By Asia News
Pierre Balanian
I giovani caldei della squadra di Zirofan proteggono senza armi la chiesa di Sant’Elia nella zona cristiana di Erbil. Hanno l’aria rilassata. “Non portiamo armi” dicono “perché qui non ce n’è bisogno. Siamo qui perché dobbiamo coprire le ore di lavoro e meritarci lo stipendio”. Tutti loro sono parte dell’Unità cristiana [ortodossa] per la difesa della Piana di Ninive. Ora che la guerra contro Daesh è finita, aspettano di far parte del futuro esercito regolare del Kurdistan indipendente.
I giovani caldei della squadra di Zirofan proteggono senza armi la chiesa di Sant’Elia nella zona cristiana di Erbil. Hanno l’aria rilassata. “Non portiamo armi” dicono “perché qui non ce n’è bisogno. Siamo qui perché dobbiamo coprire le ore di lavoro e meritarci lo stipendio”. Tutti loro sono parte dell’Unità cristiana [ortodossa] per la difesa della Piana di Ninive. Ora che la guerra contro Daesh è finita, aspettano di far parte del futuro esercito regolare del Kurdistan indipendente.
Vi è un certo ottimismo nell’aria, ma per i cristiani le cose sono
sempre un po’ diverse in Medio Oriente. Gergis, per esempio, che oggi
lavora in un albergo di Erbil, si trova qui da tre anni; è originario di
Ahmadia, un villaggio una volta interamente abitato da cristiani.
Occupato e distrutto dall’Isis, oggi è liberato. Gergis ricorda: “Noi
eravamo riusciti a scappare due giorni prima dell’arrivo di Daesh e ci
siamo rifugiati qui ad Erbil”.
Ad Ahmadiya era rimasto soltanto un uomo anziano che gli integralisti
appena arrivati avevano lasciato in pace per poi costringere anche lui
ad andare via. Adesso come lui, la maggior parte degli abitanti di
Ahmadiya, si trova qui ad Ankawa, la zona cristiana di Erbil. Alcuni
sono ritornati, ma Gergis vuole ancora aspettare. “Abbiamo la casa
distrutta - dice - e non c’è lavoro”.
Ammar invece è un cristiano di Baghdad. E’ stato minacciato da Asaba
Ahl el Haq, una milizia paramilitare sciiita che lo ha “consigliato di
andare via” ed è venuto quattro fa anni ad Erbil. Lavora ed è trattato
bene, ma ora, a pochi giorni dal referendum sull’indipendenza del
Kurdistan, fissato per il 25 settembre, si domanda se deve preparare di
nuovo le valigie, per andare non si sa dove.
Ad Erbil non si parla d’altro: “Il referendum”, un sogno decennale
per i cristiani, millenario per i curdi. Ovunque si vedono le bandiere
tricolori con il sole al centro, simbolo del Kurdisan che sorge. I
manifesti per il “bale bu referendumi (Si a questo referendum)” sono
dappertutto, perfino sulle autovetture private, sui pullman che girano
colmi di adolescenti che sventolano le bandierine e gridano a squarcia
gola “Bale, bale” , “Sì! Sì!” in curdo.
Alan è un giovane di 27 anni. Studia per diventare regista televisivo
e ha quasi un posto di lavoro assicurato in una rete televisiva
cristiana che un prete dalla Svezia intende lanciare da qui a breve.
Pensa fiducioso all’avvenire. “Ho conosciuto solo guerre - dice. Un
Kurdistan indipendente porterà la pace”.
Alan è fortunato: suo padre è proprietario di un albergo; lui
prosegue gli studi e parla la lingua curda. Non è la stessa cosa per
Samer, anch’egli cristiano, 17 enne, che non riesce a proseguire gli
studi e prendere il diploma nel Kurdistan anche se originario di là. Gli
manca un solo esame, quello di lingua curda, che lui ignora: parla il
caldeo e l’arabo ed era nato e cresciuto a Mosul dove i suoi genitori si
erano trasferiti prima ancora che lui nascesse. A Mosul si studiava in
arabo.
Ovunque si dice che i cristiani sono ben visti e protetti nel
Kurdistan, ed è vero. Ma la presenza di partiti islamici incute timore e
dubbi. Alcuni di questi partiti hanno perfino avuto da ridire perché
sulla facciata di un albergo costruito di recente sulla strada da Duhok a
Zakho, di notte con le luci si proietta un’ombra a forma di una croce.
Gli islamisti hanno dovuto rinunciare a fare storie: le autorità hanno
detto loro che si poteva ristrutturare e modificare l’architettura
esterna (e l’illuminazione) se i partiti islamici avessero pagato i
costi.
C’è fuoco sotto la cenere e i cristiani hanno paura, mentre questa
specie di “matrimonio forzato” dei curdi con il governo centrale di
Baghdad si sta sgretolando giorno dopo giorno.
Il referendum “si farà di sicuro”, dicono tutti. Ma nelle ultime ore
si sono intensificati contatti e visite diplomatiche - ufficiali e non -
che consigliano di fermarlo.
Lo ha detto una delegazioni russa, che due giorni fa ha firmato un
contratto per lo sfruttamento di gas per un periodo di 50 anni; il
ministro britannico della Difesa ha dato lo stesso consiglio. Sono
intense le telefonate ed i contatti con tutte le cancellerie europee
ed arabe. Gli Stati Uniti, alleato sia dell’Iraq che dei curdi, hanno
proposto una mediazione, anche se secondo alcune fonti, e per ogni
evenienza, hanno già fatto arrivare circa 50 mila soldati nella loro
base ai confine meridionali del Kurdistan.
Ci sono poi le minacce dirette del governo centrale che ha dichiarato
anti-constituzionale il referendum, e quelle del partito di Alleanza
nazionale al potere, che ha già fatto sapere che non riconoscerà il
referendum e lo considererà nullo e come non avvenuto.
Infine vi è la grande incognita: la Turchia. Ankara non nasconde le
sue mire espanzionistiche su Kirkuk e Mossul e vede un’occasione
propizia per intervenire ed annettere quello che considera fosse Stato
suo, strappato dagli inglesi colonialisti. Intanto ammassa truppe al
confine, ed in attesa fa agitare i turkmeni che due giorni a Kirkuk
hanno aperto il fuoco contro persone favorevoi al “Si”, radunati per
festeggiare.
Intanto i comizi ed i “Carnaval” - come chiamano qui in curdo i
festival a favore del referendum - si molteplicano. Quello di ieri a
Sulaymaniyah; l’altro ieri a Soran; quello di sabato, la notte prima del
referendum, ad Erbil.
Secondo fonti di alto livello del governo locale curdo, gli Usa
insistono che il referendum sia rimandato, in cambio di colloqui
“costruttivi” sotto l’egida di Washington, “trattative serie fra
Baghdad ed Erbil per una durata massima di tre anni”. Passata tale
scadenza, il dossier della separazione verrà sottomesso all’attenzione
all’Onu, nel caso che le parti abbiano fallito nel raggiungere un
accordo di divorzio consensuale. Secondo nostre fonti, la parte curda
sembra piuttosto aperta a inizare le trattative con il governo federale.
Massoud Barzani, presidente della Regione autonoma del Kurdistan, ha
fatto sapere ieri di essere disposto a fare un passo indietro,
annullando il referendum, “nel caso ci fosse una vera alternativa”,
senza specificare quale.
La giornata del 25 settembre 2017 verrà comunque dichiarata “Giornata
di grande festa nazionale”. Nel “Carnaval” tenutosi il 18 settembre a
Soran, Barzani ha anche aggiunto: “Ci chiedono di ritornare alle linee
verdi per disegnare i confini del Kurdistan[1].
Noi diciamo loro non siamo nemmeno pronti a discutere di questo”. Egli ha definito il governo iracheno attuale come “uno Stato religioso e non uno Stato federale e per questo motivo vogliamo l’indipendenza e non le cariche”. “A Baghdad si pensa che i curdi aspirino ancora alle cariche, ha detto, ma questo fa ormai parte del passato”.
Noi diciamo loro non siamo nemmeno pronti a discutere di questo”. Egli ha definito il governo iracheno attuale come “uno Stato religioso e non uno Stato federale e per questo motivo vogliamo l’indipendenza e non le cariche”. “A Baghdad si pensa che i curdi aspirino ancora alle cariche, ha detto, ma questo fa ormai parte del passato”.
La popolazione curda, incurante di quanto avviene dietro le quinte,
preferisce festeggiare già ora la desiderata e tanto attesa
“indipendenza”. Importa poco se avverrà o meno: nelle loro teste è già
avvenuta, e alla domanda se quest’azione darà adito ad azioni bellicose
da parte dell’esercito turco o anche solo iracheno rispondono. “Abbiamo
avuto Daesh; niente potrà essere peggio”.
Ma i cristiani hanno paura: se scoppia una guerra, gli uomini
andranno al fronte e resterebbero in città solo i partiti islamici.
Molte famiglie turkmene e yazide hanno ricevuto minacce e
intimidazioni a non votare per il referendum. Per questo, con
discrezione, esse si sono allontanate verso il Sinjar, per evitare di
trovarsi in Kurdistan durante il referendum. Anch’essi temono i partiti
islamisti, ma asicurano di voler ritornare una volta passata la bufera
del referendum.
[1] Linea di demarcazione che nel 2003 delimitava il confine della presenza delle truppe irachene.