Sette riti o famiglie liturgiche orientali sono in uso oggi: il rito armeno,
il bizantino, il copto, l’etiopico e tre riti siriaci: l’assiro-caldeo, il
siro-antiocheno e il siro-maronita. Sono nati e si sono sviluppati attraverso
le usanze liturgiche delle zone culturali dell’Impero romano d’oriente e dei
paesi limitrofi nel Caucaso, nella Mesopotamia e nell’Etiopia. Una volta si
designavano come alessandrino, antiocheno, o bizantino secondo il luogo della
loro presunta provenienza. Il rito liturgico, linguaggio in cui una Chiesa
particolare esprime la sua identità, assomiglia alla lingua parlata: sia il
rito che la lingua provengono da rito e lingua più antichi, come le lingue
romanze vengono dal latino volgare.
Il rito bizantino
Siamo abituati a credere che il rito bizantino sia la tradizione liturgica
formatasi nella nuova città capitale di Costantinopoli, fondata da Costantino
nel 324 nell’entroterra del porto di Bisanzio. Ma il rito bizantino è ibrido.
La sua liturgia eucaristica e degli altri sacramenti è sintesi delle usanze
liturgiche “cattedrali” di Costantinopoli.
Rinomato per la sontuosa solennità del suo cerimoniale e per la sintesi di
simbolismo e di iconografia liturgica, il rito bizantino eredita gli splendori
imperiali della Costantinopoli giustinianea (527-565) e la sintesi
teologico-simbolica gradualmente attuata tra il ix
e il XIV secolo nei monasteri
ortodossi, a partire dalla vittoria sull’iconoclasmo. Quale rito orientale più
diffuso, il rito bizantino è l’unico rito pluriculturale dell’Oriente
cristiano. Si è esteso al mondo greco dell’antico Impero romano d’oriente
compresa l’Italia meridionale, come pure ai Georgiani, ai Romeni, agli
Ungheresi, ai popoli dei Balcani, a tutta la Rus’ di Kiev e a diversi popoli
slavi, e agli Arabi.
Il rito armeno
La culla storica dell’Armenia cristiana è sulle coste del lago Van, a
oriente della Cappadocia greca e a nord dell’Osrhoene e Adiabene siriache. Dal III al v
secolo l’influsso cristiano nella formazione del patrimonio liturgico armeno
raccolse a sud l’eredità siriaca della Mesopotamia e quella greca proveniente
dalla Cappadocia. Benché questo cristianesimo armeno esistesse già prima
dell’evangelizzazione attribuita a san Gregorio l’Illuminatore (ca. 231-325), tuttavia,
dopo che Gregorio venne consacrato vescovo da Leonzio di Cesarea in Cappadocia
intorno al 302, era predominante l’influsso greco cappadoce sulla formazione
del rito armeno, soprattutto sulla liturgia eucaristica e sull’Ufficio divino,
mentre prima c’era stato l’influsso cristiano siriaco sui riti d’iniziazione.
In seguito, dal v al VII secolo, quando la tradizione
cristiana armena locale era nella sua epoca d’oro, ci fu anche l’efficace
influsso di Gerusalemme. Quindi seguì un periodo di forte bizantinizzazione,
dal ix al XIII secolo, quando l’influsso politico ed ecclesiale
costantinopolitano era particolarmente attivo. Per questo il rito armeno
conserva una chiara impronta bizantina, fino al punto che potrebbe sembrare
imparentato a quello bizantino.
Il rito armeno, ancora celebrato in Grabar, lingua armena classica, è
noto per il carattere “cattedrale” del suo Ufficio divino, nonché per lo
splendore dei suoi paramenti e la bellezza del suo canto liturgico.
Il rito assiro-caldeo
La relazione tra le tre famiglie liturgiche siriache — assiro-caldea,
siro-antiochena, siro-maronita — è complessa. Tre centri liturgici principali
hanno avuto maggior influsso sul formarsi di questi riti: Antiochia,
Gerusalemme ed Edessa. Di questi, solo Edessa era centro di lingua e cultura
siriaca; le altre due erano città greche, benché avessero una minoranza di
lingua siriaca.
Il rito della Mesopotamia, che costituisce l’attuale rito assiro-caldeo, è
siriaco e le sue origini si possono probabilmente rintracciare in Edessa. Usato
oggi dai membri della Chiesa d’Oriente, che si dicono Assiri, dai Caldei e dai
cattolici malabaresi, il rito corrisponde agli antichi usi della Chiesa
mesopotamica dell’Impero persiano, che aveva il suo centro ecclesiastico nel
catholicosato di Seleucia-Ctesifonte sul fiume Tigri, una cinquantina di
chilometri a sud di Baghdad, nell’attuale Iraq.
Si sa molto poco sulla prima formazione del rito assiro-caldeo, sebbene esso
contenga ancora composizioni attribuite a padri siriaci antichi, come Efrem (†
373) e il suo contemporaneo Giacomo, vescovo di Nisibi, il catholicos Simeon
bar Sabba’ê († ca. 341-344), Marutha di Maipherkat († ca. 420), e Narsai (†
502).
La disposizione liturgica della chiesa, con il bema al centro della
navata per la liturgia della Parola, l’antichissima anafora degli apostoli
Addai e Mari, e i riti liturgici come il canto «Laku Mara» (A Te, Signore) e la
sua colletta, conservano fino a oggi carattere di rara antichità. La liturgia
assiro-caldea delle ore, come quella armena, è rimasta ampiamente “cattedrale”.
Sebbene l’Ufficio di oggi rechi tracce d’influsso monastico, le tre ore del
mattutino “cattedrale”, dei vespri e della vigilia festiva “cattedrale” hanno
mantenuto integra la loro purezza originaria.
L’evento storico più significativo nella formazione di questo rito fu
indubbiamente la riforma promossa dal catholicos Isho’yahb III nel 650-651 e attuata nel monastero
superiore o convento di Mar Gabriele a Mossul.
II rito siro-antiocheno
Il rito siro-antiocheno o siro-occidentale costituisce la tradizione degli
ortodossi siriaci nel patriarcato di Antiochia e in India, così come dei
cattolici siriaci e malankaresi. È una sintesi dell’elemento siriaco
originario, soprattutto degli inni e delle altre parti corali, con materiale tradotto
da testi liturgici greci di provenienza antiochena e agiopolita. Questa sintesi
venne attuata da comunità monastiche di lingua siriaca, non calcedonesi, nel
Tur ‘Abdin, nell’entroterra della Siria, della Palestina e di parti della
Mesopotamia, oltre che in città greche del litorale mediterraneo.
Il rito maronita
Il rito maronita, una volta considerato variante latinizzata della
tradizione siro-antiochena, è una sintesi autonoma che probabilmente può essere
rintracciata nelle comunità calcedonesi di lingua siriaca che cercavano di
stabilirsi in Siria, conservando le loro antiche usanze siriache, senza subire
un eccessivo influsso “greco” dalle popolazioni calcedonesi grecofone. Più
tardi, molti di questi calcedonesi di lingua siriaca vennero bizantinizzati, ma
gli antichi riti siriaci furono conservati e sviluppati dai monaci che si erano
rifugiati nelle montagne del Libano all’inizio dell’VIII secolo, stabilendo così le basi per la Chiesa maronita.
Questa Chiesa venne in contatto con i Crociati nel medioevo e subì un
progressivo influsso latino. Ma l’Ufficio divino non fu toccato e la liturgia
eucaristica originaria poté essere ripristinata nel XX secolo.
Il rito copto
La cristianità egiziana iniziò ad Alessandria e fu greca, ma dal III secolo ci furono numerosi convertiti
tra i copti, e le Scritture e la liturgia erano già nella lingua nativa. Fu
soltanto dopo la nascita del monachesimo che la Chiesa copta si costituì come
un contrappeso autoctono alla cosmopolita Chiesa di Alessandria, teologicamente
sofisticata ed ellenica, il cui intellettualismo speculativo e spiritualizzante
era in netto contrasto con la pietà tradizionale popolare del Sud, di cultura
orale, trasmessa attraverso detti, proverbi, rituali, piuttosto che con i
trattati teologici. Questa cultura monastica — concreta, popolare, ascetica —
creò la liturgia e gli uffici della Chiesa copta.
L’influsso liturgico del monachesimo copto nativo sulla formazione del
patrimonio liturgico copto risale ai primi secoli della Chiesa copta. La vera
culla dell’originaria cultura ecclesiastica copta è l’alto Egitto, nel
monastero Bianco vicino ad Achmin, non lontano dall’attuale città di Sohag.
Sotto il suo terzo abate Shenoute (ca. 383-451) esso diviene centro della
letteratura sahidica, o della lingua classica della scrittura copta.
L’attuale lingua liturgica, il bohairico, è un dialetto del basso Egitto. La
sua importanza è connessa alla fortuna del monastero di San Macario a Scete.
Infatti a partire dal Concilio di Calcedonia (451), evento spartiacque nella
storia di tutta la cristianità del Medio Oriente, si può rintracciare il ruolo
del monastero di San Macario nello sviluppo della Chiesa copta e della sua
liturgia.
In conseguenza al Concilio i non-calcedonesi subirono gravi persecuzioni e
il patriarcato, costretto a lasciare Alessandria, si rifugiò a Scete nel
monastero di San Macario, che divenne in tal modo centro della Chiesa copta.
L’odierno rito copto è fondamentalmente la tradizione di Scete modificata da
successive riforme. Il patriarca Gabriele ii
Ibn Turayk (1131-1145) ridusse il numero delle anafore alle tre attuali, e
Gabriele v (1409-1427) compose un Ordine
liturgico per unificare gli usi divergenti in Egitto. Ancor oggi questi
regolamenti governano il rito copto.
Come c’è da aspettarsi, il rito orientale che conserva la forma monastica
più pura è quello della Chiesa copta d’Egitto. È un rito estremamente
penitenziale, contemplativo, protratto per ore, solenne, persino monotono, meno
dotato di poesia speculativa, di splendore simbolico e di sontuoso cerimoniale
rispetto, ad esempio, alle tradizioni bizantina o armena.
Il rito etiopico
Sono pochi i dati sicuri circa il background storico del rito etiopico, se
si eccettua la certezza che alcuni aspetti di quel rito sono di origine
alessandrina, soprattutto per l’eucaristia e gli altri riti sacramentali. Ma
l’Ufficio divino etiopico si è prestato alla creatività nativa dei monaci
etiopici, e ci sono più uffici divini etiopici, comprese le ore monastiche di
provenienza copta. Come il rito copto, la tradizione etiopica ha non solo
queste ore monastiche ma anche altri uffici paralleli di tipo “cattedrale” che
rimangono separati, senza fondersi in un solo ufficio monastico-cattedrale
ibrido, come in altre famiglie liturgiche.
Il rito etiopico ha una forte impronta monastico-ascetica e mariana, con gli
stessi numerosi periodi di digiuno dei copti, e numerosissime feste della Madre
di Dio. È un rito rinomato per la danza liturgica e le sue processioni, il suo
clero vestito in paramenti e copricapi sontuosi, con ombrelli e bandiere
multicolori; un rito non solo cantato ma ballato, i cui “maestri” (dabtara) o
cantori sono sempre in movimento al ritmo dei tamburi, oscillando come alberi
agitati dal vento.