesi non si usa il nuovo messale come deciso dal Sinodo. Queste ed altre prese di posizioni arbitrarie stanno facendo allontanare dalla Chiesa molti fedeli e centinaia di famiglie che non la sentono più come “loro.” Famiglie in diaspora che invece dovrebbero trovare in essa il “centro aggregante” per rinnovare la loro spiritualità nel segno della tradizione."
Beatitudine, Lei è stato accusato dalla stampa americana di disobbedienza verso il Papa che avrebbe invece dato, per lettera, il permesso ai sacerdoti ed ai monaci interessati dal decreto di rimanere nella diocesi di San Pietro Apostolo. Come risponde a questa accusa?
“E’ una bugia, un’ennesima bugia. La lettera che Mons. Jammo ha dichiarato aver ricevuto dal Papa è stata scritta in realtà, e così doveva essere, dal Cardinal Sandri, Prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali, ed in essa si dà il permesso a quei sacerdoti ed a quei monaci di celebrare la Messa, ma solo finché non verrà presa una decisione definitiva sul caso.”
Beatitudine, prima dell’incontro sulla questione in Vaticano, a Baghdad si svolgerà il Sinodo straordinario. Pensa che Mons. Jammo interverrà per perorare la causa dei chierici accolti nella sua Diocesi?
“Penso che Mons. Jammo non verrà. D’altronde non lo ha fatto né nel 2013 né nel 2014. Non verrà perché a mio parere non vuole dialogare con il Sinodo. Sinceramente non so cosa voglia.”
Se, come dice, Mons. Jammo non interverrà al Sinodo sarà necessario sarà ricorrere al Vaticano. Cosa potrebbe succedere?
“Penso che l’unica soluzione sia quella delle dimissioni di Mons. Jammo che potrebbe ritirarsi in monastero, e della nomina di un Amministratore Apostolico che porti poi a quella di un nuovo vescovo.
I monaci dovranno invece tornare in monastero per riprendere la vita monastica di preghiera e riflessione cui si sono votati; non è concepibile, infatti, neanche con il pretesto dei molti fedeli e dei pochi sacerdoti, che essi operino come sacerdoti diocesani come da anni fanno nella diocesi di Mons. Jammo. Per quanto riguarda i sacerdoti dovranno tornare alle loro diocesi originarie anche se bisognerà valutare caso per caso: la Chiesa ha bisogno di sacerdoti capaci e fedeli, è meglio che chi non lo è la abbandoni di sua volontà prima di esserne cacciato, come è capitato ad un sacerdote ed ad un monaco interessati dal decreto di sospensione che negli scorsi mesi hanno trasformato le omelie in arringhe di accusa e minacce nei confronti del Patriarcato e del Sinodo. In chiesa si va per pregare ed affidarsi a Dio, non per schierarsi. Non abbiamo bisogno di sacerdoti come loro. Io spero che il Vaticano appoggi la linea del Patriarcato. Se così non sarà per la Chiesa Caldea sarà la fine. Da Roma dovrà venire una decisione chiara. Non abbiamo alcun dubbio, anche se affermarlo è doloroso ed imbarazzante: la colpa di questa situazione è da addossare a Mons. Jammo. I sacerdoti ed i monaci nella maggior parte dei casi sono le sue vittime perché è lui che li ha accolti e convinti a restare pur sapendo che non era corretto. Facendo così ha ferito la Chiesa, dato il cattivo esempio e creato un precedente che non deve ripetersi"
E se Mons. Jammo non accettasse di dimettersi?
“Se non accettasse e se il Vaticano non lo esonererà sarò io a lasciare la carica patriarcale che non avrebbe più nessun senso, se non quello di un titolo onorifico cui non tengo. Il Vaticano può farlo alla luce di quanto è successo e dei suoi precedenti. Dovrà trattarsi di una decisione senza compromessi, per il bene della Chiesa.”
Le forti parole di Mar Sako, e l’intransigenza mostrata da Mons. Jammo, in questa ed altre questioni che negli anni hanno contrapposto i due prelati, fanno presagire dei cambiamenti nella chiesa caldea.
Quali potrebbero essere le soluzioni di questa controversia dopo il Sinodo straordinario e l’incontro in Vaticano? Le ipotesi sono diverse, ma solo dopo il 17 di febbraio si conoscerà il futuro corso della questione.
Mons. Jammo potrebbe fare marcia indietro, pentirsi e chiedere scusa. Soluzione possibile ma improbabile che potrebbe mantenere il vescovo al suo posto fino al suo 75° anno di età (nel 2016) ma senza nessun potere e credibilità, e che comunque non risolverebbe la questione dei sacerdoti ormai espulsi.
Mons. Jammo potrebbe trovare appoggio in Vaticano e ciò potrebbe portare, come dichiarato, alle dimissioni del Patriarca, ad una conseguente gravissima crisi per la Chiesa Caldea ed alle enormi difficoltà nel trovare e nominare un eventuale successore che saprebbe in anticipo di non avere nessun potere, neanche se appoggiato dal Sinodo, nei confronti di chi volesse operare al di fuori delle decisioni sinodali.
Mons. Jammo potrebbe accettare di dimettersi come suggerito da Mar Sako. Il suo posto sarebbe preso da un Amministratore Apostolico e poi da un Vescovo che, si può pensare, sarebbe scelto per la fedeltà al Patriarcato, e certo non avrebbe compito facile in una diocesi numericamente importante e ricca, e da sempre abituata a riconoscere solo il suo vescovo come capo.
Mons. Jammo potrebbe rifiutare di dimettersi creando così una frattura insanabile tra lui, la chiesa caldea e la chiesa cattolica universale che potrebbe addirittura sfociare in uno scisma e nella creazione di una nuova chiesa negli Stati Uniti.
Il Vaticano potrebbe chiedere al Patriarca la pazienza di aspettare che Mons. Jammo compia i 75 anni di età nel 2016 “congelando” la situazione e rimettendola al Sinodo caldeo successivo al pensionamento del presule. Una soluzione che però Mar Sako ha affermato di non potere accettare parlando di “decisione chiara” e “senza compromessi”.
Insomma, un problema spinoso per il Vaticano e la Chiesa Caldea che, invece, mai come di questi tempi avrebbe bisogno di concentrare tutte le sue forze nell’assistenza di centinaia di migliaia di persone che non vivono in California ma nelle tende nel nord dell'Iraq.